Relazione introduttiva di Gianni Rinaldini


Compagne e compagni,  

per noi, per la Fiom, lo svolgimento del Congresso della Cgil è stato segnato profondamente dall’intreccio e dal rapporto con il contratto, con una vertenza durata tredici mesi il cui esito è oggi sottoposto al vaglio e alla decisone finale del voto segreto dell’intera categoria.

Mi sia permesso di dire che è stata assolutamente straordinaria la capacità, la caparbietà non tanto o soltanto del gruppo dirigente ma dei lavoratori e delle lavoratrici metalmeccaniche, dei delegati e delle delegate, di reggere, nel corso di questi anni, un conflitto sociale duro e difficile che quotidianamente ci ha impegnato sia sul terreno rivendicativo che sul versante della crisi dell’intero sistema industriale di questo paese.

Lo abbiamo fatto discutendo anche animatamente i diversi passaggi, compreso il Congresso ordinario anticipato della nostra organizzazione, ma questo fa parte della nostra natura, della nostra storia, della capacità di tenere assieme la discussione, l’espressione di posizioni diverse, con l’unità dell’organizzazione.

Questo è un patrimonio comune perché tutti i passaggi decisivi, dagli accordi separati ai pre-contratti nelle aziende, alla piattaforma unitaria, alla gestione delle lotte e all’ipotesi di accordo, hanno sempre visto la condivisione quasi unanime dell’insieme del gruppo dirigente.

Quasi unanime perché, ovviamente, sono state espresse anche posizioni di merito diverse su alcune di queste scelte.

Non mi riferisco, in questo caso, a quelle posizioni che nel corso di questi anni sono passate spregiudicatamente, dal segnalare il rischio che la Fiom diventasse una sorta di Cobas, alla pervicace e costante opera di disinformazione, per non dire altro, della piattaforma unitaria e dell’ipotesi di accordo.

Il rapporto tra la discussione congressuale e il contratto ci ha permesso, ci ha costretto, a una verifica sul campo di nodi fondamentali e decisivi delle scelte congressuali, perché a ben vedere l’oggetto vero di questo rinnovo del biennio economico è diventato il futuro della contrattazione, il senso stesso della contrattazione che va persino oltre la discussione aperta sui livelli contrattuali.

Livelli contrattuali, sistema di regole per fare cosa?

Non è un problema di ingegneria contrattuale. Il sistema di regole con la vertenza che dura tredici mesi non c’entra nulla. Riguarda il merito.

Non siamo stati sorpresi dal fatto che una scadenza contrattuale come il rinnovo del biennio economico abbia assunto queste caratteristiche – perché è sempre stato cosi per la nostra categoria – per la semplice ragione che, ci piaccia o meno, le nostre soluzioni contrattuali hanno inevitabilmente un valore e un significato sociale e politico di carattere generale.

Il settore metalmeccanico è la struttura portante dell’intero sistema industriale.

Non a caso l’ultimo accordo nazionale unitario dei metalmeccanici che non sia stato concluso in sede ministeriale risale al 1976, trenta anni fa, ed era evidente per tutti che questo percorso era assolutamente impraticabile per le posizioni assunte nel corso di questi anni da Maroni e Sacconi che hanno sempre apertamente sostenuto le posizioni più oltranziste della Confindustria.

Nello stesso tempo avevamo alle spalle quattro anni di accordi separati con tutto ciò che ha comportato come carico di conflitti, di tensioni, e perché no, anche di reciproci sospetti nel rapporto con le controparti.

È possibile oggi affermare che questo rapporto unitario, con le regole democratiche che ci siamo dati, ha superato positivamente questo passaggio difficile e anche l’emergere di posizioni diverse, non si è mai trasformato in una lacerazione tra le organizzazioni, ma bensì, in una crescita comune.

Ciò che ha determinato una lunga trattativa e molteplici iniziative di lotta è riconducibile essenzialmente a un nucleo centrale di ragionamento: la richiesta da parte della Federmeccanica e della Confindustria di determinare uno scambio, tra l’aumento retributivo e un peggioramento delle condizioni lavorative.

Tutte le proposte formulate da parte della Federmeccanica, dagli straordinari liberi alla monetizzazione di alcuni permessi annui aziendali, fino alla esigibilità dell’orario plurisettimanale, sono riconducibili a un solo aspetto fondamentale, quello della gestione unilaterale da parte delle imprese dell’orario di lavoro.

Hanno persino imbastito una campagna sui sabati lavorativi, un’invenzione mediatica volta a nascondere il senso reale del conflitto sociale aperto.

Una campagna mediatica falsa, ma che a ben vedere, costituiva il punto di incontro tra interessi diversi che attraversano il mondo delle imprese. Tra le imprese che chiedono l’orario plurisettimanale per una esigenza di stagionalità nel rapporto prodotto–mercato e quelle che esigono una gestione tempestiva (la chiamano «flessibilità tempestiva») dell’orario di lavoro in presa diretta con il mercato e non sono in grado, se non ipocritamente, di definire alcuna programmazione dell’orario.

Il punto di incontro tra queste diverse esigenze è, comunque sia, la esigibilità dell’orario, ed è per questo che ci hanno detto: «scegliete voi tra straordinari, Par, esigibilità dell’orario plurisettimanale. Ciò che a noi interessa è il superamento, o meglio, l’annullamento della contrattazione».

Per inciso sia chiaro che straordinari liberi vuole dire anche neutralizzare gli scioperi degli straordinari.

Questa è la posta in gioco, in nome della competitività su scala globale, affermare la totale subordinazione del tempo di lavoro, che vuole dire del tempo di vita delle persone, alle esigenze dell’impresa e del mercato, per cui, come hanno più volte affermato «dobbiamo poter decidere di lavorare 60 ore alla settimana, oppure 30, senza dover seguire le liturgie sindacali», che vuole dire la contrattazione.

Sia chiaro per tutti che una volta superato il ruolo negoziale delle Rsu viene superato l’orario settimanale che, inevitabilmente, con passaggi successivi, diventerà quadrimestrale, semestrale e, infine, annuo.

Questo ci insegna l’esperienza di altre categorie.

Altro che primo o secondo livello contrattuale, siamo alla esplicitazione di un’idea della contrattazione, del confronto e del negoziato che non è più fondato su soggetti autonomi portatori di interessi diversi, ma bensì sul riconoscimento di un solo interesse e di un unico punto di vista, quello dell’impresa; il sindacato diventa soggetto collaborativo per usare il termine della Confindustria, che svolge un ruolo puramente adattivo e di accompagnamento alle scelte delle imprese.

Orario, precarizzazione del rapporto di lavoro, retribuzione variabile legata alla redditività dell’impresa: il cerchio si chiude, viene semplicemente cancellata la contrattazione.

Cambia profondamente il ruolo e la funzione della rappresentanza sociale del sindacato.

Per questo abbiamo scelto di respingere, sotto qualsiasi forma, ogni ipotesi di riduzione del ruolo delle Rappresentanze sindacali unitarie e abbiamo contemporaneamente dichiarato la nostra disponibilità all’allargamento della causale della stagionalità dell’orario plurisettimanale, da concordare con le Rsu, stabilendo un rapporto che dovrà vivere anche nella contrattazione aziendale con il mercato del lavoro, con la riduzione della precarietà.

Unitariamente abbiamo sostenuto che la nostra richiesta sul mercato del lavoro è quella di definire percentuali onnicomprensive sul tempo determinato e sulla somministrazione di manodopera, cioè l’interinale, definendo percorsi di trasformazione a tempo indeterminato.

Onnicomprensive significa comprensive dei contratti a tempo determinato fino a sette mesi prorogabili e delle casistiche come i picchi produttivi che la Legge 30 esclude esplicitamente dalle percentuali che devono essere definite nei Ccnl.

Abbiamo rifiutato la proposta di definire le percentuali sul tempo determinato e interinale sulla base del rimando della Legge 30 e convenuto sulla costituzione di una commissione che entro il 31 luglio 2006 deve tentare di fare un accordo.

Se ciò non dovesse avvenire, e le nostre posizioni sono chiare, decade automaticamente anche la fase sperimentale sull’estensione dell’orario plurisettimanale.

Questa scelta importante rappresenta un’indicazione precisa per la contrattazione aziendale, ed è un’indicazione unitaria importante che non era scontata soltanto alcuni mesi fa.

Non vi è dubbio che le questioni poste per la loro assoluta radicalità riguardano non soltanto i metalmeccanici ma l’insieme del movimento sindacale.

Del resto noi non abbiamo avuto l’onore della prima pagina de «il Sole-24Ore» come contratto «modello e innovativo per il futuro», ma viceversa il vice presidente della Confindustria Bombassei, il giorno dopo, nel chiedere l’apertura del tavolo confederale sulle regole, ha ribadito che ciò che non è passato nel contratto dei metalmeccanici sarà al centro del confronto confederale.

È veramente sorprendente come si continui a sottacere e sottovalutare il fatto che la Confindustria, nel mese di settembre 2005, ha presentato un documento – una proposta – che non a caso viene definito Patto costituzionale.

Patto costituzionale perché dentro quello schema si arriva a mettere mano allo stesso diritto di sciopero e all’arbitrato obbligatorio in caso di conflitto.

Uno schema che prevede un ruolo indebolito del Contratto nazionale al punto tale che assegna alle imprese la gestione dell’orario di lavoro.

Se le cose che ho detto hanno un senso è evidente che qualsiasi ragionamento sulla riprogettazione del paese a partire dal lavoro per un’organizzazione sindacale non può che partire dai luoghi dove si esercita la prestazione lavorativa e quindi dalla contrattazione.

Diventa allora essenziale capire se l’orario di lavoro, il tempo di lavoro settimanale costituisce per il movimento sindacale un limite non valicabile se non attraverso la contrattazione aziendale.

Diventa essenziale capire se per noi, per la Cgil, quando si discute di sistema di regole, deve essere escluso, come materia non disponibile, qualsiasi tentativo di introdurre sotto qualsiasi forma la regolamentazione dell’orario di lavoro.

Stiamo discutendo in questo modo aspetti fondativi della nascita stessa del movimento sindacale come soggetto autonomo, del superamento della condizione del lavoratore e della lavoratrice come una merce per affermarne la dignità che ha trovato nella determinazione dell’orario di lavoro, del tempo di lavoro, un aspetto centrale e decisivo.

Non si tratta di negare i mutamenti intervenuti nell’organizzazione delle imprese, nel rapporto produzione e mercato, di negare la flessibilità di prestazione come tentano di far credere, ma di quale flessibilità di prestazione e quale rapporto tra le forze sociali.

Si tratta di capire se questi cambiamenti sono utilizzati per tornare a un’antica aspirazione delle imprese; continuo a non capire dove siano gli aspetti innovativi e moderni, che sono propri dell’idea liberista, o viceversa se questi cambiamenti aprono la strada a un avanzamento delle relazioni sindacali e della contrattazione tra soggetti autonomi.

Sta qui, a ben vedere, la questione sociale che attraversa la discussione aperta in gran parte delle organizzazioni sindacali nei paesi industrializzati.

Al di là di storie sindacali e politiche diverse, ovunque ci troviamo a fare i conti con un’idea liberista su scala planetaria che rappresenta una radicale rottura rispetto al passato, poiché considera incompatibile qualsiasi vincolo sociale che non sia subordinato alle esigenze di competitività di ogni singola impresa. Anche gli assetti sociali e le relazioni sindacali più consolidate nel tempo, come quelli tedeschi, sono oggi profondamente in crisi.

Fa una certa impressione leggere la legislazione sul lavoro recentemente approvata in un paese democratico come l’Australia, per l’esplicito smantellamento della contrattazione e dei diritti sociali.

In quella legge, tra le altre cose, si prevede l’orario annuo, straordinari a disposizione delle imprese e il superamento della contrattazione collettiva con i contratti individuali per i nuovi assunti.

Diritti sociali, civili e politici rappresentano in Europa un nesso inscindibile dello stesso assetto democratico e istituzionale.

L’idea liberista viceversa prospetta un assetto sociale che a partire dal lavoro considera la società un insieme di individui che in quanto tali competono uno contro l’altro o se si vuole, ogni azienda-comunità compete contro l’altra azienda-comunità secondo le regole del mercato.

Regole di mercato che allo stato puro non esistono né sono mai esistite, rappresentano l’unica vera ideologia ancora in campo, perché ovunque il ruolo dell’intervento pubblico è assolutamente decisivo.

Basti pensare agli Stati Uniti oppure alla Francia, alla Germania e perché no, alla Cina.

Quando dicono «libero mercato» si riferiscono in primo luogo agli aspetti sociali, al lavoro, alle privatizzazioni compresi i beni comuni e il sistema di sicurezza sociale.

In questo contesto cresce il ruolo e la funzione del capitale finanziario che opera secondo una logica esclusiva, quella del profitto a breve, del guadagno a breve che sta all’origine non soltanto dei processi di delocalizzazione ma del rapporto con la rendita finanziaria, con l’illusione che i soldi moltiplicano i soldi e non è più il lavoro la fonte della ricchezza di un paese.

È necessario che venga definito anche sul versante legislativo un intervento di contrasto in questi processi di delocalizzazione, agendo sugli strumenti fiscali che favoriscano scelte finalizzate allo sviluppo industriale e colpiscano quelle operazioni di pura rapina del territorio e delle condizioni sociali.

Le nuove tecnologie della comunicazione e l’assetto politico internazionale hanno reso possibile oggi una globalizzazione fondata sulla libera circolazione dei capitali e sul ruolo delle grandi istituzioni monetarie e commerciali dall’Fmi (Fondo monetario internazionale) al Wto (Organizzazione mondiale del commercio), mentre è praticamente inesistente una globalizzazione fondata sui diritti sociali, civili e democratici.

Questo processo, che ha carattere generale e trasversale, interno ed esterno alle imprese, sta alla radice degli scandali e delle truffe che si susseguono.

Interno ed esterno alle imprese perché sarà pure un fatto legale, ma ciò non toglie che la diffusione della stock option dei manager delle imprese, rappresenta uno scandalo legale e, quando parte non trascurabile dei nuovi imprenditori nasce da operazioni di questa natura, c’è di che preoccuparsi.

La svalorizzazione del lavoro, la marginalità della condizione lavorativa è il prodotto di un lungo processo che ha inizio alla fine degli anni 70, sia in termini sociali che politici.

L’obiettivo è sempre lo stesso.

Il movimento sindacale è nato sulla base di lotte durissime per il riconoscimento del diritto di coalizione, cioè la possibilità dei lavoratori di organizzarsi autonomamente in sindacato per migliorare le proprie condizioni.

Risale a metà dell’Ottocento, questo riconoscimento legislativo in Inghilterra.

Allora i liberisti spiegavano che il diritto di coalizione rappresentava una turbativa rispetto alle regole del mercato.

Successivamente è stata la volta del Contratto nazionale o, se preferite, del sindacato non solo aziendale ma come soggetto di solidarietà e di unificazione dei lavoratori.

Perché un soggetto sociale che avesse la pretesa non solo a livello di singola azienda, ma dell’insieme dei lavoratori, ad esempio di categoria, di definire le condizioni normative e retributive come vincolo sociale per le imprese, era considerato assolutamente incompatibile.

Negli Stati Uniti per decenni si è sviluppato un conflitto sociale aspro e violento – con costi sociali enormi e centinaia di sindacalisti e lavoratori uccisi – sul non riconoscimento dello sciopero di solidarietà – loro lo chiamavano «sabotaggio» – che consisteva nella possibilità di scioperare a sostegno di altri lavoratori.

Un conflitto sociale, da cui quel movimento sindacale è uscito sconfitto, che ha profondamente segnato il modello sociale di quel paese.

Non è stato così in Europa e nel nostro paese, la conquista del Ccnl dei metalmeccanici risale al 1919 e sono state sconfitte tutte quelle posizioni che in nome del mercato lo ritenevano incompatibile.

Il Ccnl è in realtà un elemento non soltanto di solidarietà ma regolatore del mercato, perché in caso contrario esiste il dumping sociale tra le imprese, giocato sulla condizione dei lavoratori e delle lavoratrici.

Adesso in nome della modernità ci spiegano che in una competizione globale tutto ciò che rappresenta un vincolo sociale, siano essi i diritti oppure il Ccnl, rappresentano una turbativa alla libera espressione della competitività su scala planetaria.

Non c’è niente da fare, alla fin fine tornano sempre al punto di partenza. Non è difficile capirne la ragione.

Il sindacato non può essere un soggetto autonomo e democratico, la cui unica legittimazione deriva dai lavoratori che vuole rappresentare, ma deve essere un agente collaborativo del sistema, o meglio, del mercato.

Sarebbe miope da parte nostra sottacere il fatto che l’intera storia del movimento sindacale a livello europeo è sottoposto a una pressione fortissima, perché è saltato il compromesso sociale del Novecento.

A fronte del dispiegarsi a livello planetario della forza del capitale, la dimensione nazionale del sindacato non è più sufficiente; corriamo il rischio di essere travolti in una logica di contrapposizione nella speranza mai esplicitata che quando una multinazionale o un fondo di investimento annuncia la chiusura di uno o più stabilimenti, questo riguardi il paese che ci sta di fianco a cui esprimere un comunicato di solidarietà che non si nega mai a nessuno!

È inevitabile, sta nelle cose, nei processi in atto, che può arrivare anche alla contrapposizione tra gli stabilimenti nello stesso paese.

Ne discuteremo apertamente domani, avendo previsto una sessione specifica del congresso con i sindacati di altri paesi.

Mi preme soltanto ribadire che siamo a un bivio: o decidiamo di raccogliere la sfida della costruzione del Sindacato europeo e del Contratto europeo, oppure temo che sarà sempre più difficile evitare la deriva del sindacato di mercato.

A chi ci propone di ridurre il ruolo del Contratto nazionale nelle diverse forme, dal Contratto nazionale minimo al Contratto nazionale con possibili deroghe a livello territoriale e/o aziendale, rispondiamo che il Contratto nazionale è l’espressione della solidarietà e dell’emancipazione dell’intera categoria e la contrattazione aziendale territoriale è finalizzata al miglioramento dello stesso Contratto nazionale.

Per questo il Contratto nazionale non va indebolito ma esteso a livello europeo, passando anche attraverso una fase di contrattazione in alcuni gruppi industriali da definire comunemente.

Questa è la sfida che abbiamo di fronte, difficile, ambiziosa, ma necessaria.

Le stesse vicende relative alla Costituzione europea ci stanno a indicare il disagio sociale che si sta determinando: la crescita delle disuguaglianze sociali, l’insicurezza sociale come condizione di vita richiedono una risposta forte da parte del sindacato e della politica.

La giustizia sociale, i diritti sociali sono la base fondamentale su cui costruire l’Europa, senza i quali essa appare con il volto dello smantellamento dello Stato sociale e della precarietà, con il volto delle direttive sull’orario di lavoro e della Bolkestein.

La cultura dei diritti sociali, che è propria della storia dell’Europa, non può essere sostituita dalla cultura delle opportunità che è propria degli Stati Uniti.

La cultura delle opportunità è tale se fondata sulla cultura dei diritti sociali.

Tutto ciò avviene in una situazione dove le regole internazionali di fatto non esistono più, a partire dal ruolo dell’Onu che è stato totalmente delegittimato nel corso di questi anni secondo la logica del più forte – militarmente ed economicamente – che detta le condizioni.

Esiste l’Onu se opera come vogliono gli Stati Uniti, altrimenti non esiste perché incapace di agire, di operare.

In una logica di questa natura c’è un solo deterrente, che piaccia o meno, un limite che è quello costituito dal fatto che l’avversario sia forte e pericoloso militarmente ed economicamente.

È un circolo vizioso inarrestabile, il cui esito è la guerra come dato strutturale e permanente con l’industria delle armi che prolifera in tutti i paesi.

Come non vedere il baratro di questa follia. Fermiamoci, fermiamoli finché siamo in tempo.

La nostra condanna del terrorismo è assoluta, non c’è giustificazione alcuna a mettere delle bombe in un autobus o in una metropolitana che costituiscono una vera barbarie.

Ma sia altrettanto chiaro che la guerra non colpisce ma favorisce le forze integraliste e fondamentaliste, che sono portatrici di una idea della società e del mondo che non ha nulla a che vedere con la storia del movimento operaio.

Per noi, per la Fiom e per la Cgil, il successo elettorale di Hamas in Palestina rappresenta una sconfitta, per la semplice ragione che la lotta del popolo palestinese ha sempre rappresentato per noi la parte laica e democratica del mondo arabo.

Ma domandiamoci, e lo chiedo alla sinistra, ai democratici: noi non abbiamo alcuna responsabilità di quell’esito elettorale?

Non è forse vero che la crescita delle forze fondamentaliste, come vediamo anche in questi giorni, è l’altra faccia di una politica sciagurata, due processi che si alimentano a vicenda! E le forze democratiche, pacifiste, la sinistra nel suo insieme, ha il dovere di costruire un altra proposta, un’altra idea dell’assetto mondiale altrimenti, semplicemente, non svolge alcun ruolo politico, non esiste.

Per questo il punto di partenza e di arrivo è il ripudio della guerra come prevede la nostra Costituzione.

La riforma dell’Onu come condizione perché possa svolgere realmente un ruolo sull’assetto internazionale.

La riforma dell’Onu e degli altri organismi internazionali non consiste soltanto nel superamento del diritto di veto ma nella sua democratizzazione e nella sua titolarità su tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti.

Compiere la scelta mondiale, non dico il disarmo, ma di riduzione degli strumenti militari e nucleari (già oggi posseduti da diversi paesi più o meno democratici) aumenta l’autorevolezza per chiedere ad altri paesi di non costruire armi nucleari.

Altrimenti il rischio è la fiera delle ipocrisie.

Il ruolo dell’Europa può diventare decisivo se abbiamo la capacità e la volontà politica di assumerlo.

Abbiamo assunto in questi anni posizioni precise come Fiom e come Cgil, contro la guerra e il terrorismo e lo ribadiamo con nettezza a partire dal ritiro delle truppe militari dall’Iraq e dall’Afghanistan.

Anche per queste ragioni, siamo parte del movimento mondiale contro il liberismo e abbiamo partecipato alle diverse fasi di crescita e di difficoltà di quel movimento, abbiamo attraversato Genova e Firenze nella consapevolezza e nella speranza che possa svilupparsi un movimento globale come nuovo soggetto alternativo alla guerra e al terrorismo.

In questo contesto si colloca la specificità del nostro paese che trova riscontro nel fatto che siamo al fallimento di una scelta politica e sociale che ha contemporaneamente determinato un peggioramento delle condizioni lavorative, delle disuguaglianze sociali e della crisi del sistema industriale.

Questi guasti hanno tali dimensioni che siamo chiamati a fare i conti non tanto o soltanto con un dato congiunturale ma strutturale dell’assetto del nostro paese.

La moneta unica europea, l’euro, costituisce da questo punto di vista un passaggio decisivo, perché ha contribuito a modificare il rapporto tra le imprese e la loro collocazione europea e internazionale.

A quel punto si è conclusa la fase di una competitività del sistema industriale che scaricava sulla svalutazione della moneta i margini della competitività e dei costi del sistema e apriva una nuova fase dove il terreno è diventato inevitabilmente quello dell’innovazione, della ricerca, della formazione e della qualità del prodotto.

È successo esattamente l’opposto.

Questo lungo periodo, le scelte di moderazione salariale compiute, non sono state accompagnate da un percorso di riaggiustamento strutturale del sistema, sia per raggiungere l’obiettivo dell’euro che nella fase successiva, con una evidente accentuazione in questi ultimi anni.

Le privatizzazioni sono state attuate in assenza di alcun disegno di politica industriale ma semplicemente con operazioni finalizzate a fare cassa, determinando in molti casi semplicemente la regalia di condizioni di monopolio e di rendita a soggetti privati, contribuendo in questo modo al formarsi di un vecchio e nuovo ceto imprenditoriale, più interessato agli aspetti finanziari che a quelli di natura industriale.

La vicenda Telecom rappresenta bene questo processo, a partire dalla storia dell’Olivetti.

Si è creato anche in questo modo un intreccio tra la politica, il sistema bancario e il mondo delle imprese, dalla borghesia storica ai giovanotti emergenti che non ha nulla a che vedere con scelte relative allo sviluppo del paese.

Coerentemente a queste scelte il governo e il sistema delle imprese hanno scelto come volano per stare sui mercati, quello della riduzione del costo del lavoro, che vuole dire concretamente il peggioramento delle condizioni lavorative, la precarizzazione del rapporto di lavoro, la riduzione dei diritti e della contrattazione.

La legislazione sul lavoro, sul sistema fiscale e sul sistema di sicurezza sociale, è segnata socialmente da questa scelta e da questo obiettivo, così come l’esplicito tentativo di giocare all’isolamento della Fiom e della Cgil.

Trovo veramente incredibile il tentativo della Confindustria e della Federmeccanica di dimostrare che nel corso di questi anni le retribuzioni sono aumentate, che ovviamente per Sacconi vuol dire che i metalmeccanici si sono arricchiti.

Continuare a ripetere la solita litania che il problema della competitività e della produttività del sistema deriva dalla poca flessibilità, dalla rigidità dei contratti, dal costo eccessivo del sistema previdenziale e da quello sanitario, significa voler perseverare su una strada impercorribile.

La riduzione del potere d’acquisto e la precarizzazione dei rapporti di lavoro ci consegnano oggi la crisi del sistema industriale, l’assenza nel nostro paese dei settori strategici e la marginalità rispetto ai processi in atto di ridefinizione della divisione del lavoro, ci relegano sempre più ad area di sub-fornitura rispetto all’industria europea.

È necessaria una svolta profonda, lo diciamo alla vigilia delle elezioni, una svolta e una rottura che sia visibile e comprensibile nel suo significato sociale.

Per questo è necessario che l’intera legislazione sul lavoro, prodotta nel corso di questi anni, sia abrogata e superata con una nuova e diversa legislazione, che rimetta al centro il lavoro a tempo indeterminato e definisca un sistema universale di copertura degli ammortizzatori sociali in rapporto alla formazione.

Diciamo abrogare per sottolinearne il significato di rottura rispetto all’esistente.

Quando parliamo di legislazione sul lavoro, noi comprendiamo anche la necessità, l’esigenza, non più eludibile di una legge sulla rappresentanza sindacale. Di una legge che affermi il diritto democratico delle lavoratrici e dei lavoratori di validare o meno le piattaforme e gli accordi attraverso il referendum.

Sono note le posizioni della Cgil, che condividiamo, sullo Stato sociale, sulla Bossi-Fini, sui Cpt ed evito di ripercorrerle nell’ambito di questa relazione, ciò che mi interessa richiamare è il come pensiamo di affrontare questa situazione.

Pensiamo di riproporre il percorso dell’inizio degli anni Novanta – e in questo caso poco mi interessa la discussione sulla concertazione come metodo e come merito – oppure pensiamo a un percorso diverso?

Ritengo quel percorso non possibile anche in presenza di un auspicabile nuovo governo, per la semplice ragione che le condizioni sono profondamente mutate, le condizioni dei lavoratori, delle lavoratrici e dei pensionati non sono comparabili con quelle di allora.

Sono cambiate le condizioni su tutti gli aspetti relativi alla condizione sociale, dalle retribuzioni al mercato del lavoro, alla struttura fiscale, allo Stato sociale.

Un sistema di regole contrattuali non richiede necessariamente la definizione di un patto sociale. Il sistema di regole contrattuali non è una priorità. Sono altre le priorità di questo paese.

Evitare la politica dei due tempi, come abbiamo detto, vuole dire perseguire sindacalmente la definizione di accordi sulle grandi problematiche aperte, a partire dalla definizione di un Patto fiscale, che costituisce elemento decisivo per qualsiasi ragionamento sul sistema di sicurezza sociale.

Non esiste una seria e credibile prospettiva per la sanità, per la previdenza, senza un ridisegno complessivo della struttura fiscale di questo paese, perché esiste un nesso inscindibile tra questo e gli oneri sociali del costo del lavoro.

In caso contrario si corre il rischio di avventurarsi in promesse elettorali di cui non si capisce, alla fine, quali interessi sociali vengano colpiti.

Dire che si diminuiscono contemporaneamente le tasse e gli oneri sociali senza dire il resto non va bene.

In questo ambito e dentro questo percorso si pone la questione della politica industriale.

Lo possiamo anche dire in un altro modo: le vicende di questi mesi ci confermano che è in corso uno scontro tra i poteri economici, nel sistema bancario, tra il sistema bancario e il sistema delle imprese, tra scalate e controscalate, operazioni dei furbetti e dei furboni, uniti dal fatto che non si capisce perché hanno tutti, o quasi tutti, delle società collocate in altri paesi, in Svizzera o Lussemburgo. La società di Fiat Auto si trova in Olanda.

Su questo si è aperta una strana discussione riguardo il rapporto tra politica ed economia, tra pubblico e privato.

Ora non vi è dubbio che sussiste la necessità di un sistema di regole trasparenti, a partire dal superamento del conflitto d’interessi, ma ciò che appare non comprensibile è l’idea che ciò sia sufficiente.

Si dice che il ruolo del pubblico dovrebbe essere quello di definire le regole, per il resto ci pensa il buon funzionamento delle leggi del mercato che peraltro, essendo secondo i classici la «mano invisibile del mercato», è di per sé complicato regolamentare.

Noi pensiamo il contrario.

Deve essere ridefinito il ruolo dell’intervento pubblico, che non vuole dire necessariamente riproporre le partecipazioni statali, ma la piena consapevolezza che senza un’idea di politica industriale che sappia individuare i settori strategici da sviluppare e formare un ambiente per l’innovazione, la qualità e la formazione, non si va da nessuna parte.

Riteniamo una sciocchezza pensare che il futuro di questo paese sia costituito da turismo, terziario e nicchie di mercato.

Una sciocchezza in primo luogo per il Mezzogiorno, che sta pagando i costi più pesanti della crisi.

Per questo abbiamo posto il problema della gravità della situazione dell’informatica e delle telecomunicazioni, dove è in atto un processo di smantellamento, con società che appaiono e scompaiono nello spazio di poche settimane, e alla fine al ministero si discute soltanto di ammortizzatori sociali.

Per questo riteniamo sbagliato che la Finmeccannica compia scelte di ridimensionamento del settore civile, e diciamo alla Fincantieri che se avessimo ceduto alcuni anni fa all’idea di portare l’azienda in borsa oggi probabilmente saremmo di fronte a una situazione fallimentare.

Potrei dilungarmi in un lungo elenco, dagli elettrodomestici alla siderurgia, alla cantieristica, all’energia, ma è sufficiente richiamare il settore dell’auto e della componentistica per capire che le nuove frontiere, le sfide del futuro, esigono una grande progettualità che sia in grado di misurarsi con la definizione di un progetto di mobilità sostenibile delle merci e delle persone.

Sapendo che il gruppo Fiat non esiste senza Fiat Auto.

Sostenibile socialmente e ambientalmente, sapendo che questo tipo di prodotto, così come è concepito oggi, non ha futuro e l’intervento pubblico è aspetto decisivo per affrontare la nuova dimensione globale.

La Fiat è l’ultimo grande gruppo privato rimasto, ma non è un grande gruppo a livello europeo, i problemi di prospettiva rimangono per intero e oggi è possibile affrontarli in una condizione finanziaria diversa, rispetto a un anno fa.

I costi pagati dai lavoratori e dalle lavoratrici in questi anni sono stati enormi; l’ultimo accordo aziendale del gruppo Fiat risale al 1996.

Noi non sappiamo se le operazioni compiute sulle azioni Fiat per garantire alla famiglia le quote del 30% siano state legalmente corrette. Lo sono fino a prova contraria, visto che è atteso un pronunciamento della Consob e la Procura di Milano ha aperto una indagine, ma di una cosa siamo convinti: sulla base dei dati finanziari annunciati non è più eludibile il fatto che la famiglia decida se spendere risorse per un rilancio credibile del gruppo altrimenti si apre uno scenario diverso, anche negli assetti proprietari.

Per quanto ci riguarda è necessario aprire, nelle prossime settimane, la vertenza del gruppo Fiat, nelle forme e nelle modalità che decideremo unitariamente con i lavoratori e i delegati, per la semplice ragione che la situazione non è più sostenibile, ed è bene che nessuno pensi o si illuda che la condizione di lavoro e retributiva siano un aspetto secondario del futuro del gruppo.

Pare che nella giornata odierna, il ministro Maroni proponga alla Fiat un meccanismo che prevede la mobilità (cioè i licenziamenti) e poi un percorso di ricollocazione dei lavoratori licenziati. Se fosse così, diciamo al ministro e alla Fiat che stanno perdendo del tempo, perché i metalmeccanici i licenziamenti non li firmano né con la Fiat né con il governo.

La situazione del sistema industriale è tale da costituire un banco di prova per il nuovo governo, ed è forte la sensazione che in questa fase molti nodi fondamentali vengono rinviati, differiti nel tempo, con il rischio di un incrocio di un’enorme questione sociale.

Organizzazione del lavoro, politica industriale, si misurano inevitabilmente con il modello di sviluppo, con il riproporsi di una tematica che è stata propria del movimento sindacale.

Un nodo in realtà mai risolto, che oggi emerge con forza nel rapporto con l’ambiente, con l’uso delle risorse energetiche, con il vivere umano.

Del resto anche quando si parla di condizioni lavorative e di sistema di sicurezza sociale si parla di modello di sviluppo, ma questo non è sufficiente, oggi esiste su questo versante una nuova sensibilità sociale che sbaglieremmo a sottovalutare.

Parlare di grandi opere non è più sufficiente per avere il consenso della gente, anche perché le esperienze del passato non soltanto nel nostro paese che dopo alcuni decenni deve ancora completare la Salerno-Reggio Calabria, ma anche a livello europeo, si sono successivamente rivelate perlomeno discutibili.

Per questo con la necessaria umiltà siamo stati parte di un movimento diffuso in questi ultimi anni, a partire dal rifiuto della privatizzazione dei beni comuni come, ad esempio, l’acqua.

Da Scanzano al ponte di Messina, alla Val di Susa, che ha posto con forza il problema della partecipazione, del confronto anche tra ipotesi diverse e alternative e non tanto del rifiuto pregiudiziale.

Ipotesi alternativa, rapporto costi-benefici, utilizzo della spesa pubblica, rapporto con l’ambiente e la sicurezza, sono temi che ritornano e che certamente non possono essere risolti militarizzando il territorio e mandando le forze di polizia a operare nel corso della notte.

La pausa olimpica deve essere utilizzata per sviluppare il confronto a pari dignità delle diverse ipotesi, compresa quella formulata unitariamente dalla comunità montana della Val di Susa.

Abbiamo discusso nel nostro congresso anticipato della contrattazione di secondo livello di cui confermiamo gli orientamenti assunti.

Non vi è dubbio che è decisivo del nostro operare e del nostro radicamento – il terreno della contrattazione aziendale – la capacità di incidere sull’organizzazione del lavoro, sul concreto esercizio della prestazione lavorativa nei suoi diversi aspetti.

Obiettivo prioritario è quello della riunificazione dell’insieme del lavoro dipendente, della molteplicità dei rapporti esistenti, per estendere a tutti i lavoratori e lavoratrici condizioni eguali nella retribuzione e negli aspetti normativi, per definire percentuali e percorsi di trasformazione a tempo indeterminato.

Con la conclusione dei contratti di formazione/lavoro è ipotizzabile un’estensione dell’apprendistato che richiede sulla base del recente accordo un intervento contrattuale sulla formazione e sull’integrazione della parte retributiva con quella concordata a livello aziendale.

Riteniamo importante favorire rapporti di lavoro che abbiano un rapporto reale con la formazione e ridurre tutte le forme di precarietà.

Più complessivamente abbiamo compiuto la scelta di assegnare alle Rsu un ruolo sempre più importante, e questo richiede per l’insieme dell’organizzazione un riposizionamento funzionale a questo obiettivo.

Le condizioni di lavoro sono peggiorate nel corso di questi anni, dalle linee di montaggio, all’informatica, ai call center.

Il futuro del Ccnl – funzione e rilevanza – è determinato in primo luogo da ciò che saremo in grado di determinare nei luoghi di lavoro.

Il Ccnl ha svolto un ruolo d’avanzamento significativo per l’insieme della categoria – quando è stato sorretto da una contrattazione nei luoghi di lavoro – in grado anche di anticipare soluzioni più avanzate sulle condizioni lavorative.

Il Ccnl non è sostitutivo dei rapporti che si determinano nelle imprese ma, viceversa, ne rappresenta l’estensione dell’insieme della categoria.

In una fase come quella che stiamo attraversando, ove ovunque in tutti i paesi il Ccnl come valore di solidarietà generale, viene messo in discussione, diventa decisivo il rafforzamento della contrattazione aziendale.

Non esiste un processo rovesciato, dobbiamo averne piena coscienza.

Questo richiede l’esigenza di aprire una riflessione a tutto campo, sull’attuale organizzazione delle categorie e della Cgil.

Avremo un approfondimento specifico nella sessione congressuale prevista per il pomeriggio di giovedì.

Discuteremo e decideremo sui problemi della nostra organizzazione, del nostro insediamento sociale e la necessità di favorire la nostra presenza nel territorio e nelle aziende.

Apriremo in questo modo anche una nuova campagna di sindacalizzazione.

Ciò che mi interessa richiamare consiste nel fatto che i processi di frammentazione e di riorganizzazione delle imprese hanno determinato una frammentazione del ciclo lavorativo e dei lavoratori che attualmente corrisponde a diverse categorie di riferimento.

Ciò avviene sia all’interno che all’esterno dello stesso luogo fisico, con la situazione paradossale che lavoratrici e lavoratori che continuano a svolgere lo stesso lavoro, si ritrovano nell’arco di una settimana facenti parte di un’altra società o di un altro contratto.

Nelle statistiche risultano come terziarie perché facciamo notare, noi conservatori, che quelle statistiche sono rimaste «fordiste», un po’ come l’Istat.

Esternalizzazioni e appalti, sistema a rete, rendono di fatto difficilmente praticabile una reale contrattazione aziendale in grado di incidere sull’organizzazione del lavoro e sull’organizzazione dell’impresa.

L’attuale suddivisione di categoria e di contratti vanno ridefiniti e la stessa suddivisione tra industria e terziario fa parte di categorie concettuali che sono state superate dai processi di trasformazione nell’organizzazione produttiva, stante il fatto che non credo che qualcuno pensi che industria voglia dire fabbricazione e tutto il resto terziario.

Contrattazione di filiera e di sito, che abbiamo scritto nei documenti della Fiom e della Cgil, è priva di senso, di praticabilità se non abbiamo il coraggio di aprire una discussione e decidere una riorganizzazione complessiva del nostro funzionamento, del nostro operare.

Non a caso ciò sta avvenendo in buona parte dei sindacati europei, con scelte più o meno discutibili; lo verifichiamo tutte le volte che partecipiamo alle riunioni della Federazione europea dei metalmeccanici e a quelle della Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici.

Nel precedente congresso della nostra categoria abbiamo proposto la formazione del sindacato dell’industria, anche con una esplicita forzatura, per aprire una discussione.

Così come i processi aperti sul sistema previdenziale ci pongono il problema del rapporto tra le categorie e il Sindacato dei pensionati.

Crediamo che da questo congresso della Cgil sia necessario uscire definendo il percorso, le tappe e le forme di questo confronto, comprese le modalità per assumere delle decisioni.

Non è in discussione tra di noi la confederalità e tanto meno l’unità della Cgil.

Questo non deriva dall’accorpamento o meno di alcune categorie.

La Fiom e la Cgil sono inscindibili.

La Fiom senza la Cgil, non sarebbe la Fiom. Così come, la Cgil senza la Fiom, non sarebbe la Cgil.

Perché questa è la nostra storia fin dalla nascita della nostra organizzazione.

La dimensione confederale, come espressione dell’insieme degli interessi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati che vive in tutto il territorio da quello locale a quello nazionale, va rafforzata, non indebolita.

Ciò che considero poco convincente è l’idea che la confederalità rappresenta di per sé stessa la sintesi, mentre le categorie rappresentano la parzialità come dato di partenza e non come dato di arrivo.

Un’idea strana ma non sconosciuta, che ricorda una vecchia storia per cui il partito rappresenta la sintesi, i movimenti la parzialità.

Dato che siamo in fase di Centenario della Cgil mi piace ricordare che la specificità della nostra storia, da preservare, consiste proprio nel fatto che, a fronte delle opzioni che allora si confrontavano sulla forma dell’organizzazione sindacale, alcune categorie come la Fiom e alcune Camere del lavoro decisero di costituire la Cgil.

In quell’atto fondativo sta la nostra concezione della confederalità, come continua costruzione, mai definita una volta per tutte, tanto meno definita per funzioni diverse della comune sintesi confederale, dei diversi interessi rappresentati.

La costruzione di questa sintesi è sempre un percorso complicato e difficile, ma costituisce la linfa vitale della nostra organizzazione.

Quando c’è stata una dialettica vera tra categorie e categorie, tra categorie e confederazione, tra la Fiom e la Cgil, è sempre stata l’espressione vera della realtà che vogliamo rappresentare e non delle invenzioni degli apparati.

Quando, viceversa, non è esistita questa dialettica, abbiamo attraversato i periodi più difficili per tutti, dove la dialettica si esprimeva nelle scorribande dell’apparato organizzativo.

Nella mia esperienza sindacale, che è stata prima di categoria, successivamente confederale, e da alcuni anni di nuovo di categoria, so bene quanto siano faticosi, questo confronto e questa dialettica; conosco altrettanto bene quali sono le pulsioni negative che si possono attivare, che sono proprie di ogni burocrazia sia essa di destra, di centro o di sinistra.

Abbiamo votato al Congresso un documento unitario e delle tesi alternative, sui punti relativi al nuovo sistema di regole contrattuali e alla democrazia sindacale.

Il risultato del voto degli iscritti è noto così come il voto espresso dai lavoratori e dalle lavoratrici metalmeccaniche.

Non credo che sia necessario ripercorrere questa discussione.

Al di là di giudizi diversi che ci sono stati tra di noi, sul sistema di regole contrattuali del 23 luglio, resta il fatto che la sua pratica attuazione non soltanto nell’interpretazione della Confindustria, ma anche in quella di buona parte del sindacato, è stato ridotto al rapporto tra incrementi retributivi e inflazione.

È diventata opinione comune, o per lo meno ampiamente diffusa, che quel sistema è entrato in crisi perché il riferimento dell’inflazione programmata comune non esiste più.

Non è stato così quando nel 2001 la richiesta unitaria dei metalmeccanici prevedeva una quota aggiuntiva per l’andamento di settore, così come contempla – per altro – l’Accordo del 23 luglio.

Quella vicenda si concluse con l’accordo separato, ma non è questo che mi interessa richiamare.

Ciò che mi interessa ricordare è che non divenne oggetto, né tanto meno praticata, una impostazione contrattuale diversa che non fosse quella dell’interpretazione del 23 luglio da parte della Confindustria.

Ci fu la grande manifestazione del 23 marzo 2002, a difesa dell’articolo 18.

A me pare evidente che il sistema contrattuale del 23 luglio non poteva prevedere che l’unico rapporto fosse quello con l’inflazione programmata, per la semplice ragione che era stata abolita la scala mobile, ed era un po’ forte sancire la riduzione del contratto nazionale a un ruolo semplicemente sostitutivo della scala mobile.

Se le cose stanno così, il confronto sul sistema delle regole sarà inevitabilmente destinato a sciogliere questo nodo. Per essere più precisi, a definire se il Contratto nazionale assumerà come riferimento, come vincolo, il rapporto con l’inflazione comunque definita o se ci sono altri criteri di riferimento che permettono all’autonoma valutazione delle organizzazioni sindacali di rivendicare incrementi reali delle retribuzioni, per tutta la categoria.

Non è un nodo eludibile nei rapporti con le altre organizzazioni sindacali, nel rapporto con la Confindustria.

Come sapete sono primo firmatario di una tesi alternativa, che ha ricevuto il 15% dei consensi, che afferma esplicitamente criteri di riferimento che qualificano in modo diverso il ruolo del Contratto nazionale.

Confermo di non avere capito esattamente se il confronto è su quali criteri assumere per gli incrementi retributivi, oppure sul fatto che c’è un unico criterio, quello dell’inflazione.

Se fosse così dobbiamo dirci con estrema chiarezza che non si tratta della manutenzione del 23 luglio, ma della manutenzione dell’interpretazione della Confindustria del 23 luglio che allora negammo con estrema decisione a partire dal segretario generale della Cgil.

Lascio a voi tutti un lavoro di fantasia, quello di proiettare nei prossimi 10-15 anni la realtà sociale che si verrebbe a determinare e quale ruolo verrebbe ad assumere il Ccnl. 

L’esito del Congresso della Cgil mi pare chiaro, perché ciò che vale è il voto espresso dagli iscritti, spero che il tutto avvenga nella massima chiarezza.

Per quanto mi riguarda non esiste la possibilità di una conclusione politica che non sia unitaria, per l’ovvia ragione che non ho presentato un documento globalmente alternativo e sono assolutamente rispettoso della democrazia, altra cosa è quella di una conclusione politica in grado di fare sintesi tra le tesi alternative.

Ciò che ha determinato delle tensioni, e in molti casi liste separate per l’elezione degli organismi dirigenti, non sono stati i documenti politici conclusivi ma riguarda la vita democratica, la gestione democratica del percorso congressuale.

Non è mia intenzione sollevare a questo punto obiezioni sui dati forniti sul numero dei votanti e sulle percentuali delle diverse tesi.

Il problema è di natura strutturale e inerisce il regolamento congressuale, le sue modalità di svolgimento.

Quando le modalità di voto possono durare per un lungo periodo di tempo si assegna inevitabilmente a noi, all’apparato burocratico, un ruolo preponderante nel condizionare lo svolgimento congressuale. È un problema che abbiamo tutti.

Per questo vi propongo, a conclusione dei nostri lavori, di votare una delibera da portare al Congresso nazionale della Cgil che affermi una norma regolamentare precisa per i futuri congressi.

Si definisca un tempo di 3 settimane per lo svolgimento delle assemblee e successivamente due/tre giornate dove tutti gli iscritti nei luoghi di lavoro e nel territorio possano esprimersi a voto segreto su documenti e delegati.

Le tensioni che si sono determinate in diverse situazioni, nel rapporto tra voto degli iscritti-delegati e presenza negli organismi dirigenti ha aperto una discussione che va affrontata in termini espliciti per evitare la deriva delle incomprensioni reciproche.

Non è il meccanismo nuovo delle tesi alternative, come espressione del pluralismo, che ha determinato questa situazione, né tanto meno la gestione politica dell’equilibrato rapporto che abbiamo convenuto, ma molto più semplicemente il corto circuito che si è determinato con l’esistenza del documento dei 12 segretari, perché anche questa è stata una assoluta novità.

Diciamoci la verità, questo è il problema che si è determinato ed evitiamo di avventurarci in ragionamenti complessi, con argomenti che ritengo inaccettabili.

Non ho dubbi che per la Cgil la democrazia non ha un significato diverso da quello acquisito storicamente nelle sue diverse fasi di evoluzione, altrimenti non si chiama democrazia.

Siamo passati dalla democrazia basata sugli stati generali, a quella basata sul censo, per approdare alla democrazia fondata sul criterio «una testa, un voto», non ne conosco altre.

Certo, in un’organizzazione ci sono sempre dei correttivi che ineriscono la presenza e il rapporto con le strutture e tutti si devono fare carico dei molteplici pluralismi esistenti.

Ma quando sento teorizzare il rovescio di questo ragionamento non saprei dire se si è consapevoli che si sta proponendo la Cgil come una federazione di categorie che in quanto tale sarebbe composta dalla rappresentanza di ogni singola categoria.

Questo sarebbe in assoluto contrasto con la natura della Cgil.

Penso esattamente l’opposto e auspico che il Congresso nazionale abbia una soluzione condivisa, che non significa rapporto automatico, ma sia rispettosa del voto espresso dagli iscritti.

Per quanto mi riguarda ho dichiarato in più occasioni che non intendo dare vita ad  alcuna area organizzata nella Cgil, per la semplice ragione che sono ostinatamente convinto che solo una organizzazione radicalmente democratica può avere un futuro, una organizzazione che discuta, che mai riduce burocraticamente le diverse posizioni esistenti e che quando decide impegna tutta l’organizzazione.

Questo pluralismo che tiene assieme le posizioni espresse nel dibattito e la pratica contrattuale di questi anni dei territori e delle categorie, come la Fiom, deve vivere negli organismi dirigenti a tutti i livelli, dai comitati direttivi alla segreteria confederale.

Dopo 7 anni abbiamo un’ipotesi di contratto nazionale unitario.

Un fatto di assoluta rilevanza che ci ha permesso nel corso di questa lunga trattativa di riprendere e sviluppare un confronto unitario, a volte anche difficile, ma alla fine proficuo per tutti, che ha determinato un vero avanzamento della posizione unitaria.

Penso al mercato del lavoro e alla flessibilità, penso alla definizione della proposta di un nuovo possibile istituto contrattuale per le retribuzioni più basse, con l’annualità di 130 euro.

Un elemento retributivo perequativo per le retribuzioni più basse che rafforza il valore solidaristico del Contratto nazionale e che proponiamo all’attenzione delle confederazioni.

Ci sono le condizioni per approfondire questo percorso, a partire dalla contrattazione aziendale, e riprendere il confronto che abbiamo sospeso, sulla definizione delle regole democratiche, dalla elezione su base proporzionale delle Rsu, alla Assemblea dei delegati, alla esigibilità del referendum.

Dopo il referendum decideremo assieme – Fiom, Fim e Uilm – un piano di lavoro comune, perché dobbiamo cogliere fino in fondo la nuova possibilità unitaria che si è aperta.

A fronte di un esito positivo del referendum riteniamo che debba far parte di questo piano di lavoro, la preparazione a partire dal mese di settembre del rinnovo del contratto nazionale, in modo tale da essere in grado di presentare unitariamente la piattaforma alla fine del mese di marzo 2007, rispettando rigorosamente i tempi previsti.

Compagne e compagni, avremo a breve una scadenza elettorale importante e la Fiom e la Cgil auspicano che ci sia un nuovo governo, auspicano la sconfitta di Berlusconi, espressione di un governo avversario dei lavoratori, delle lavoratrici e dei pensionati.

Temiamo che anche queste settimane saranno inquietanti perché è saltata qualsiasi norma che regola il rapporto tra le istituzioni del paese, di cui l’attacco alla Costituzione è parte integrante, così come la continua messa in discussione della laicità dello Stato, con i ripetuti attacchi alla Legge 194 e l’ostilità al riconoscimento dei Pacs.

Questo è un paese allo sbando, la situazione è persino pericolosa, si sono rotti gli argini delle garanzie democratiche e dobbiamo saperlo: una conferma di questo Governo sarebbe una vera sciagura per il paese e per i lavoratori.

Nello stesso tempo diciamo agli altri, da Mastella a Bertinotti, per passare da Rutelli a Fassino e arrivare a Prodi, che noi non abbiamo Governi amici.

Possiamo avere Governi avversari, ma non Governi amici.

Questo fa parte della nostra identità, di un soggetto sociale autonomo e indipendente che ha una sola fonte di legittimazione, quella dei lavoratori e delle lavoratrici che vogliamo rappresentare.

La democrazia come identità significa la pratica della non violenza, l’esercizio quando necessario del conflitto sociale come linfa vitale della democrazia.

Esiste un profondo disagio sociale, lo percepiamo in ogni momento, l’insicurezza sociale come dato permanente caratterizza oggi la condizione umana e in particolare quella delle nuove generazioni.

I processi in essere se non vengono interrotti sono destinati ad aumentare tutte le disuguaglianze sociali.

Riprogettare il paese a partire dal lavoro vuol dire invertire questo processo, ed è anche per questo che bisogna riaprire il capitolo dell’indagine sociale come strumento di conoscenza di partecipazione esplicitamente alternativo alla realtà sociale descritta dagli «esperti» del lavoro altrui.

Quante sciocchezze si dicono, come non vedere che si sta aprendo un’enorme questione sociale per certi aspetti esplosiva e difficilmente governabile per tutti, se non trova risposte, se non percepisce che c’è in campo una speranza di cambiamento.

Come Fiom, anche in funzione della contrattazione, promuoviamo una grande ricerca-inchiesta nazionale sulle condizioni di lavoro e retributive dei lavoratori e delle lavoratrici metalmeccaniche.

Una inchiesta nazionale con gruppi di approfondimento in alcune realtà per capire, per disvelare una condizione che viene continuamente offuscata e negata.

Sono gli stessi lavoratori, lavoratrici, giovani che in questi anni non si sono arresi e ci hanno permesso, con una intensificazione delle lotte e qualche rallentamento del traffico, di riconquistare dopo 7 anni un accordo nazionale unitario. Nessun giudizio trionfalistico, ma abbiamo riconquistato il Contratto nazionale.

Compagne e compagni, avevo pensato di dedicare questo contratto a un compagno, al segretario generale della Fiom scomparso qualche anno fa.

Ma poi ho riflettuto. Ho riflettuto sul fatto che ognuno deve prendersi le sue responsabilità ed è di cattivo gusto, è sbagliato, coprirsi con chi non c’è più e non può esprimere il suo parere.

Per questo, non il contratto ma il fatto che nei prossimi giorni i lavoratori e le lavoratrici metalmeccaniche esprimeranno unitariamente con il referendum il loro consenso o il loro rifiuto dell’ipotesi di accordo, questo sì, lo dedico a chi si è battuto fino alla fine per questa scelta, a chi ha avuto questa intuizione strategica.

Lo dedico a Claudio Sabattini.

 

Montesilvano, 7 febbraio 2006