Seminario Fiom - Napoli, 30-31 marzo 2004

Il lavoro al centro. Quali risposte alla crisi strutturale dell’economia italiana?


- Rinaldini: “Dobbiamo dotarci di una Consulta economica e sociale che affianchi la Consulta giuridica”. Tutti i docenti e gli esperti intervenuti al seminario di Napoli.  Roma, 31 marzo 2004

- Rinaldini: “Intervento pubblico e contratto nazionale sono le basi da cui partire per realizzare una svolta radicale del nostro sistema industriale”. Concluso il seminario di Napoli. Roma, 31 marzo 2004

- Nencini: “Servono delle politiche di settore per dare una cornice alla programmazione negoziata”. Prosegue a Napoli il seminario Fiom sulla crisi economica del nostro paese. Napoli, 31 marzo 2004

- Cremaschi: “C’è una crisi di consenso alle politiche neo-liberiste”. Al Seminario di Napoli, si delinea l’analisi dei metalmeccanici Cgil sui fattori di crisi dell’industria italiana. Napoli, 30 marzo 2004

- Aperti a Napoli i lavori del seminario sulla crisi dell’economia italiana. Napoli, 30 marzo 2004


SINTESI DELL’INTRODUZIONE DI GIORGIO CREMASCHI (SEGRETARIO NAZIONALE FIOM-CGIL, RESPONSABILE DELL’UFFICIO SINDACALE)

Il dato di fondo che abbiamo di fronte è quello della più grave crisi industriale dal dopoguerra a oggi. Mai, per tre anni di seguito, c’era stato il segno meno nel prodotto industriale, mentre contemporaneamente il prodotto complessivo ristagna. Questo ci fa dire che siamo di fronte a una crisi strutturale, che registra il venire al pettine di nodi aggrovigliati da tanto tempo e nello stesso tempo la somma di questa situazione con il liberismo insipiente dell’attuale governo.

Negli ultimi tre anni il governo ha agito con le reazioni pavloviane del liberismo. Di fronte a tutte le difficoltà economiche crescenti ha sempre puntato sull’idea che la riduzione della spesa pubblica, il taglio dei salari e l’attacco ai diritti, le agevolazioni per le imprese, fossero di per sé fattori sufficienti per garantire la ripresa.

In realtà la situazione italiana e internazionale ci fa dire che queste misure sono sempre più inefficaci oltreché ingiuste, tanto è vero che occorrono a dosi sempre più alte per ottenere risultati sempre più inconsistenti. Ora i nuovi annunci sulla riduzione delle tasse ai ricchi e sull’aumento delle giornate di lavoro, in presenza di problemi di bilancio pubblico e di stagnazione della produzione, ci dicono semplicemente che il liberismo del governo è arrivato al capolinea delle sue contraddizioni. Non per questo, però, è meno pericoloso. Se davvero Berlusconi dovesse attuare le misure annunciate produrrebbe un tale sfascio, da rendere ancora più irreversibile la crisi. Come ha fatto Bush negli Stati Uniti. Per questo va dato un altolà al governo bloccando sul nascere queste misure, anche con la minaccia di un nuovo sciopero generale.

Le ragioni strutturali della crisi industriale e del suo riflesso ancor più drammatico nel Mezzogiorno sono riconducibili tutte a questioni strategiche che vanno affrontate come tali. Ne elenchiamo le principali:

- la crisi del sistema della grande impresa;

- la fine delle partecipazioni statali non rimpiazzata da nulla;

- la concentrazione del sistema bancario e la fine della media banca collocata nel territorio;

- la crisi conseguente dei sistemi distrettuali;

- la fine di un ciclo di investimenti “di processo” e l’assenza di quelli “di prodotto”.

A questi elementi specifici della crisi del sistema industriale e delle sue forme di finanziamento, decisiva ad esempio è la fine delle piccole imprese bancarie territoriali che finanziavano le piccole imprese industriali, si aggiungono poi fattori strutturali che coinvolgono complessivamente l’economia del paese:

- la pessima distribuzione del reddito che ha prodotto una crescente stagnazione economica;

- la rivalutazione dell’Euro che, accompagnata a un’inflazione interna priva di controllo, ha peggiorato drammaticamente i termini di scambio per il nostro paese;

- l’assenza strutturale e consolidata di un livello di investimenti nella ricerca adeguati alle dimensioni del sistema economico. Oggi l’Italia è sotto la Corea del Sud e tanti paese industriali emergenti;

- il permanere di contraddizioni strutturali nello sviluppo, nella scolarità, nel territorio, nelle infrastrutture, nella vita civile;

Infine, è bene sottolineare che questi dati strutturali dell’economia si incrociano con una politica che interpreta nella maniera più rigida i canoni del liberismo a livello comunitario, mentre nel nostro paese la devolution rischia di frantumare ulteriormente ciò che resta di una politica nazionale di sviluppo.

In questo contesto, il Mezzogiorno diventa ulteriore elemento di contraddizione e di difficoltà. Dopo anni nei quali pareva che lo sviluppo del Mezzogiorno fosse ad una velocità superiore di quello delle regioni del Centro-Nord, ora la stagnazione colpisce tutto il paese e quindi più pesantemente chi doveva avanzare di più.

Di fronte a questo quadro complessivo bisogna affermare che non vi sono le condizioni per una ripresa dello sviluppo senza un radicale cambiamento di rotta negli indirizzi e negli strumenti della politica economica. Questo era il titolo fondamentale dello sciopero generale del 26. Questo cambiamento di rotta deve avvenire a livello politico e nelle scelte delle imprese e deve partire da due dati di fondo:

- la politica centrata sulla compressione del costo del lavoro e sulle flessibilità dell’offerta ha esaurito le sue capacità competitive. Oggi il lavoro italiano è largamente il più competitivo tra i paesi industriali, ma il sistema italiano è il meno competitivo in assoluto;

- non esiste la possibilità di una ripresa autonoma dello sviluppo. Questo vale per il Mezzogiorno in particolare, ma in generale per tutto il paese. Senza un progetto di crescita industriale, economica e sociale, profondamente integrato, anche se articolato nei suoi obiettivi, e governato dall’intervento pubblico la crisi italiana si accentuerà.

Sulla base di queste due considerazioni di fondo proponiamo queste direttrici per una nuova politica industriale del lavoro:

- una redistribuzione del reddito a favore del lavoro e delle pensioni che innesti una ripresa della domanda, anche in una dimensione europea. Occorre superare l’idea che un continente di 400 milioni di persone con redditi medio-alti, rispetto a tanta parte del resto del mondo, debba competere solo sul terreno dell’esportazione. La crescita della domanda interna dell’Europa e dell’Italia è condizione dello sviluppo e va affrontata anche attraverso la messa in discussione dei vincoli del Patto di stabilità;

- il ritorno della programmazione industriale per settori, con veri progetti programma nei quali lo stato e le regioni, assieme, definiscano i settori nei quali far convergere risorse e programmi. Occorre definire degli obiettivi da verificare con tutte le parti sociali. Scopo di questa programmazione è quello di garantire in Italia la permanenza della produzione industriale nei settori strategici;

- occorre favorire la crescita dimensionale delle imprese abbandonando l’ipotesi della frantumazione del lavoro e dei suoi diritti e sviluppando, invece, meccanismi di incentivo alla crescita delle imprese e all’assunzione a tempo indeterminato;

- occorre finanziare la ricerca e l’innovazione, con un coordinamento decisivo da parte degli enti pubblici;

- occorre ripristinare l’intervento di gestione dello stato e degli enti pubblici dei settori strategici, partendo dall’esistente, ad esempio dall’ampliamento della Finmeccanica e delle altre aziende nazionali e locali a maggioranza pubblica, ricostruendo un sistema complessivo di partecipazioni pubbliche al sistema industriale e di sviluppo. Resta centrale l’intervento in Fiat;

- è necessario riavviare il percorso della democrazia industriale, interrotto negli anni Ottanta.

Accanto a queste misure più specificamente di politica industriale occorre definire dei grandi interventi di sviluppo dei fattori di qualità della crescita. Bisogna quindi in primo luogo puntare sulla crescita dell’istruzione di massa, ribaltando l’impianto dell’attuale legislazione del governo. Bisogna puntare sul risanamento ambientale, e sulla crescita della qualità della vita come fattori di sviluppo e di innovazione. Bisogna infine puntare a una politica fiscale di lotta radicale contro l’evasione che sia funzionale al reperimento delle risorse necessarie per lo sviluppo.

Il Mezzogiorno ha bisogno di tutti questi interventi in misura moltiplicata. Si tratta di sconfiggere non solo l’idea della autosufficienza del mercato, ma anche le forme specifiche che essa sta assumendo in Italia, attraverso la devolution, i patti d’area, la frantumazione sociale e contrattuale. Il tentativo di trasferire nel Mezzogiorno il modello del distretto industriale è fallito, quasi contemporaneamente alla crisi “alla fonte” di questo modello: nello stesso Nord-Est del paese. Occorre invece affermare il principio che il Mezzogiorno ha bisogno dell’industria e della grande industria e che compito della programmazione è costruire un impatto territoriale e sociale adeguato dell’investimento industriale nel territorio.

Occorre affrontare alla radice la questione del credito. Il nostro paese ha vissuto un processo di ristrutturazione del sistema creditizio che ha portato a una concentrazione del sistema bancario i cui effetti sull’economia complessiva sono nulli. La politica del credito, dopo le vicende Parmalat, rischia di essere ancora più restrittiva e legata agli interessi dei poteri forti. Occorre dunque ripristinare strumenti di credito a favore della piccola e media impresa, del Mezzogiorno, delle aree più deboli.

Infine, va affermato un nuovo modello di gestione democratica delle risorse. Non si può prescindere, quando si parla dell’intervento pubblico, dalla capacità di spendere che hanno gli enti pubblici, a tutti i livelli. E’ una grande questione di democrazia e di trasparenza, oltreché di legalità. Se le regioni non riescono a spendere nemmeno i fondi pubblici comunitari, se lo stato costruisce un bilancio fondato tutto sulla gestione di cassa e sulla finanza creativa, se gli organi di lotta alla criminalità economica vengono tutti esautorati o eliminati, se manca una partecipazione democratica alle scelte economiche, non c’è nessuno spazio per una ripresa dello sviluppo.

Per queste ragioni, l’approccio che noi proponiamo è quello di tenere assieme questione sociale, questione economica, questione democratica. Non solo perché questo fa il liberismo, questo fanno Berlusconi e la sua maggioranza. Ma perché una nuova possibilità di sviluppo, in un paese industrialmente avanzato come il nostro, nasce solo da un radicale progetto riformatore alternativo al capitalismo liberista. Per questo, quando difendiamo il Contratto nazionale e respingiamo il federalismo contrattuale, facciamo politica economica e quando difendiamo le grandi imprese e affermiamo la necessità dello sviluppo del Mezzogiorno facciamo politica sociale.

Napoli, 30 marzo 2004