Documenti |
HOME | Dove e come | Programma | Mappe | Diario | Interviste | Documenti | Rassegna stampa | Eventi | Foto
I lavori del XXII Congresso della Fiom si sono conclusi con l'approvazione del documento politico.
Il Comitato centrale della Fiom si è riunito subito dopo la conclusione del congresso e ha eletto come segretario generale Claudio Sabattini.
A seguire, su proposta del segretario generale, sono stati eletti i componenti della segreteria nazionale:
Giorgio Cremaschi, Riccardo Nencini, Francesca Re David, Gianni Rinaldini.
Il Congresso nazionale della
Fiom condivide l’analisi politica e sociale, le proposte avanzate nel
programma di lavoro presentati dal segretario generale della Fiom Claudio
Sabattini nella relazione introduttiva, che rappresentano il contributo che la
categoria porterà al Congresso della Cgil.
Il Congresso nazionale della
Fiom ha in egual modo apprezzato le indicazioni generali e l’esplicito
riconoscimento del contributo dato dalla Fiom in questo Congresso a quello della
Cgil che il segretario generale della Cgil Sergio Cofferati ha sottolineato
nelle sue conclusioni.
Il Congresso inoltre
condivide la ricostruzione delle tappe che hanno caratterizzato l’analisi e la
politica contrattuale della Fiom dal Congresso precedente, presentata nel Rapporto di attività
della segreteria nazionale .
Questo nostro XXII congresso e quello della Cgil si svolgono in una fase in cui sono giunti a maturazione processi complessi che richiedono grande senso di responsabilità al movimento sindacale.
Per il conflitto sociale in corso, per le scelte compiute dalla Fiom, per le questioni più generali aperte con il governo e il padronato italiano, questo è un congresso di lotta e ha il compito di indicare come intendiamo proseguire il percorso che abbiamo intrapreso.
L’assunzione
del profitto e delle regole del capitale finanziario a punto di riferimento
esclusivo, produce la crescita esponenziale delle disuguaglianze fra nord e sud
del mondo, e le esaspera in ogni
Paese.
L’espressione più drammatica della violenza delle relazioni fondate su questa scala di valori è la guerra che si fa globale, che piega la politica agli interessi economici espressi dalle grandi multinazionali. La guerra e il terrorismo deprimono le civiltà, calpestano le libertà, indeboliscono la democrazia e soprattutto provocano sempre vittime innocenti. E’ per noi una scelta strategica definitiva essere contro la guerra; un impegno che ci ha unito particolarmente dopo l’attacco terroristico a New York dell’11 settembre. La Fiom si è dichiarata contro l’intervento militare in Afghanistan. Il terrorismo non ha giustificazioni oltre ad essere strumento di distruzione e di morte, nè giustifica in alcun modo la guerra intrapresa dagli Stati Uniti. La Fiom ritiene necessario opporsi al permanere e all’estendersi di ogni conflitto e alla partecipazione italiana ad ogni azione di guerra.
Per le stesse ragioni solo la politica può trovare una soluzione alla questione palestinese, prima di tutto per mettere fine all’occupazione militare messa in atto dal governo di Israele fermare la repressione e la rappresaglia e imporre il riconoscimento dello stato palestinese, così come previsto dalle risoluzioni Onu. L’Europa si deve impegnare a trovare la forza e l’autorevolezza necessaria per uscire dal silenzio e assumere un ruolo decisivo in un negoziato di pace internazionale.
L’Europa
deve anche svolgere un ruolo primario nella soluzione della questione curda
facendo valere le libertà civili, politiche e culturali, i diritti umani, di un
popolo che da tempo ha scelto la via pacifica per la soluzione del conflitto con
il governo della Turchia.
La
Fiom ha partecipato e continuerà a partecipare portando un proprio punto di
vista ai movimenti non violenti No
Global e ai Social Forum che hanno dato un contributo decisivo che riapre il
quadro interpretativo del mondo esprimendo una forte spinta propositiva di cui
sono esempio la tobin tax, la questione dei brevetti sui farmaci, le proposte
sulla povertà e sul debito. La Fiom è stata testimone a Genova della
repressione scatenata durante il G8 di luglio contro una grande e pacifica
manifestazione, una violenza che ha tragicamente provocato l’uccisione di
Carlo Giuliani e che ha rappresentato l’intolleranza verso ogni forma di
contestazione che questo sistema porta in se. La lotta per la difesa del contratto nazionale, della
democrazia, e contro l’attacco del governo e della Confindustria ai diritti
delle lavoratrici e dei lavoratori insieme all’impegno sulle questioni
internazionali ha portato la Fiom a stringere i legami con una nuova generazione
che è la prima a vivere integralmente nel capitalismo come unico paradigma di
riferimento.
L’Europa
da comunità prevalentemente monetaria deve diventare una vera comunità sociale e politica in grado di proporre un modello
diverso da quello oggi dominante. Anche il sindacato ha bisogno di organizzarsi
rispetto alla nuova realtà economica. Per ciò la Fiom propone di andare oltre
una struttura di collegamento fra i sindacati metalmeccanici europei quale è la
Fem per avviare una fase programmatica unitaria per il sindacato europeo dei
metalmeccanici dotato delle prerogative necessarie per affrontare i temi posti
dall’internazionalizzazione delle imprese. Allo stesso modo la Fism dovrebbe
superare una funzione prevalentemente informativa di denuncia e protesta per
intervenire sulle questioni mondiali che riguardano le libertà sindacali, le
questioni del lavoro, gli effetti concreti delle politiche delle multinazionali.
L’impegno agli accordi sui codici di condotta per il rispetto di tutte le
convenzioni Oil rappresenta un
passo in questa direzione.
La Federmeccanica nello scontro che ha aperto si è incaricata di precorrere l’obiettivo di liquidare il contratto nazionale di lavoro in quanto espressione dell’autonomia del punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori, autonomia non più tollerabile da imprese che a causa della strutturale debolezza del sistema produttivo italiano e dell’assenza di una politica di sviluppo per il Mezzogiorno sono interessate tutt’al più a un patto corporativo aziendalistico per garantirsi il dominio sulla forza lavoro. La pregiudiziale verso la rivendicazione presente in piattaforma di redistribuire con il Ccnl una quota della ricchezza accumulata dalle imprese riconoscendo il buon andamento di settore, sta a significare che solo alle imprese appartiene il profitto e va di pari passo alla pretesa di rendere del tutto variabile e dipendente dalla redditività la quota di salario aziendale.
L’accordo separato è inaccettabile perché con esso è la controparte che determina le condizioni dell’intesa. Se passa questo principio i lavoratori vengono privati della titolarità contrattuale. Ma l’esclusione dal tavolo negoziale della Fiom che non si è piegata a questa logica è fallita anzi al contrario - come dimostrano gli scioperi del 6 luglio e del 16 novembre e la crescita del movimento e del consenso intorno alle nostre richieste di un contratto giusto e di democrazia – ha prodotto una crescita del nostro radicamento che ci chiede coerenza e tenacia.
La
Fiom è impegnata nella vertenza per superare l’accordo separato sul Ccnl e
per ottenere un contratto corrispondente agli impegni unitariamente assunti con
la piattaforma votata dalle lavoratrici e dai lavoratori. Ciò comporta il
mantenimento dello sciopero degli straordinari e l’avvio di una discussione di
massa sulla prosecuzione della vertenza che sfocerà nell’Assemblea dei
delegati prevista nel mese di marzo.
L’unità
sindacale è un valore importante ed è fondamentale per dare forza alle
rivendicazioni delle lavoratrici e dei lavoratori. Proprio per riconquistarla è
necessario superare la stessa possibilità degli accordi separati restituendo
alle lavoratrici ed ai lavoratori il diritto di votare le piattaforme e gli
accordi. Questo è l’impegno che la straordinaria raccolta di 351.000 firme
per il referendum sul contratto separato dei metalmeccanici chiede alla Fiom ed
a tutta la Cgil: anche in assenza di una legge sulla rappresentanza vincolare
alla democrazia l’approvazione delle scelte che riguardano le lavoratrici e i
lavoratori come base per una effettiva unità sindacale.
Il
Libro bianco sul mercato del lavoro del ministro Maroni e l’insieme delle
deleghe sul lavoro delineano un progetto di destrutturazione di tutto il sistema
contrattuale e del diritto del lavoro, a partire dal contratto nazionale di
lavoro, e un quadro di precarizzazione di tutto il mondo del lavoro. L’accordo
separato “con chi ci sta”, l’indifferenza
alla rappresentanza e al rispetto della democrazia sindacale ne sono la
premessa, mentre le disuguaglianze dei diritti nel lavoro e insieme il loro
generale abbattimento ispirano tutte le proposte: doppio regime tra giovani e già
assunti, fra nord e sud del paese, fra italiani e immigrati, nuove forme di
precarietà. La contrattazione è rovesciata da strumento per acquisire ed
estendere migliori condizioni alle lavoratrici e ai lavoratori a strumento per
derogare quei diritti secondo le esigenze di impresa. L’abrogazione
dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori corona politicamente questo disegno
colpendo le libertà fondamentali dei lavoratori e il diritto di sciopero.
Questo modello prevede la fine dello stato sociale a favore del ritorno alla “pubblica compassione” e prospetta una controriforma dello Stato in senso privatistico. Ciò corrisponde oltre che a interessi personali chiari nella composizione del Governo, all’esigenza di sciogliere da ogni vincolo la libertà dei capitali; così la proposta di riforma per una scuola di classe, l’attacco all’autonomia del potere giudiziario, la famiglia come luogo di ammortamento del ritrarsi dello Stato dall’impegno sulla qualità sociale e in funzione di ciò l’aggiuntività del lavoro femminile.
La delega sulle pensioni differenzia i diritti e intacca irrimediabilmente la funzione pubblica della previdenza. Ancora più estrema è la proposta di legge delega sulla immigrazione che assegna alle imprese il diritto di licenziare senza vincoli e tutele i lavoratori stranieri e di determinare così la stessa espulsione dall’Italia. La Fiom assume come impegno fondamentale la lotta per la parità dei diritti per la tutela sociale dei lavoratori e delle lavoratrici immigrati e considera centrale la loro piena rappresentanza nella organizzazione sindacale.
La
Fiom è impegnata con tutte le strutture e i delegati alla riuscita degli
scioperi unitari di 4 ore delle regioni, che a nostro parere devono essere
accompagnati dallo sciopero dello straordinario.
In
questo quadro la Fiom sostiene con grande convinzione lo sciopero generale
unitario di Cgil, Cisl, Uil come condizione indispensabile e nei tempi utili per
respingere l’attacco della Confindustria e del Governo prima che si concluda
l’iter parlamentare delle deleghe. Tutte le deleghe vanno respinte. Il
Congresso della Fiom considera indispensabile la risposta generale di tutte le
lavoratrici e di tutti i lavoratori italiani. Per questo chiede alla Cgil di
assumersi in ogni caso la responsabilità di far sì che le lavoratrici ed ai
lavoratori respingano ogni tentativo di liquidare i diritti, le libertà e la
democrazia nel Paese.
La nostra priorità è difendere e rilanciare la funzione del Contratto nazionale e mantenere i due livelli di contrattazione. Il Contratto nazionale deve contenere nelle sue rivendicazioni salariali il riconoscimento del buon andamento di settore e dell’inflazione reale, anche tenendo conto a quanto rivendicato in Europa. Al centro della contrattazione articolata sono le condizioni di lavoro in tutti gli aspetti – orari, tempi, sicurezza, diritti – opporsi alla precarizzazione del lavoro, negare alle aziende la libertà di procedere alle ristrutturazioni in atto attraverso i licenziamenti, riproporre il tema di un salario che riconosca ai lavoratori la produttività del lavoro in alternativa alla redditività. La Fiom esprime la propria contrarietà all’introduzione di premi salariali legati alla presenza.
Ciò
significa connettere la battaglia per riconquistare il tavolo nazionale ad un
diffuso impegno nella contrattazione e nelle vertenze articolate che assumono
valore collettivo, a partire dalla vertenza tutt’ora aperta nel gruppo Fiat.
E’
necessario segnare una discontinuità nella contrattazione articolata superando
limiti del passato e ponendo vincoli e obiettivi precisi:
-
difesa dell’occupazione nei processi di ristrutturazione e reale
contrattazione dei piani industriali, a partire dalla Fiat e dai grandi gruppi,
per impedire i licenziamenti e tagli nella struttura industriale del Paese. La Fiom ritiene utile congiungere le mobilitazioni in atto a sostegno
della vertenza contrattuale aperta con Federmeccanica a una più generale
estensione del movimento a tutte le categorie dell’industria, nei territori e
nelle realtà ove si rende necessario reggere l’urto di questa nuova fase di ristrutturazioni.
-
Rilancio di tutti i temi della condizione di lavoro, mettendo al centro
la prestazione e l’organizzazione del lavoro, la sicurezza, la parità di
diritti tra lavoratori indipendentemente dalla tipologia di rapporto di lavoro,
l’opposizione alla precarietà. La Fiom per questo si impegna sia sul terreno
della contrattazione che su quello della formazione per garantire una piena
competenza dei rappresentanti della Fiom su tutti i temi della prestazione.
- Rifiuto di utilizzare nel Sud formule di riduzione dei diritti, di deroga del Ccnl, di nuove gabbie salariali. Bisogna riaffermare invece la necessità di politiche industriali per uno sviluppo basato sulla qualità dei prodotti e dei processi; è prioritaria la lotta alla criminalità mafiosa che prolifera nella illegalità del lavoro a basso costo e nella mancanza di regole e controlli sul capitale finanziario.
Il Congresso della Fiom considera prioritario un impegno generale per
estendere l’art.18 dello Statuto dei lavoratori alle imprese sotto i 15
dipendenti e propone quindi al Congresso della Cgil di assumere le iniziative
necessarie a questo scopo.
Il Congresso della Fiom decide di dar vita a casse di resistenza per una
solidarietà attiva a sostegno delle lavoratrici e dei lavoratori che saranno
impegnati in vertenze dure e complesse in questa nuova fase di conflitto.
Il Congresso della Fiom dà appuntamento a marzo per una grande assemblea di
delegate e delegati che faccia il punto rispetto agli impegni assunti dal
Congresso aprendo una grande stagione di lotte e solidarietà, a partire dal
rilancio della vertenza del Contratto nazionale.
Sintesi della relazione introduttiva di Claudio Sabattini
Questo congresso
non è affatto un appuntamento rituale: per le battaglie che stiamo conducendo
è un congresso di lotta, che cade nel pieno di una fase cruciale per il
movimento dei lavoratori, per il sindacato e per la Fiom in particolare. Inoltre
si svolge in un momento e in un contesto internazionale particolari, che mettono
in gioco tutta la nostra storia. Non è successo sempre che ciò avvenisse, non
è successo sempre che la nostra valutazione complessiva avesse bisogno di un
punto di vista che attraversa radicalmente non solo il nostro paese ma che fa i
conti con la fase gigantesca di globalizzazione dell’economia, dei mercati,
della finanza.
Un enorme «movimento»
a carattere mondiale che mentre si afferma mette in discussione – per la sua
stessa natura – i diritti che rappresentano il filo conduttore della nostra
storia, dei nostri cento anni di vita. Diritti che non ci sono stati regalati da
nessuno, che non ci sono stati donati da questo o quel governo o da questo o
quel legislatore, ma che sono stati tutti duramente conquistati; e noi sappiamo
che – caratteristica essenziale del nostro paese – se non fossero stati
conquistati con la lotta dei lavoratori non si sarebbero mai trasformati in
legge. Valga per tutti l’esempio della Legge 300, cioè dello Statuto dei
diritti dei lavoratori, frutto di una delle stagioni di lotta più importanti
del Novecento italiano, il biennio 1968-69 e l’avvio degli anni Settanta.
Oggi questi
diritti vengono messi drasticamente in discussione e attaccati, sulla base
dell’indiscutibilità del mercato mondiale e delle sue leggi. E proprio per
questa ragione è difficile non rilanciare una parola d’ordine coniata qualche
tempo fa ma che mi pare adeguata alla fase che stiamo attraversando, che cioè
anche per agire localmente bisogna pensare in termini globali. E per avere una
visione globale dobbiamo anche guardarci alle spalle, imparare da ciò che siamo
stati e riflettere su ciò che è cambiato.
La Fiom è nata
cento anni fa, ha attraversato tutta la storia del moderno capitalismo italiano.
Un capitalismo che è nato «fragile» e proprio per questo estremamente
aggressivo e duro, un capitalismo che ha sempre perseguito, fin dall’inizio,
un processo di accumulazione basato sul dominio assoluto dell’impresa. Allora
– agli esordi della grande industria italiana – scioperare significava poter
essere licenziati il giorno dopo, lottare per gli aumenti salariali era
considerato un reato da consegnare ai tribunali del regno.
Il capitalismo
italiano non ha mai concesso e tollerato i diritti dei lavoratori, al punto che
durante la guerra ha militarizzato le fabbriche, così che opporsi a un ordine
di un capo poteva comportare il rischio di essere condannati da un tribunale di
guerra a 6/7 anni di carcere. Di fronte a questo sistema di potere assoluto i
lavoratori non potevano contare su un sistema di diritti, dovettero conquistarli
giorno per giorno. Lo hanno fatto – lo abbiamo fatto – anche con scontri
durissimi, di carattere generale, come avvenne durante il biennio rosso 1919-20,
quando i lavoratori delle grandi fabbriche del Nord posero una questione di
potere e di democrazia: il controllo della produzione attraverso le commissioni
interne come rappresentanza del lavoro. E quei diritti, quelle forme di
controllo operaio sulla propria vita e sul proprio lavoro, non sono mai stati
conquistati per sempre, sono sempre stati messi in discussione, da un
capitalismo che per fronteggiare la concorrenza internazionale – come si
direbbe oggi – non esitò ad appoggiare il fascismo.
Fascismo che non
nacque come un fatto a sé stante, ma come conseguenza dell’impossibilità e
dell’incapacità di reggere sul fronte mondiale la propria competizione, tanto
meno sul fronte europeo, e il fascismo diventò il modo per poter «vendere»,
come si usa dire, questo incipiente capitalismo italiano che pure già aveva
grandi fabbriche e grandi produzioni ma stava incontrando la fortissima
resistenza degli operai italiani.
Il fascismo
tracciò una linea di demarcazione molto precisa. Uno degli oggetti del
contendere in quella fase travagliatissima di scontri sociali e politici fu il
ruolo e la condizione della classe operaia italiana e non è un caso che siano
stati proprio gli operai a cercare il riscatto con gli scioperi del 1943, del
1944 e del 1945 fino a impedire ai
tedeschi di portare fuori dall’Italia i macchinari, cioè le strutture
organizzative dell’impresa difendendo in quel modo persino le fondamenta
materiali del capitalismo italiano. Lo fecero a partire da una concezione tutta
nazionale – qual era quella di allora – per impedire una rapina da parte di
chi aveva invaso il nostro paese ed era stato combattuto da una guerra di
liberazione.
L’orizzonte del
dopoguerra, quello in cui è cresciuta la mia generazione, è stato poi
caratterizzato dalla divisione del mondo in blocchi e questo ha condizionato la
situazione politica di ciascun paese dall’una e dall’altra parte, segnando
pesantemente anche la situazione sociale e i comportamenti sia dei governi che
dei partiti e soprattutto dei sindacati. La stessa scissione sindacale avvenuta
in Italia nel 1948 fu consumata sull’uscita dalla Cgil della componente
popolare e democristiana in un momento in cui il quadro e le alleanze
internazionali dell’Occidente imponevano una scelta netta: da una parte – si
diceva – la libertà e il capitalismo, dall’altra la dittatura e il
comunismo.
Il dominio di
questo bipolarismo ebbe degli effetti in tutti i paesi d’Europa e negli stessi
Stati Uniti in cui furono prese le posizioni più dure nei confronti del
movimento sindacale americano.
Noi per anni ci
siamo abituati al fatto che esistevano due grandi schieramenti, e la nostra vita
è passata per un lungo periodo di tempo scegliendo tra l’uno e l’altro
campo: tutte le volte facendo delle scelte di campo, necessarie, di fronte ai
processi internazionali che intervenivano nel mondo. Ed erano scelte che si
definivano come scelte che riguardavano la civiltà occidentale e la democrazia
da un lato, e dall’altro lato il sistema sovietico e il comunismo. Entro
questo quadro tutto ciò che si muoveva nel mondo aveva in qualche modo un segno
che ne caratterizzava l’iniziativa, fosse da Est o da Ovest.
Una terribile
bipolarità che ha tenuto per tanti anni il mondo inchiodato a una necessaria e
continua scelta di campo. Persino il momento più alto di autonomia e forza del
movimento operaio italiano – l’autunno 1969 e gli anni Settanta, quando le
lotte degli operai giovani e immigrati rinnovarono e rilanciarono l’azione
sindacale e inaugurarono la stagione della democrazia consiliare – non solo
dovette fare i conti con la reazione padronale e fascista, ma muoversi anche
dentro i condizionamenti dettati dal bipolarismo e subendone il freno.
Con il 1980 e la
controffensiva capitalistica, prima – da Reagan alla Thatcher all’autunno
della Fiat – e con il 1989 e la fine del regime sovietico, poi, tutto è
cambiato: il sopravvento del modello liberista americano e il crollo dell’Est
hanno aperto condizioni nuove, davvero niente è stato più come prima.
Il mondo è
diventato unipolare, forse come mai prima, unificato dalle stesse leggi del
mercato capitalistico e di un modello sociale neoliberista. Così oggi la nuova
generazione operaia, impiegatizia, tecnica – i giovani che intervengono nei
modi più precari possibili sul mercato del lavoro, uomini e donne che oggi
lavorano nel variegato universo delle imprese – questa nuova generazione è la
prima a vivere integralmente e totalmente nel capitalismo.
Può apparire un
paradosso da un certo punto di vista, perché qualsiasi libro di storia
economica insegna che il capitalismo ha una data di nascita molto lontana: dalle
rivoluzioni industriali in Inghilterra poi in Europa e negli Stati Uniti, fino
alla terza e grande rivoluzione informatica degli anni Ottanta e Novanta del
Novecento. Ma è solo oggi che il capitalismo ha conquistato definitivamente il
mondo e lo sottopone alle sue leggi senza mediazioni politiche e sociali.
È quello che noi
chiamiamo globalizzazione: un processo che non sarebbe stato possibile senza
l’unificazione del mondo sotto un unico sistema politico e sociale e senza le
grandi innovazioni tecnico-scientifiche, senza l’informatica e le
telecomunicazioni, che permettono tutti i processi di modificazione industriale
che abbiamo vissuto così profondamente negli ultimi due decenni.
Senza questa
rivoluzione politica, scientifica e tecnica non sarebbe possibile l’esternalizzazione
dei grandi processi industriali che le imprese mettono in atto. Non sarebbe
possibile una generalizzazione così globale del modello industriale senza le
innovazioni telematiche e informatiche. Non sarebbe possibile, ad esempio,
leggere nel piano di ristrutturazione dell’Alitalia che gestire il trasporto
aereo è come produrre dei panettoni: c’è il core-business, servono
tagli occupazionali, taglio delle produzioni che non danno profitto e via avanti
così, pari pari, a prescindere dal prodotto. E poi, naturalmente, serve il
dominio assoluto sul lavoro e sui lavoratori.
E qual è il
dominio? Quello dettato dal mercato. Calo del 15% del fatturato? Taglio del 15%
dell’occupazione, taglio dei settori che non danno sufficiente profitto,
concentrazione nel core-business. E l’attenzione per i lavoratori è
posta su quelli che «costano di più» – è scritto proprio così – sono
quelli che devono essere sostituiti da quelli che costano meno – e sono tanti,
pronti sul mercato – perché in questo modo si abbassa radicalmente il costo
del lavoro.
È con questa
impostazione che l’Alitalia si appresta a fare 30.000 licenziamenti. Ed è un
modello che vale per tutti i settori produttivi, un modello che si è imposto
nell’industria e da lì si è allargato ai servizi.
Così ogni
investimento viene fatto sulla base dei tagli occupazionali: la riduzione del
lavoro vivo rilancia il lavoro morto, nessun economista dell’Ottocento è mai
riuscito a dire questo con tanta chiarezza, lo fanno oggi, esplicitamente le
imprese. Questo rivela il dominio assoluto del capitalismo, più che qualsiasi
scenario geopolitico; questa è la vera cesura col Novecento.
Questo è il
modello e il faro che lo illumina e ne detta le mosse, è il capitalismo
americano che esercita la sua egemonia su questa globalizzazione cui noi ci
opponiamo. È lì, non solo negli effetti disastrosi della globalizzazione,
nella miseria che semina nella maggioranza del pianeta, che noi dobbiamo trovare
le ragioni della nostra opposizione.
Il capitalismo
americano ha sempre avuto caratteristiche fondamentali: diritti non ne ha mai
dati, doveri ne ha chiesti tanti. In nome dell’affermazione del proprio
modello sociale, il capitalismo americano ha perseguito all’interno del
proprio paese l’uniformità dei comportamenti e del pensiero attorno alla
cultura del consumo. E ora pretende di uniformare il mondo alla sua finanza e
alla sua moneta, ai suoi centri di potere e alla produzione delle sue merci.
Nella storia abbiamo conosciuto altri imperi, ma non c’è mai stato nessuno
che abbia preteso una adesione così radicale e assoluta. Da imporre a ogni
costo anche con la guerra.
È una visione
totalizzante che considera incompatibili tutte quelle forme di democrazia che
noi abbiamo costruito in oltre un secolo nel rapporto tra capitale e lavoro, che
pretende che ovunque si faccia così, che ovunque si pensi così.
Per potere
contrattare in una fabbrica negli Stati Uniti devi avere definitivamente la
maggioranza dei lavoratori con te, se vuoi trattare. Altrimenti non tratti. E
questo perché negli Stati Uniti esiste solamente il sindacato di impresa, non
esiste la solidarietà, che per legge è proibita. Non si può solidarizzare con
un'altra fabbrica che lotta. È un reato. Negli Stati Uniti sono falliti tutti i
tentativi di costruire partiti o sindacati che non fossero di mercato, sindacati
sul modello europeo cioè di impronta solidale, cioè sindacati, permettetemi di
usare questa espressione per una volta, contro il mercato.
È questa visione
che Berlusconi vuole importare in Italia: dietro lo slogan del partito-azienda
prima e dello stato-azienda ora, c’è l’attrazione verso il modello
americano. Sul welfare come sul mercato del lavoro.
In questo
scenario il lavoro umano è ridotto semplicemente a uno dei tanti fattori della
produzione, è considerato come un costo e come tale trattato: se compri una
macchina nuova sei più competitivo, se cacci un anziano e ingaggi un giovane
con i mille strumenti che oggi la flessibilità offre, spendi di meno. Così
ragionano le imprese. Ed è in questo scenario che migliaia di giovani donne e
uomini sono entrati in fabbriche e uffici, pagando un altissimo costo in
precarietà, immersi fino in fondo in un capitalismo che si presenta sempre più
come «puro», emendato da ogni volontà di mediazione e confronto, sempre più
radicale nelle sue scelte. E ci sono entrati anche senza poter contare su una
cultura interpretativa delle trasformazioni in atto (del resto, chi poteva
offrirgliela dopo la cancellazione della memoria operata nell’ultimo
ventennio), senza che venga loro offerta la possibilità di operare una scelta
di campo; come, invece, era stato per tutte le precedenti generazioni che erano
entrate in fabbrica. Oggi non ci sono due campi tra cui scegliere, ognuno è
solo di fronte a una realtà cruda e insidiosa, quasi priva di garanzie per il
proprio futuro.
Eppure parte di
questa nuova generazione sta tentando di dotarsi di una propria interpretazione
del mondo. Questi giovani riaprono il confronto sociale e politico partendo
dalla propria condizione e ripropongono l’idea che un altro mondo è
possibile. Sull’ambiente, sulla condizione dei paesi poveri, sul monopolio dei
brevetti, sulla grande questione della pace, sulla democrazia. Su tutto ciò le
nuove generazioni mettono in campo le loro domande, che pongono a noi e che ci
investono.
Sottolineano cioè
che il mondo odierno non è una bella favola ma è un insieme di problemi, di
diversità, di contraddizioni. E di disuguaglianze senza pari, in cui muoiono
centinaia di milioni di persone: bambini che muoiono solo perché non possono
che morire, dato che non possono né mangiare né curarsi.
Un mondo cioè
che si presenta con tutta la sua crudeltà sostanziale: di fronte a paesi ricchi
in cui si compete per consumare di più ci sono milioni di persone che non sono
in grado di consumare nulla, se non la loro vita. Chi non sente una profonda
immoralità di fronte a questo mondo, non è nemmeno degno di viverci.
È in questo
senso e per queste ragioni che la Fiom ha partecipato alle manifestazioni di
Genova del luglio scorso e fa parte del Global forum, per queste ragioni – per
rispondere a quelle domande delle
nuove generazioni – partecipa e parteciperà al confronto sulle tematiche
generali e sulle conseguenze della globalizzazione a guida americana, anche
perché esse non sono più relegate nel Sud del mondo, ma attraversano anche la
sua parte più ricca.
Queste divisioni
tra ricchi e poveri, tra chi può decidere della propria vita e chi non può
farlo caratterizzano anche il Nord del mondo. Queste contraddizioni, queste
profonde ingiustizie, ritornano al Nord in modo radicale, perché questo è il
capitalismo. Perché il capitalismo non può vivere senza grandi disuguaglianze,
non può riprodursi offrendo diritti comuni per tutti.
Perciò siamo a
un passaggio cruciale, perché la soggettività sindacale che abbiamo costruito
in un secolo – e che è costata migliaia di vittime in tutto il mondo – oggi
è considerata insopportabile dai padroni: è l’esistenza stessa del sindacato
come strumento di contrattazione che dà la possibilità ai lavoratori di
coalizzarsi solidariamente per poter contrattare le proprie condizioni di lavoro
che viene messa radicalmente in discussione, che viene negata. È questo – che
affonda le sue radici nella natura della storia moderna europea – che oggi, il
padronato italiano, e il governo vogliono liquidare.
Per noi, per il sindacato dei metalmeccanici, oggi tutto questo precipita nella difesa del Contratto nazionale. Nella possibilità dei lavoratori di contrattare le proprie condizioni di lavoro e nella difesa della propria autonomia e libertà sul lavoro.
Noi non abbiamo
firmato un Contratto nazionale che Fim e Uilm hanno invece sottoscritto.
Consideriamo ancora aperto quel contratto e per ottenere ciò che avevamo
indicato nella piattaforma unitaria e che i lavoratori avevano approvato con un
referendum, abbiamo continuato a scioperare. Per rispettare il mandato ricevuto,
perché ciò che si dice va fatto, altrimenti è meglio non dire niente,
altrimenti sono parole vuote. Siamo stati accusati di aver rotto l’unità
sindacale e di aver scioperato per poche migliaia di lire, «solo» per 3.000
lire più le 18.000 lire che i padroni hanno anticipato ma che si riprenderanno
al prossimo «giro».
Io so che alcuni
di voi pensano che bisognava fare il contratto. Che non avremmo dovuto rompere
per «poche migliaia di lire». Ma noi non abbiamo firmato proprio per quello
che siamo, perché siamo la Fiom. Come è possibile non capire che la
Federmeccanica ha posto una pregiudiziale per firmare quel contratto, dicendoci
chiaramente che gli aumenti legati all’andamento di settore erano fuori
discussione, che 18.000 lire erano solo un anticipo e che queste erano le sole
condizioni per poter firmare? Come non capire che la sfida andava oltre le
quantità in discussione – la riprova è che i «piccoli» di Confapi hanno
firmato un contratto esattamente corrispondente alle richieste della nostra
piattaforma – che quella era una sfida tutta politica, che metteva in gioco il
significato della contrattazione, il senso stesso della nostra esistenza? In
sostanza avremmo dovuto accettare la liquidazione di una parte della piattaforma
e porre un’ipoteca sul contratto futuro, con l’anticipo di una sua quota.
Nel linguaggio
comune questo si chiama un ricatto. E accettare un ricatto significa piegare la
testa di fronte al padrone. Perché se la forma sono le 18.000 lire, il punto
sostanziale sta nel potere del padrone di fare il contratto che vuole lui,
altrimenti non se ne fa niente. Questo significa venire meno al mandato ricevuto
e perdere la propria autonomia contrattuale. Significa accettare, nella forma
concreta e importantissima del Contratto nazionale, la subordinazione del lavoro
al capitale.
Significava venir
meno al mandato. Così abbiamo proposto a Fim e Uilm di sottoporre l’intesa al
referendum. Ci sembrava il minimo. Sarebbe
stato possibile farlo solo con l’accordo di tutti e tre i sindacati,
perché non esiste la legge sulla rappresentanza – non è casuale che non
esista, che un progetto giace dimenticato in Parlamento. Ma ci hanno risposto di
no, che bastavano le assemblee e consultare gli iscritti. Così non abbiamo
potuto far altro che raccogliere le firme, e la maggioranza dei lavoratori ha
firmato contro quell’accordo.
Perché Fim e
Uilm non hanno voluto fare il referendum? Qualche mese prima era successo
qualcosa di analogo alla Zanussi dove Fim e Uilm avevano firmato un accordo
separato sul job on call che è una poesia fantastica sul mercato del
lavoro. In Olanda lo chiamano stand by, come il cellulare in attesa, in
attesa di una telefonata o di un messaggino, e si resta sempre in attesa. Se il
messaggio arriva, ci si mette in comunicazione con l’azienda che vi dice di
lavorare per 3, 5 o 6 ore. E poi, a casa, di nuovo in attesa; in stand by,
sempre a disposizione dell’azienda.
Ci avevano detto
che era una cosa bella; noi non ci abbiamo
creduto, abbiamo chiesto il referendum e ce lo hanno «concesso», perché
pensavano di vincerlo. Invece i lavoratori hanno dato ragione a noi, e hanno
bocciato l’accordo: i no sono stati oltre il 70%. A quel punto abbiamo ripreso
la trattativa, e concluso il contratto aziendale. Senza drammi, perché dopo il
referendum noi non abbiamo detto nulla di particolare a Fim e Uilm, ma
semplicemente «riprendiamo la trattativa». Così abbiamo risolto il problema
dell’unità, sul merito e sulla pratica democratica. Per il Contratto
nazionale non abbiamo potuto farlo.
Questo è un nodo
cruciale, perché qui si riapre con durezza la questione contemporanea del
valore dei lavoratori e delle lavoratrici, il valore della democrazia.
Per noi il
detentore del contratto è il lavoratore, nei più recenti documenti della Fim,
invece, il lavoratore ne è il beneficiario, il detentore è il sindacato: non
è una diversità formale, è questione di sostanza, perché se un soggetto
diventa solo il beneficiario e non possiede l’istituto contrattuale, allora
perché dovrebbe votare per giudicare e decidere?
E se a decidere
sono le organizzazioni e non i lavoratori, basta il riconoscimento delle
controparti per sedersi al tavolo delle trattative. Se il padrone ti riconosce
sei a posto! E, allora, ci potranno essere non solo tre, ma dieci, quindici
sindacati convocati nelle direzioni o a palazzo Chigi – come è successo per
il Libro bianco di Maroni – e basterà la maggioranza dei sindacati –
non dei lavoratori – per dire che un accordo o un’intesa sono validi.
Oppure basterà
anche solo il riconoscimento del padrone. Tu non devi più fare niente, anche se
sei uno solo perché ti riconosce lui, ti fa il contratto lui. E tutti gli altri
devono accettare quel contratto per la pura e semplice ragione che non si può
votare.
Il nodo della
democrazia naturalmente non riguarda solo noi, ma tutte le categorie della Cgil,
riguarda la Cgil stessa. Non è più pensabile che un sindacato decida per sé e
in modo vincolante per tutti, senza la possibilità di alcuna verifica:
qualsiasi decisione si prenda sugli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici
questa decisione deve trovare conferma nel voto delle lavoratrici e dei
lavoratori altrimenti non ha valore. Questo vale per i metalmeccanici ma anche
per tutte le categorie noi dovremo
chiedere alla Cgil che quando si firma un contratto ci sia sempre un referendum
che lo convalidi.
Questo
rovesciamento delle pratiche in atto per noi è decisivo, se vogliamo seriamente
costruire un sindacato nuovo. È necessario che i lavoratori sentano il
sindacato come loro, che i lavoratori abbiano diritti non perché iscritti o
meno a un sindacato, ma in quanto lavoratori. Se i lavoratori perdono il diritto
a essere titolari dei contratti e delle decisioni che riguardano la loro vita,
finisce la contrattazione collettiva.
Credo che non
dobbiamo farci delle illusioni, credo ci siano molte ragioni che spingono
Berlusconi e la Confindustria italiana a premere in modo accelerato per la
liquidazione, la più generale possibile di ogni diritto collettivamente
sancito. Per questo penso dobbiamo attrezzarci a una dura fase di scontro, non
subirla, ma affrontarla con le nostre proposte. Per questo credo che dovremo
fare tre richieste al Congresso della Cgil.
La prima è che
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori venga esteso a tutti i lavoratori,
anche quelli che stanno in aziende al di sotto dei 15 dipendenti. È questo il
miglior modo possibile, credo, per affrontare lo scontro sull’articolo 18, per
allargare il fronte di lotta e lanciare un messaggio chiaro sulle nostre
intenzioni e sui nostri valori in tema di diritti.
La seconda è
costituire le casse di resistenza, utilizzando una parte delle quote sindacali,
per reggere una battaglia che sarà durissima solidarizzando così concretamente
e quotidianamente con i lavoratori che lottano nelle fabbriche italiane. Perché
la solidarietà deve essere un fatto quotidiano e concreto: non basta
semplicemente dire «siamo solidali» mandando un messaggio di solidarietà.
Anche qui al dire deve corrispondere il fare.
Infine chiediamo
al Congresso che venga indetta per i primi giorni di marzo un’Assemblea
nazionale dei quadri, 10.000 quadri per aprire una nuova fase dello scontro, per
mandare un messaggio preciso al padronato metalmeccanico. Perché la nostra sarà
una battaglia di lunga durata.
È ovvio che oggi
più che mai noi abbiamo bisogno di un rapporto positivo con la Cgil e con le
sue categorie.
Noi abbiamo dato
una valutazione positiva del fatto che la Cisl e la Uil abbiano preso posizione
sull’articolo 18 e sulle pensioni, assieme alla Cgil, ma abbiamo anche detto
che, per impedire che le deleghe passino e diventino legge, bisogna mettere in
campo da subito tutte le nostre forze e tutte le iniziative di lotta.
Tutti noi abbiamo di fronte un periodo difficile ma ricco di grandi possibilità.
Possiamo trovare sui nostri temi e sulle nostre lotte la convergenza di tutte le forze che stanno attorno a noi e soprattutto di quelle giovanili. Sulla lotta alla globalizzazione americana, sulla guerra – su cui abbiamo fatto una scelta non contingente ma definitiva, perché il sindacato è una forza naturalmente pacifista – abbiamo costruito un rapporto che non è occasionale, che è fondato sul bisogno di giustizia che oggi rivive e si allarga.
Noi, il
sindacato, siamo nati per questo; perché la nostra storia ci dice che la parola
sindacato vuol dire giustizia. Se rilanciamo questa natura, ce la facciamo.