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24 gennaio 2002 - Il saluto del Congresso al compagno Gino Mazzone.

ore 18.00 prende la parola Claudio Sabattini, per porgere il saluto del Congresso al compagno Gino Mazzone.

Ci tengo molto a fare questo breve intervento, per annunciare che uno dei dirigenti più importanti che la Fiom ha avuto negli ultimi decenni, il compagno Gino Mazzone, alla fine di questo Congresso lascerà la Fiom. E non la lascerà perché vuole andare da un'altra parte, lascia la Fiom e come si dice nelle favole "Ritorna ai suoi cari, ai suoi figli, a sua moglie, alla sua casa". E qualcuno dice persino "Ad aggiustare orologi", perché gli orologi per Gino rappresentano l'hobby della vita - oltre che, ovviamente, fare il dirigente sindacale.

Io ho cercato di dire a Gino perché gli orologi sono così importanti, non ci sono mai riuscito perché Gino non crede alle simbologie complesse. Ho cercato di dirgli che l'orologio conta il tempo e che pochi sono gli organi del corpo umano che contano il tempo. Ma Gino non ci ha mai creduto.

(…) La storia di Gino è innanzitutto la storia  di un operaio. Di un operaio che è entrato in fabbrica negli anni Sessanta, e quindi che ha conosciuto pezzi importanti di un processo sociale in un'Italia in cui si apriva una fase politica diversa dove vi era una feroce resistenza padronale per impedire che si iniziasse un processo vero e proprio di conquista dei diritti essenziali per i lavoratori e le lavoratrici.

E nel momento in cui avvengono fenomeni importantissimi nella storia della Fiom, tutti ricordano il natale degli elettromeccanici a Milano, le grandi lotte che hanno spostato gli orientamenti generali dell'insieme dei lavoratori e gli orientamenti generali e la collocazione della Fiom in una fase vera e propria di sviluppo, di crescita, di avanzata; in quel momento si viveva una fase complessiva di iniziativa economica e produttiva che portava l'Italia ad aprirsi - finalmente - a fasi politiche diverse, e quindi da questo punto di vista ad affrontare in modo diverso i problemi industriali e sociali nel nostro paese.

E' una grande fase di trasformazione quella degli anni Sessanta, ed è proprio quella in cui - non solo la Fiom, ovviamente - i meccanici, i chimici, i tessili, le grandi categorie industriali aprivano un confronto diretto, più teso e immediato con le controparti e iniziava la vera e propria fase di contrattazione. Iniziano, cioè, ad affrontarsi i problemi del lavoro, il rapporto tra lavoro e produzione, i primi premi di produttività all'apertura di una fase di contrattazione nelle fabbriche, la ripresa di una soggettività operaia che per un lungo periodo di tempo aveva resistito ma aveva duramente combattuto, come abbiamo detto nel nostro Congresso.

Quindi un giovane operaio che entra nella fabbrica negli anni Sessanta, attraversa il '68, diventa un po' estremista anche lui - come tanti operai nel Sessantotto - nel senso che viene conquistato da questo clima particolarmente significativo dei rapporti tra operai, studenti. Un momento in cui si liberalizzano tanti processi, compresi i rapporti umani, i rapporti sociali e personali, in cui appare che ciò che prima sembrava un peccato si trasforma in un piacere, e quindi - da questo punto di vista - una fase che cresce realmente sul piano della cultura, sui diritti, sul piano della stessa visione del mondo.

A me pare che proprio questa strada fondamentale - gli anni Sessanta e gli anni Settanta - abbiano segnato profondamente le caratteristiche strutturali e fondative di un operaio che vuole, oltre che fare l'operaio, imparare. E come si sa, in quel periodo, imparare voleva dire studiare per conto proprio, capire, andare alle riunioni di partito, essere criticati, ritornare in fabbrica. Allora, negli anni Sessanta, non c'erano i consigli di fabbrica, si parlava a mensa, per i pochi minuti in cui si poteva parlare perché era un modo per informare, chiarire e avere rapporti; cioè la vera e propria fase di costruzione del sindacato, che poi sboccherà nelle grandi battaglie della fine degli anni Sessanta e degli inizi degli anni Settanta.

E quindi il Contratto del 1969 - contratto storico per noi e per tutte le categorie dell'industria - e i contratti successivi, che qualificano ulteriormente la sua crescita politica, sociale e sindacale e lo portano a dirigere importanti organizzazioni della Fiom. E' un operaio della fabbrica. Di una fabbrica che, per così dire, a Roma ha conosciuto tutte le fasi di una trasformazione. E' una fabbrica svedese che continua un suo percorso, inizia prima del Fascismo, continua la sua trasformazione anche al riparo dal Fascismo e dai suoi processi produttivi. E a un certo punto diventa una fabbrica importante - sulla base ovviamente sempre dei brevetti svedesi, e sulla base dei brevetti svedesi oggi è diventata una delle fabbriche più importanti della produzione di telecomunicazioni e di informatica che ci siano a Roma e in Italia.

C'è qualche rapporto, sicuramente, tra l'aver vissuto in una fabbrica grande, significativa, che affronta e attraversa tutte le fasi di ristrutturazione e conoscere il significato intimo di questi processi. La fase di ristrutturazione è sempre una fase che cala sulla tua testa e che cerca di buttar fuori quelli che sono considerati inutili per far entrare altri al loro posto, con il calcolo che il costo del lavoro deve essere sempre tenuto sotto controllo. Ma sono anche i periodi in cui la reazione e la lotta operaia - e la lotta in generale dei lavoratori, perché non c'erano solo gli operai ma anche gli impiegati - porta anche a comprendere profondamente il significato di essere lavoratori; cioè di essere coloro che detengono il potere, che hanno diritti e che sono in grado di affrontare la loro condizione e che sono in grado di migliorarla e che sono in grado di svilupparla.

(…) Io credo che Gino abbia fatto una scelta - che io non condivido - ma l'ha fatta sulla base di quelle ragioni che io ho cercato di dire. E mi permetterei di soffermarmi su un solo particolare, che posso non avere neanche il diritto di raccontare - visto che è un particolare personale - ma in una situazione che considero per lui e per me così importante credo che sia utile: Gino e io abbiamo avuto dei rapporti molto schietti e leali, abbiamo litigato moltissime volte ma non siamo mai riusciti a superare una giornata senza riconciliarci. Non riuscivamo a litigare e a continuare a rimanere separati. C'è qualche cosa dentro a tutto ciò: quello che la grande tradizione socialista considerava con il termine "compagno". Non a caso vuol dire quello con cui mangi il pane, quello che sta con te, assieme a te, che ha diritto di avere le sue opinioni come tu hai il diritto di avere le tue, ma che non porta mai a nessuna rottura. Questa è la differenza del significato di "compagno" rispetto a qualsiasi altra espressione.

Io credo che questa differenza, sinceramente, la dobbiamo mantenere. Ma non lo dico solo per me, lo dico per me e per voi, compagne e compagni.

Credo cioè che la sintesi più intrinseca, più forte della nostra esistenza e della nostra esperienza deriva proprio da questo fatto, da questo nome: dal sentirsi "compagni". Dal sentire, cioè, che abbiamo un'opera collettiva da fare e da sapere che dentro quest'opera collettiva vi saranno confronti, diversità, difficoltà; ma sapere che anche stando ognuno al proprio posto di lotta, di iniziativa, di posizione sindacale, di gerarchia sindacale - permettetemi questa orrenda espressione - pur sempre ognuno di noi ha il diritto di contribuire al pensiero dell'altro, come l'altro ha il diritto di contribuire al nostro pensiero.

Io credo che questo sia il punto fondamentale che ci caratterizza: essere compagni.

Io posso qui testimoniare che Gino Mazzone è sicuramente un grande compagno.

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23 gennaio 2002  ore 21.30 «Israele/Palestina: il conflitto nella globalizzazione»

sala congressi hotel Continental, viale Vespucci,40  Rimini

di Alessandro Pagano

Che rapporto c'è tra l'attività sindacale tradizionale, quella che tutti noi siamo abituati a praticare e l'attività diplomatica e politica necessaria ad aprire qualche spiraglio nella questione israelo-palestinese?

Con questa domanda mi avvicino all'albergo, dove, come evento collegato al Congresso Fiom, sta per iniziare un dibattito sulla questione israelo-palestinese.

So che una delegazione della Fiom ha partecipato all'"Action for peace", una iniziativa europea che si è svolta tra dicembre 2001 e gennaio 2002, tesa alla dissuasione delle violenze contro i palestinesi, nonché alla sensibilizzazione di tutta la comunità internazionale rispetto al problema attraverso la pratica della cosiddetta "diplomazia dal basso", perché ci sia l'invio di osservatori internazionali.

Dentro me, però, spero che l'oggetto della discussione non sia solo il racconto dell'esperienza, ma possa dare una risposta al quesito iniziale. Come sindacalisti, come possiamo renderci utili alla causa palestinese?

Entro nella sala e vedo, al tavolo della presidenza Ali Rashid e sento di essere parte di coloro che lui sta calorosamente ringraziando perché "nessuna altra organizzazione sindacale si è mai impegnata così tanto per la questione palestinese". E questo mi riempie di orgoglio.

Ci racconta di una situazione disperata, più di quanto ci si possa ragionevolmente aspettare. "Disperazione" ha un significato: è la mancanza assoluta di vie di uscita. Una situazione che non può altro che spingere a atti estremi; ed è esattamente ciò che sta succedendo.

Ci racconta di diritti negati, di umiliazioni quotidiane subite da un popolo, a cui è stato sottratto il suolo sul quale ha storicamente vissuto, di vite rese impossibili dagli effetti dell'occupazione.

Una tragedia che si realizza sotto gli occhi distratti della comunità internazionale che tanto potrebbe fare concretamente a partire da una corretta gestione dell'informazione su ciò che succede laggiù.

Mi rendo immediatamente conto che, per quanto sia sensibile alla umana sofferenza, non conosco a fondo i fatti, le idee, la storia che ruotano attorno alla tragedia palestinese, non abbastanza evidentemente per permettermi una opinione davvero corretta.

Le risoluzioni delle Nazioni unite mai applicate, gli Accordi di Oslo mai decollati davvero, i negoziati di Camp David, troppo umilianti per il popolo. Mi chiedo quanta gente conosca a fondo questi aspetti della questione. Eppure basta poco. Basterebbe ascoltare questi uomini per più dei tre minuti concessi all'interno di una trasmissione televisiva.

Un po' delle risposte che cerco cominciano ad arrivare. Cosa posso fare? Informazione corretta, attraverso tutti i canali che la mia posizione di rappresentante dei lavoratori mi permette.

Un altro dei componenti il tavolo di presidenza è il professore universitario Zvi Schuldiner, che scrive per lo stesso giornale su cui scrive spesso Rashid. Porta un punto di vista diverso ma, non ha dubbi sul fatto che si debba partire dal riconoscimento del popolo palestinese, dalla necessità di liberare dalla occupazione i suoi storici territori si debba partire per disinnescare una situazione che è arrivata al limite dell'incontrollabilità.

Ci sono seri rischi che il popolo palestinese sia definitivamente cancellato dalla faccia della terra per mano israeliana, rischi che l'aumento del potere di Sharon ha reso davvero altamente verosimili.

C'è Malentacchi segretario della Fism, che parla degli aspetti sindacali del problema: nel congresso tenutosi in Australia, per la prima volta hanno approvato una mozione che impegna i sindacati aderenti all'organizzazione, compreso quello israeliano, ad affrontare la questione dal punto di vista dell'interesse dei lavoratori inviando missioni sindacali (come già è stato fatto dalla Fism con suoi sindacati italiani, spagnoli, francesi) e chiedendo l'invio di osservatori internazionali.

Nelle repliche, richiamandoci alla estrema urgenza delle azioni da intraprendere, ci invitano a continuare così come stiamo già facendo: informando, diffondendo la verità sulla situazione tra coloro che rappresentiamo, portando testimonianza, visitando i territori, non dimenticandoci di un popolo oppresso e privato della sua libertà. In modo assoluto e umiliante.

Ecco quello che possiamo fare: continuare a convincere chi tra noi non lo sta facendo, con cognizione di causa; obbligarci ad agire in questo senso, da subito, ricordando che fino a che ci saranno popoli oppressi, la giustizia e la libertà saranno solo parole, belle ma non universali.

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