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Storia | Interviste | Foto | Conclusioni di Claudio Sabattini |
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Dopo anni di sottomissione a un potere feudale, sorretto dal fascismo e dalla mafia, la Sicilia stava vivendo una fase di rapida crescita sociale e politica. Con la fine della dittatura e il ripristino delle libertà, mentre cadevano i secolari privilegi di pochi, le masse contadine vedevano finalmente realizzarsi le loro aspirazioni. Dopo lo sbarco degli alleati, già nell’autunno 1944 un grande movimento organizzato aveva conquistato il diritto di occupare e avere in concessione le terre incolte o mal coltivate del latifondo.
Uno sconvolgimento così radicale sul piano dei rapporti sociali non poteva non riflettersi sugli equilibri politici. Le elezioni del 20 aprile 1947 per l’Assemblea regionale siciliana avevano visto l’affermazione del Blocco del popolo e la secca sconfitta della Democrazia cristiana.
L’offensiva del movimento contadino e il prevalere delle forze di sinistra suscitarono l’allarme di chi vedeva minacciato il proprio potere ritenuto intoccabile. La reazione degli agrari era stata rabbiosa e cruenta e si era diretta in particolare contro i sindacalisti, i capi lega, i dirigenti dei partiti della sinistra. Intimidazioni ed esecuzioni erano delegate al banditismo separatista che, sotto la guida di Salvatore Giuliano, divenne il braccio armato della controffensiva reazionaria.
Nonostante i colpi ricevuti, il movimento contadino non si era piegato e allora qualcuno ritenne giunto il momento di sferrare il colpo decisivo. L’occasione sarebbe stata offerta dalla manifestazione del Primo maggio, anche perché il luogo in cui si sarebbe svolta si prestava particolarmente a un agguato. La piana di Portella della Ginestra era infatti dominata dai monti Cumeta e Pizzuta e da lì sarebbe stato facile aprire il fuoco con le mitragliatrici contro la folla esposta ai colpi e senza possibilità di riparo.
Tutto venne predisposto con cinica cura e per l’occasione la banda Giuliano era stata rinfoltita con alcuni giovani prezzolati. Il primo oratore, Giacomo Schirò, aveva appena iniziato a parlare quando si udì un crepitìo di colpi. Non tutti si resero ben conto di quanto stava accadendo e qualcuno pensò si trattasse di intempestivi mortaretti fatti esplodere in segno di festa. A qualcun altro tornarono forse alla mente le oscure e inquietanti parole ascoltate in paese: “Partite cantando, tornerete piangendo”. Alla vista degli animali abbattuti e delle prime persone colpite fu chiara a tutti la tragedia che si stava compiendo. Il terrificante bilancio della sparatoria fu di undici morti e oltre cinquanta feriti.
La notizia dell’eccidio si diffuse rapidamente suscitando comprensibile emozione in tutta Italia. La Cgil proclamò per il 3 maggio lo sciopero generale e puntò il dito contro la “volontà dei latifondisti siciliani di soffocare nel sangue le organizzazioni dei lavoratori”. Anche gli inquirenti qualche idea sulle responsabilità della strage l’avevano maturata. La polizia sembrò non avere dubbi nell’indicare quale esecutore materiale della strage il bandito Giuliano, ma fu piuttosto restìa a imboccare la strada del delitto politico. Il rapporto inviato al ministro dell’Interno, Mario Scelba, rilevava come nulla risultasse al riguardo, anche se non si poteva del tutto escludere che “l’idea di un’azione criminosa contro i partiti della sinistra” fosse stata “ispirata e rafforzata specialmente da qualche elemento isolato in strette inconfessabili relazioni col bandito Giuliano”. Complicità più precise ed estese lasciava intravedere invece il rapporto dei carabinieri al Comando generale dell’Arma, che individuò come possibili mandanti “elementi reazionari in combutta con mafia locale”.
Il 2 maggio Scelba, chiamato a rispondere davanti all’Assemblea Costituente, fece subito capire quale indirizzo avrebbero preso le indagini, affermando: “Questo non è un delitto politico e non può essere un delitto politico, perché nessuna organizzazione politica potrebbe rivendicare a sé la manifestazione e la sua organizzazione”. In base a questo incredibile sillogismo e contro la chiara evidenza dei fatti la strage venne dunque fatta passare dal rappresentante del governo come un delitto comune. Giova ricordare che a quello stesso governo partecipavano socialisti e comunisti, i quali non ebbero certo remore a denunciare come mandanti agrari e mafiosi e a chiamare in causa gli ambenti politici della destra siciliana.
Questa diversità di giudizio su un episodio così grave era un segnale del logoramento dei rapporti tra i partiti antifascisti e annunciava la svolta politica che si sarebbe realizzata con l’estromissione delle sinistre dal governo.
L’evolversi della situazione nazionale non poteva non avere ripercussioni in Sicilia. Il blocco sociale che aveva tentato di contrastare l’avanzata del movimento contadino e delle sinistre, cavalcando l’ondata separatista e trovando temporaneo rifugio nei partiti della destra liberale, monarchica e qualunquista, si apprestava a convergere sulle posizioni neomoderate della Democrazia cristiana. Il prezzo di questa operazione fu la costruzione e il rapido consolidamento di quel sistema politico-mafioso, basato su una rete di complicità e di connivenze tra criminalità mafiosa e pezzi dello Stato.
La strage di Portella inaugurò la lunga teoria dei misteri di Stato, ben protetti da muri di gomma, contro i quali erano destinati a infrangersi la ricerca della verità e la sete di giustizia. E gli ingredienti tipici della strategia della tensione – depistaggi, morti sospette, ricatti – si ritrovarono tutti nel modo in cui vennero gestite le indagini sulla strage e chiuso l’imbarazzante capitolo del banditismo siciliano.
Nel 1949, sentendosi abbandonato dai suoi protettori che, in cambio dei servigi resi, gli avevano promesso l’impunità e l’espatrio, Giuliano scrisse una lettera ai giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della strage di Portella: “Non si poteva restare indifferenti davanti all’avanzata diabolica della canea rossa, la quale, allettando con insostenibili e stolte promesse i lavoratori, ha sfruttato e si è servita del loro suffragio per fare della Sicilia un piccolo congegno da servire al funzionamento della macchina sovietica”.
Il 14 luglio 1950 il bandito venne ucciso dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta, il quale fu a sua volta avvelenato in carcere il 9 febbraio 1954 dopo aver preannunciato clamorose rivelazioni sui mandanti della strage di Portella.
Tratto da Primo maggio: piccola storia di una grande data a cura di
Giuseppe Sircana, Meta Edizioni, 1997