Considerazioni sull’ipotesi
di privatizzazione della Fincantieri.
Di Duccio Valori.
Premessa
La privatizzazione della quasi totalità del sistema
delle Partecipazioni Statali doveva rispondere ad una serie di
obiettivi, tra i quali:
a) la riduzione del debito pubblico;
b) la
rimozione dei “lacci e lacciuoli” che si riteneva frenassero la
libera espressione delle grandi potenzialità di sviluppo del settore
privato;
c) il generale sviluppo dell’economia italiana.
A distanza di quasi vent’anni dall’avvio del processo
di privatizzazione, nessuno di questi obiettivi appare raggiunto o
neppure avvicinato. Com’era prevedibile, il debito pubblico, che
risultava enormemente superiore ai potenziali introiti delle
privatizzazioni, è rimasto invariato o ha ripreso a crescere; alcuni
importanti settori di attività produttive o di servizio sono passati o
stanno passando sotto il controllo di centri decisionali non italiani
(settore dolciario e distributivo SME, autostrade) o hanno registrato
clamorosi fallimenti (Cirio); in altri casi (siderurgia, banche, TLC) l’aumento
della redditività è stato conseguito con il sostanziale blocco degli
investimenti (specie in R&S) e con drastiche riduzioni occupazionali
(settore bancario) venendosi così a realizzare, a parità di
produzione, un sostanziale trasferimento di reddito dal lavoro al
capitale. Altri importanti e qualificati settori di attività, con
significative presenze all’estero, sono di fatto scomparsi
(impiantistica industriale) o fortemente ridimensionati (grandi opere di
ingegneria).
Non sembra quindi che il processo di privatizzazione, che
ha visto la liquidazione dell’EFIM e dell’IRI, abbia dato i
risultati sperati e promessi; ciò che appare comprensibile, e che
sarebbe stato facilmente prevedibile, se si ricorda che, con l’eccezione
dell’ENEL, e a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi
industrializzati, la presenza pubblica nell’economia italiana non era
dovuta a nazionalizzazioni, ma a salvataggi di banche e industrie
private in condizioni fallimentari: salvataggi iniziati con la grande
crisi del ’29, ma continuati fino alla metà degli anni ’80.
Appare dunque lecito chiedersi a quale logica risponda la
ipotizzata privatizzazione di Fincantieri, e quali possano essere le sue
conseguenze.
La Fincantieri
L’attuale struttura di Fincantieri è il risultato di
una serie di acquisizioni, salvataggi e razionalizzazioni iniziate con
la stessa costituzione dell’IRI nel
1933. In
epoca fascista, il mantenimento di una consistente capacità produttiva
di naviglio civile e militare apparve costituire un elemento
fondamentale della politica imperiale; non a caso l’Italia compare tra
le grandi potenze firmatarie degli accordi di limitazione delle flotte
da guerra intervenuti negli anni ’30 (Conferenze di Ginevra sul
disarmo con Francia, Gran Bretagna, Germania, Giappone e Stati Uniti).
La politica autarchica e lo stretto rapporto con Finmare
costituirono elementi di forza per la cantieristica italiana pubblica e
privata. Nel dopoguerra le scelte della flotta pubblica condizionarono
quelle della cantieristica; l’orientamento ai grandi transatlantici,
sulla scia dei successi prebellici (Rex) si rivelò totalmente errato,
dato il contemporaneo sviluppo del trasporto aereo. Seguì una fase di
riorientamento verso naviglio mercantile più o meno specializzato
(traghetti, portacontainers, OBO, ecc.) che richiese tra gli anni ’70
e gli anni ‘80 una prima serie di onerose ristrutturazioni e nuovi
salvataggi (cantieri Piaggio), in presenza di consistenti aiuti pubblici
all’armamento nazionale. Da un lato la crisi della cantieristica
italiana era aggravata dalla forte concorrenza asiatica (prima Giappone,
poi Corea del Sud, Taiwan ed altri Paesi dell’Estremo Oriente), specie
sulle tipologie meno sofisticate; dall’altro, tuttavia, esisteva un
minimo di sostegno rappresentato dalle sovvenzioni alla cantieristica ed
all’armamento nazionale, dalle commesse della MMI e dalla committenza
(di fatto quasi “captive”) della Finmare.
Venuti meno questi fattori di sostegno (cessazione delle
sovvenzioni pubbliche, ristrettezze finanziarie della MMI,
privatizzazione della Finmare), Fincantieri si è trovata ad affrontare
una nuova fase di ristrutturazione e razionalizzazione, con risultati
complessivamente soddisfacenti.
Limitando l’analisi ai dati più recenti (1999/2004),
si può notare come il valore della produzione sia passato dai 1778 ai
2177 mn di €, con un incremento del 22,4%, superiore, sia pur di poco,
all’inflazione; allo stesso tempo, il valore aggiunto è aumentato da
236 a
567 mn di € (+ 40,2%). Più che raddoppiato il valore aggiunto per
addetto (da
25 a
61 mila €).
Questi positivi risultati sono stati conseguiti senza
consistenti riduzioni di occupazione, passata, tra il 1999 e il 2004, da
9693 a
9266 unità (- 4,4%).
Consistente anche il miglioramento dei risultati
economici, che devono tuttavia essere valutati come medie pluriennali, data l’oscillazione
conseguente alla quota di pagamenti a consegna di commesse di durata
superiore all’anno.
Di conseguenza, appare in netto miglioramento anche il
cash flow (risultati più ammortamenti), passato da valori negativi nel
1999 a
ben 205 mn € nel 2004; in presenza di una sostanziale stazionarietà
degli investimenti materiali e di quelli in terreni e fabbricati, il
cash flow ne ha coperto dal 46% nel
2000 a
ben il 140% nel 2004.
Sotto l’aspetto negativo, si può rilevare che la
produzione cantieristica in senso stretto (escluse cioè la motoristica
e le attività di ricerca) è tutt’ora distribuita su ben otto centri
(Monfalcone, Marghera, Sestri Ponente, Ancona, Palermo e Castellammare
di Stabia per
la Direz. Navi
da Crociera e da Trasporto, Muggiano e Riva Trigoso per
la Direz. Navi
Militari)
Da queste considerazioni appaiono motivate alcune
possibili critiche alle possibili iniziative di privatizzazione.
Possibili
modalità di privatizzazione
La privatizzazione della Fincantieri potrebbe essere
realizzata secondo diverse modalità:
a) quotazione in Borsa della maggioranza
delle azioni;
b) cessione diretta ad un investitore “strategico”;
c) cessione ad un investitore “speculativo”.
Potrebbe avvenire tramite una IPO (Initial
Public Offering), che dovrebbe necessariamente riguardare quanto meno la
maggioranza del capitale, se non la sua totalità (una cessione di
minoranza sarebbe destinata all’insuccesso, in quanto gli investitori
non apprezzerebbero una società non scalabile).
Di regola, le IPO riguardano nuove società con
favorevoli prospettive: con la quotazione, gli investitori “finanziari”
recuperano il capitale inizialmente investito, con positivi capital
gains, mentre i soci operativi ricavano nuovo capitale da reinvestire
per lo sviluppo della Società. Questo non appare il caso della
Fincantieri, che non risulta avere definito rilevanti programmi di nuovi
investimenti, e che negli ultimi anni è stata sostanzialmente in grado
di finanziare i propri investimenti con il
cash flow: quanto ottenuto dalla IPO andrebbe quindi
direttamente all’attuale azionista di maggioranza (il Tesoro, che
controlla ca. il 99% della Società) senza alcun apporto aggiuntivo alla
stessa Fincantieri.
In presenza di un risultato pari, nel
2005, a
ca 100 mn di €, e considerando un possibile rapporto di P/E di 15, il
ricavo della cessione della quota Tesoro in Fincantieri alla Borsa
potrebbe essere dell’ordine di 1500 mn di €; ipotizzando un P/E di
20, di 2000. Non si tratta di cifre tali da alterare sensibilmente l’indebitamento
del Tesoro, anche nell’ipotesi che il collocamento a tali ottimistiche
condizioni (a fine 2004 il patrimonio netto di F. risultava pari a ca.700
mn di €) risulti effettivamente possibile, e dovendosi tener conto dei
fees che verrebbero richiesti dalla merchant bank incaricata del
collocamento.
Si deve inoltre ricordare che l’attuale positiva
situazione economico/reddituale della Fincantieri potrebbe essere, se
non compromessa, quanto meno erosa dalla concorrenza: la positiva scelta
compiuta negli ultimi anni per il naviglio crocieristico, che ha portato
al netto miglioramento dei risultati, potrebbe essere aggredita non
tanto dalla concorrenza europea (specie francese e finlandese), che ha
costi non dissimili da quelli italiani, quanto da quella dell’Estremo
Oriente (in particolare della Cina) che nel medio termine appare in
grado di realizzare prodotti competitivi per qualità e prezzo. In tal
caso, il declino dei profitti di Fincantieri, e il conseguente calo
delle sue quotazioni azionarie, la renderebbero facilmente scalabile da
un raider che potrebbe effettuare le operazioni speculative previste al
punto c) seguente (acquisizione della Fincantieri al fine di realizzare
operazioni speculative di assets stripping).
In altri termini, la cantieristica italiana, con la
quotazione in Borsa, sarebbe molto più aggredibile di quanto non sia
attualmente, con gravi conseguenze sia per l’occupazione diretta, sia
per la consistente occupazione indotta, che risulta di particolare
rilevanza proprio a seguito della scelta per la crocieristica.
Resta infine da considerare l’incognita rappresentata
dall’ancora non definitivamente risolta vertenza per la commessa Iraq
(navi militari ordinate all’inizio degli anni ’80 non consegnate a
seguito del conflitto Iran/Iraq) che potrebbe tradursi in una
consistente sopravvenienza passiva, e che dovrebbe quindi, prima della
quotazione, essere trasferita – se possibile – ad una “bad company”
isolata dal patrimonio della Fincantieri.
Consiste nella cessione diretta ad un socio “strategico”,
interessato cioè alla continuazione dell’attività cantieristica. A
parte la difficoltà di trovare un investitore di questo genere, che
difficilmente sarebbe italiano, si possono prospettare scenari diversi,
ma tutti sfavorevoli ad una permanenza dell’attività cantieristica
italiana nelle sue dimensioni attuali.
La Fincantieri
opera oggi su una molteplicità
di unità produttive, sia pure diversamente specializzate; è evidente
che il nuovo investitore provvederebbe ad una razionalizzazione e ad una
concentrazione di attività, con inevitabili perdite occupazionali.
Qualora l’investitore non fosse italiano, verrebbe messa in forse la
permanenza delle commesse della MMI, nel quadro di una possibile
razionalizzazione europea delle capacità produttive in ambito NATO.
Per quanto riguarda le commesse civili, non si può
escludere che l’eventuale investitore provveda, nel tempo, a
delocalizzare verso Paesi a minor costo del lavoro prima la
realizzazione degli scafi, poi quella della motoristica, ed infine
quella dell’arredo, mantenendo almeno inizialmente in Italia le sole
attività di progettazione; realizzando allo stesso tempo liquidità non
irrilevanti con la cessione e la “valorizzazione” del consistente e
pregiato patrimonio immobiliare della Fincantieri come al successivo
punto c).
Infine, la possibilità di cessione ad un
investitore speculativo. In questo caso, l’acquisizione assumerebbe l’aspetto
di uno assets stripping: l’attività cantieristica verrebbe
gradualmente abbandonata, con il completamento delle commesse a
portafoglio, mentre verrebbero “valorizzate” le consistenti
attività patrimoniali della Fincantieri: come già avvenuto in molti
casi, ad es. negli Stati Uniti, le installazioni cantieristiche
verrebbero trasformate in depositi, o in attività turistiche, o
comunque cedute per essere destinate ad attività diverse da quelle
iniziali.
Nel caso della Fincantieri, operazioni di questo genere
potrebbero risultare estremamente attraenti e proficue, data la presenza
della Società in località di grande potenziale turistico/commerciale
(ad es. Castellammare, Marghera, ecc.). E’ evidente che operazioni del
genere verrebbero giustificate con l’occupazione sostitutiva generata
da tali attività, ma è altrettanto evidente che da un lato esse non
avrebbero effetti diretti e indotti tali da compensare la perdita di
occupati nella cantieristica, e dall’altro che in ben pochi casi
risulterebbe possibile reimpiegare allo stesso livello di competenze e
di retribuzioni quanti oggi operano nella cantieristica e nell’indotto.
Quanto esposto fino a questo punto non tiene conto del
valore “strategico” della cantieristica: e ciò non perché tale
valore non abbia il suo peso, quanto perché della “strategicità”
dell’uno o dell’altro settore si è usato e anche abusato in
passato, per giustificare anche la difesa di settori oggettivamente non
difendibili: e ciò tanto da parte sindacale quanto da parte politica,
spesso anche per la tutela di interessi locali, a scapito di qualunque logica economica.
Conclusioni
In conclusione, e tenendo conto dei deludenti risulti
delle privatizzazioni realizzate negli ultimi anni, si può ritenere che
l’eventuale privatizzazione della Fincantieri, tramite quotazione in
Borsa o cessione diretta, non solo non porterebbe ad una apprezzabile
riduzione del debito pubblico, ma comporterebbe con ogni probabilità un
ulteriore degrado produttivo ed occupazionale del sistema/Paese, ed una
consistente nuova riduzione della sua base industriale, con possibili
seri svantaggi nel medio termine.
Nota
L’autore di questa nota ha ricoperto per molti anni l’incarico
di Direttore centrale dell’Iri come responsabile dell’Ufficio Studi
e Pianificazione strategica.
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