XXIII Congresso Nazionale Fiom

Conclusioni di Gianni Rinaldini

 

Compagni e compagne, siamo arrivati alla conclusione di questo Congresso e credo che lo svolgimento del dibattito di queste tre giornate e i documenti che voteremo ci stiano a indicare e a confermare che abbiamo compiuto un’operazione veritiera e trasparente della nostra discussione, della necessità di assumere delle decisioni e compiere delle scelte come Fiom in una fase assolutamente pesante e drammatica che può ulteriormente peggiorare nei prossimi mesi sia sul versante occupazionale che su quello legislativo.

Siamo partiti tutti da un elemento di valutazione comune. In questi anni difficili, complicati, abbiamo fatto i conti con un tentativo esplicito di ridefinire l’assetto sociale del nostro paese e, contemporaneamente, di ridefinire l’assetto delle relazioni sindacali riducendo il lavoro a un puro elemento funzionale alle esigenze delle imprese, al profitto. Hanno tentato in questo modo di far fuori – come ho già avuto modo di dire – non soltanto la Fiom, la nostra organizzazione, ma, attraverso di essa, hanno tentato di far fuori i metalmeccanici e cioè l’espressione della soggettività autonoma del lavoro dentro un’idea precisa che è nazionale e, nello stesso tempo, internazionale. L’idea è quella secondo la quale il lavoro è assunto come uno degli strumenti «usa e getta», a seconda di quelle che sono le esigenze del mercato su scala planetaria: la cosiddetta competizione globale.

Lo sconvolgimento sociale in atto è profondo, perché non è riconducibile a qualche legge sbagliata: l’operazione in atto, che hanno perseguito e che stanno perseguendo in Italia e non solo nel nostro paese, è la ridefinizione di un assetto generale della società dove scompare lo stesso ruolo e funzione, così come lo abbiamo tradizionalmente conosciuto, delle organizzazioni sindacali, del soggetto sindacale.

Tutto ciò è scritto nel piano di legislatura sul lavoro che sono le circa 200 pagine del Libro bianco, dove si spiega anche quella che sarebbe stata la funzione del sindacato del futuro, nel senso che dentro quel progetto legislativo c’è già descritta la logica dell’accordo con chi ci sta, riducendo il sindacato a puro strumento di servizio rispetto a quel processo sociale attraverso la struttura degli nti bilaterali.

Di quelle 200 pagine – è bene che ce lo diciamo – tutto ciò che era previsto sul lavoro è stato fatto: l’unica parte che manca è l’ultimo capitolo, le ultime due pagine dove si propone il superamento del contratto nazionale.

Tutto il piano generale di ridefinizione dell’insieme dei rapporti di lavoro subordinato è stato attuato legislativamente dal governo, cambiando, in questo modo, la natura del rapporto tra la legislazione e la contrattazione, perché la contrattazione diventa puramente applicativa di quello che viene deciso dal versante istituzionale.

Proviamo a pensare al lavoro a chiamata. Noi avevamo già conosciuto la vicenda del lavoro a chiamata, era in un accordo sindacale, quello della Zanussi, un accordo separato; allora era ancora possibile fare il referendum unitariamente e quell’accordo fu bocciato dal 70% dei lavoratori. Adesso, però, il rapporto di lavoro a chiamata lo ritroviamo per legge, non più per via contrattuale. Quel voto ha indicato che per via contrattuale quella strada non era percorribile ed è stata scelta l’imposizione legislativa.

Noi siamo dentro un quadro – i cui effetti li conosceremo nei prossimi mesi e anni – in cui in questo paese è possibile che un padrone sia proprietario degli immobili e dei macchinari e che tutti i dipendenti siano assunti da un’agenzia in affitto a tempo indeterminato. Così come, per quanto riguarda la condizione dei lavoratori stranieri, la logica del lavoro come merce è portata nella sua espressione massima. Quando al lavoratore straniero scade il rapporto di lavoro a tempo determinato e non ha immediatamente un altro lavoro, diventa un clandestino e la logica è che io compro la tua forza lavoro, compro le tue braccia finché mi servono: nel momento in cui non mi servono, tu sei un clandestino e devi tornare da dove sei venuto.

Questa è la logica della legge Bossi-Fini. Voi immaginate quel lavoratore quale potere contrattuale può avere quando nel suo rapporto di lavoro c’è la sua condizione di vita generale compreso il possibile passaggio alla clandestinità!

È dentro questo quadro, proprio per non farci illusioni, che oggi possiamo guardare, pure in una situazione così devastata sul piano del lavoro e sul piano del sistema delle imprese, con un elemento che due anni fa non avevamo: siamo riusciti, pur tra mille difficoltà, a reggere uno scontro di queste dimensioni e, nello stesso tempo, abbiamo verificato negli ultimi mesi una crescita delle iniziative di lotta, della partecipazione e dell’espressione di una nuova soggettività che più volte qui è stata richiamata a partire dai giovani.

Non si tratta soltanto di Melfi e Fincantieri, c’è una molteplicità di esperienze che sono state fatte: quella di Terni e prima ancora quella di Termini Imerese.

Io ricordo quando con i 1.500 lavoratori di Termini Imerese andammo a Melfi per 4 giorni, ricordo i pullman che allora erano pieni di lavoratori, non erano vuoti, e avevamo il problema di come evitare uno scontro tra una parte dei lavoratori di Melfi e i lavoratori di Termini Imerese con cui per 4 giorni e per 4 notti bloccammo lo stabilimento.

Quegli stessi giovani, molti dei quali allora non capirono il significato di quella iniziativa di lotta, del perché si era scelto di andare a produrre quel tipo di iniziativa con i lavoratori di Termini Imerese che per 2 o 3 mesi avevano tenuto in piedi la battaglia che conosciamo, acquisendo i risultati noti, sono gli stessi che due mesi fa hanno dato vita a una iniziativa di lotta così radicale, anche nei suoi aspetti gestionali, determinando un vero e proprio – l’ho definito così – moto di rivolta rispetto alle condizioni lavorative e rispetto all’arbitrio, in quel caso, della Fiat.

Non pensiamo che l’organizzazione sia sempre in grado di definire dall’inizio alla fine come si fanno le lotte, come si fanno i percorsi di mobilitazione ecc., perché forme di lotta così radicali come sono state fatte e attuate si fanno non perché le decide o le propone la Fiom: quando le forme di lotta sono così radicali e pesanti lo decidono i lavoratori con la loro unità, altrimenti quelle lotte non funzionano, non stanno in piedi.

Quando andammo a Termini Imerese, mi chiamò Claudio Sabattini perché c’era un’assemblea e mi disse che, probabilmente, si sarebbe proceduto all’occupazione dello stabilimento. Eravamo al secondo mese di lotta e in quell’assemblea, fatta come sempre intorno alle 5, 6 del pomeriggio con migliaia di lavoratori davanti allo stabilimento, appena capimmo che il passaggio all’occupazione avrebbe diviso i lavoratori, che non era una scelta che li avrebbe tenuti uniti, ci mettemmo un attimo a decidere che si continuava tutti insieme con l’assemblea permanente e il presidio davanti ai cancelli e non con ulteriori iniziative che sono possibili non perché lo decide un’organizzazione, ma solo quando si determina una volontà unitaria e un’espressione di soggettività collettiva.

Io ritengo che sia questo l’elemento nuovo che abbiamo di fronte, il fatto che nel Mezzogiorno in diversi stabilimenti, in diverse realtà, ci sono giovani con un’età media di 23-24 anni; ieri abbiamo avuto il collegamento con i compagni e gli amici di Cosenza, quei 220 lavoratori che presidiano lo stabilimento Polti e sono alla loro prima esperienza di lotta, anche lì in un momento di esplosione collettiva, dove, badate bene, non c’era neanche l’Rsu, era appena stata eletta ed era stato licenziato il delegato e altri due iscritti alla nostra organizzazione.

La reazione, di tutti i lavoratori di fronte a questo ulteriore atto – mentre 10 giorni fa lo sciopero era molto complicato da costruire – è stata la ribellione collettiva, l’affermazione della dignità. Sono andati davanti ai cancelli tutti e 200 e, giorno e notte, da una settimana – ormai siamo a 8-9 giorni – presidiano lo stabilimento con la solidarietà generale.

La questione vera è che le scelte che abbiamo compiuto nel corso di questi anni hanno respinto un tipo di offensiva che aveva gli obiettivi che prima richiamavo ma che, soprattutto, è stata in grado di incrociare con una nuova situazione sociale che si sta determinando e per una ragione molto semplice: le condizioni lavorative e le condizioni retributive in questo paese sono peggiorate, in primo luogo per quanto riguarda la situazione delle giovani generazioni. Questo è l’elemento che è esploso.

Quando si dice «Tmc 2» – lo dico a tutti quelli che parlano di lavoro senza sapere di cosa parlano –si parla di quell’organizzazione del lavoro, quella metrica del lavoro che si sta diffondendo non solo nell’auto, ma in tantissimi stabilimenti e che aumenta i ritmi di lavoro del 16-17% rendendo le condizioni di lavoro assolutamente non tollerabili.

Dobbiamo comprendere che non è stato solo per l’iniziativa di un’organizzazione che si è determinata questa situazione di conflittualità ma per l’analisi che abbiamo prodotto su quello che, concretamente, stava succedendo negli stabilimenti e la capacità, in questo modo, di incrociare con le aspettative e le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici.

Questo non è scindibile dalla politica industriale. Io non riesco a concepire per un sindacato il ragionare sulla politica industriale senza ragionare sulle politiche del lavoro e della politiche per quanto riguarda la ridistribuzione del reddito.

Come fa un sindacato a discutere di politiche industriali se, contemporaneamente, non discute delle condizioni concrete di lavoro di chi rappresenta? Non sono elementi tra loro scindibili, non esiste l’idea per cui «prima discutiamo della politica industriale e poi del lavoro e della politica ridistributiva», perché quello che è successo nel corso di questi anni è un insieme di operazioni che, messe assieme, compongono la politica industriale fondata sulla destrutturazione del lavoro, fondata sulle basse retribuzioni, corrispondente a una politica industriale che non è finalizzata all’innovazione, alla ricerca e alla qualità, ma è finalizzata a una competizione giocata essenzialmente sui costi. Se le cose stanno così, è evidente che le scelte che stiamo compiendo devono intervenire su tutti e tre gli aspetti.

Non voglio qui riprendere e ripetere le cose che ho già avuto modo di dire nella relazione. Dico semplicemente, per non ribadire concetti che tutti hanno richiamato, che sulla politica industriale si pone un problema anche di ridefinizione dell’intervento pubblico.

Il sistema industriale in questo paese ormai è messo in modo tale che l’Alitalia non è n grado di fare nessuna alleanza internazionale, può essere soltanto acquisita. Per quanto riguarda la Fiat, per come è messa oggi, se uno mi dice: «La Fiat fa l’alleanza con la Volkswagen», racconta una balla, perché per fare un’alleanza ci vogliono due soggetti in grado di parlare di alleanza. Altrimenti si tratta di acquisizione.

Il problema che abbiamo di fronte è come ricostruire le condizioni a partire dai settori strategici anche per ragionare delle alleanze internazionali che permettono al settore industriale del nostro paese di non essere ridotto a un’area produttiva di subfornitura.

In questo, rispetto a Montezemolo – in questo caso nella sua versione di presidente della Fiat – il problema è molto semplice: se le cose rimangono ferme, con la scadenza del 2005, se le banche convertono il prestito nei confronti della Fiat in azioni, le banche prendono il 28% della Fiat e la proprietà, nel senso della famiglia, passa al 20%.

Se il percorso è quello per cui il sistema creditizio prende in mano il più grande gruppo industriale del nostro paese, mi pare persino banale pensare a cosa succederà.

Per questo Mirafiori, con 16 mila dipendenti, dentro un quadro di questo genere va alla chiusura, perché con 800 auto prodotte al giorno e 16 mila dipendenti uno stabilimento non esiste, e l’iniziativa prevista per i prossimi giorni, per giovedì prossimo (e a sostegno oggi è uscito un importante appello di 200 intellettuali) a Mirafiori assume un valore nazionale. Montezemolo è in grado di fare un’altra proposta? Se lui ci dice: «Io sono in grado di formularvi un’altra proposta che non è quella che va in mano alle banche, che non è neanche quella che pensa all’intervento pubblico, ma vi faccio una proposta che rende credibile lo sviluppo del settore», allora ne discutiamo. Se, però, la proposta dovesse essere il polo di lusso delle auto, tra Ferrari, Maserati e Alfa, non è certamente una proposta migliore di quella di Morchio, e se così fosse, non saremmo di fronte a una proposta che dia credibilità di rilancio del settore dell’auto nel nostro paese.

Ho citato la Fiat, ma potrei citare altre situazioni per dire, in sostanza, che non dobbiamo avere paura – dopo la follia per come sono state gestite le privatizzazioni in questo paese – di riaprire anche un ragionamento sull’intervento pubblico tanto più in una fase transitoria come quella che stiamo attraversando. In questo c’è il rapporto con la contrattazione, le scelte contrattuali che qui sono state richiamate e ribadite.

Io dico una sola cosa: per le cose dette in precedenza è evidente che gli atti legislativi compiuti ci pongono un problema immediato. Noi nel contratto nazionale abbiamo rifiutato una dicitura che affermava, esattamente, che ci sono tante Commissioni che si devono riunire per l’applicazione delle misure legislative della Legge 30. Noi abbiamo detto «no», la Cgil ha detto «no».

Cosa succede negli stabilimenti? Quale è, coerentemente, la nostra posizione? Abbiamo detto, certo, di chiedere alle forze politiche un impegno che è quello dell’abrogazione delle leggi che sono state fatte sul lavoro e che peggiorano le condizioni lavorative, ma un sindacato non se la cava in questo modo, perché se continuiamo a dire e fare solo la petizione rispetto alle forze politiche, poi, contrattualmente, passa tutto e quella diventa soltanto una petizione che, a quel punto, non ha più alcun valore, perché si è determinata, di fatto, una situazione all’interno degli stabilimenti.

La nostra, allora, non può che essere un’iniziativa contrattuale che tenga fermo il punto che non è quello della riduzione del danno ma che, coerentemente, compia delle scelte e dica dove è possibile intervenire per contrattare e dove diciamo dei «no». Il lavoro a chiamata, il lavoro in affitto a tempo indeterminato non possiamo recepirlo, per quanto riguarda la Fiom, in nessun accordo aziendale: non possiamo recepire negli accordi aziendali quello che abbiamo rifiutato ad altri livelli.

Così come dobbiamo praticare l’obiettivo della trasformazione entro tempi definiti a tempo indeterminato.

L’ho detto e lo ribadisco: non voglio fare riferimento a contratti di altre categorie, però credo che sia necessario fare una verifica complessiva come Cgil su quello che succede.

Ho letto, personalmente, delle formulazioni che, per quello che abbiamo detto non come Fiom, ma come Cgil, non sono accettabili, non riguardano l’autonomia di ogni singola categoria, riguardano un orientamento di carattere generale, perché non è un problema di autonomia se in qualche contratto trovo una formulazione che dice che si recepisce il lavoro a chiamata, oppure se si arriva a sottoscrivere delle formulazioni dove sulla Legge 30 si va persino alla differenziazione dell’applicazione della Legge 30 tra i lavoratori del Nord e quelli del Sud mentre diciamo che le gabbie salariali non le vogliamo! C’è un problema per tutti.

In questo non è esente la nostra categoria, non si tratta di dare delle lezioni ad altri, perché è una discussione che ci coinvolge direttamente anche nella nostra pratica contrattuale. Chiediamo che questa discussione venga fatta rapidamente, che abbia questa natura e questo significato, per dare coerenza alle scelte che abbiamo compiuto e praticato nel corso di questi anni.

Mi si permetta una battuta sulla politica dei redditi e sulla concertazione: ho letto i commenti dei giornali, Montezemolo ha parlato di estremismi, non ho capito se si riferiva al governo o a noi, ma lasciamo stare. Sta di fatto, però, che una serie di commenti della stampa partono da questo presupposto che ha coinvolto anche il giudizio sulle cose dette da Epifani ieri: «Essendo la Fiom per aumenti retributivi reali nei contratti nazionali vuol dire che la Fiom è contro la politica dei redditi e la concertazione», così molta stampa ha descritto la posizione della Fiom.

Io la dico così: è chiaro, allora, che quando questi osservatori parlano di politica dei redditi e di concertazione, parlano, come dice Fazio, di un’operazione fondata sulla moderazione salariale. È vero, quel tipo di politica dei redditi, quel tipo di concertazione, per quanto ci riguarda, non ci interessa. Non ci interessa, perché, come sospettavamo, è meglio essere chiari ed espliciti e oggi un ragionamento di rilancio di politica industriale e del lavoro deve contemplare, nello stesso tempo, un ragionamento che è quello di invertire la tendenza di questi anni sulla redistribuzione del reddito.

Detto in altri termini: in questi anni c’è stato lo spostamento di reddito dal lavoro a rendite e profitti, invertire significa che da profitti e rendite si passa alle retribuzioni. Questo è il punto. Dopo di che, è ovvio che questo non lo fai soltanto attraverso la politica contrattuale, l’ho già detto, ma è sempre stato così nella storia del Movimento sindacale: chi ha mai pensato che il problema della retribuzione e del potere d’acquisto lo risolvi solo dentro un ambito contrattuale? Per non fare, però, le finzioni, c’è anche un ambito contrattuale e l’ambito contrattuale, insisto, è un aumento retributivo reale che sta dentro il ruolo e la funzione del contratto.

Per questo abbiamo scelto – non a caso, per non creare confusione – di dire che noi siamo per una nuova politica di redistribuzione del reddito, è proprio per sancire la nostra idea diversa di questo processo rispetto a ipotesi di altra natura e che hanno un altro significato.

Compagni e compagne, non c’è dubbio che la situazione di fallimento determinata dalle scelte compiute dal governo e dalla Confindustria ha anche aperto nei rapporti con le altre organizzazioni la dinamica di qualche segnale diverso a partire dalla scelta della democrazia e del voto dei lavoratori. È una scelta assolutamente radicale di identità, al punto tale che noi proporremo di assumerla anche come vincolo nella vita della nostra organizzazione.

Non vorrei che questo elemento fosse sottovalutato, perché in questo modo noi introduciamo un elemento di rottura anche nella storia del Movimento operaio. Non è vero che nella tradizione del Movimento operaio fosse normale il voto segreto dei lavoratori e delle lavoratrici sulle piattaforme e sugli accordi. Io ricordo quando, in altri periodi storici, negli anni Settanta, mi opponevo a chi proponeva lo strumento del referendum: erano le assemblee che lottavano quelle che decidevano e non i referendum.

Nella tradizione del Movimento operaio l’elemento della democrazia e dell’assunzione radicale della democrazia come vincolo per l’agire dell’organizzazione è un elemento di novità ed è un elemento che anche noi abbiamo contribuito a introdurre nella vita sociale, politica e sindacale di questo paese e per noi è l’elemento di scelta di qualsiasi ragionamento e ipotesi che ci possa anche portare a definire regole democratiche complessive con le altre organizzazioni. Da questo punto di vista abbiamo avuto da parte della Fim e della Uilm delle risposte interlocutorie.

Apro una parentesi per essere chiari ed espliciti tra di noi: è evidente che questo è un percorso difficile e complicato, ci sono state in questi anni – e anche attualmente – delle differenze molto profonde e anche situazioni di tensione non irrilevanti, però, come dicevano altri compagni e lo stesso Giorgio Cremaschi nel suo intervento, sappiamo benissimo che la pratica degli accordi separati e della divisione è possibile solo perché le controparti decidono di farlo; uno può firmare quello che vuole, ma se non è la controparte che lo assume e lo legittima su tutte le aziende, non valgono assolutamente niente. In secondo luogo, la Fiom ha subìto l’elemento della divisione rispetto alle altre organizzazioni, ma per la Fiom l’unità e la democrazia sono due aspetti fondanti e identitari anche nei momenti di polemica e nei momenti di divisione più profonda.

Io sono rimasto all’affermazione di Di Vittorio alla fine degli anni Quaranta, quando, di fronte alla scissione della Cgil, in periodi in cui la divisione era profondissima ed è andata avanti per tantissimi anni, disse: «Da domani proviamo a lavorare per l’unità». Io ho sempre presente questa dichiarazione – in anni in cui le divisioni erano anche più profonde di quelle attuali – come elemento identitario dell’organizzazione, ma unità e democrazia non sono scindibili.

Qui nessuno lo ha detto e non è presente nelle due mozioni, ma qua e là ho sentito anche ragionamenti un po’ strani, perché se l’unità fosse considerata elemento a prescindere dalla democrazia e, come dire, un valore assoluto indipendentemente dagli altri fattori, si deve dire chiaramente che avremmo dovuto firmare l’accordo due anni fa e anche quattro anni fa, se considerassimo così l’unità con le altre organizzazioni sindacali.

Sono due elementi tra loro non scindibili. Noi abbiamo formulato una proposta che voglio riassumere così, perché sento dire «referendum di mandato», ma non facciamo confusione tra di noi: quando, quattro anni fa, ci fu l’accordo separato sul biennio esso avvenne a partire dal fatto che la Fiom chiese un referendum di mandato visto che Fim e Uilm si apprestavano a sottoscrivere l’accordo delle 18 mila lire e il referendum di mandato fu rifiutato. Non era quello abrogativo.

Quello che è successo a Melfi, quello che è successo a Fincantieri è il referendum sull’ipotesi conclusiva.

Se la Fim e la Uilm dicono che quello che hanno affermato al tavolo con la Fiat la domenica mattina alle 7, quando la Fiat ci ha letto l’ultimo testo che era quello dell’accordo e, improvvisamente, la Fim ha fatto una dichiarazione: «Noi non firmiamo, perché prima ci deve essere il referendum dei lavoratori e firmiamo dopo il referendum», se è così, noi rapidamente costruiamo unitariamente un’ipotesi di regole democratiche.

Dato che è stato detto in seduta plenaria e conclusiva di una trattativa non con una piccola azienda, ma con un’azienda che si chiama Fiat e, poi, successivamente alla Fincantieri lo stesso percorso è stato praticato unitariamente, questo e non altro è il senso del tipo di proposta che noi abbiamo formulato: andare a una Rsu eletta proporzionalmente superando il Patto di solidarietà di un terzo e definendo rispetto a questo le regole per quanto riguarda la contrattazione aziendale e il contratto nazionale accogliendo – perché questa è la verità – la proposta che la Fim aveva formulato di un’assemblea nazionale dei delegati tutta eletta proporzionalmente, senza Patti di solidarietà o spartizioni tra le organizzazioni, che abbia il compito di seguire l’andamento della trattativa, che esprima un giudizio sull’ipotesi conclusiva che si può delineare, ma che a quel punto, prima di firmare, si va al referendum consultivo, vincolante di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici.

Io ho sentito qui delle risposte, alcune più confuse, alcune meno, ho sentito anche dichiarazioni interessanti per cui non c’è più il 23 luglio – detto anche dalle altre organizzazioni –, credo che abbiano inciso le lotte e gli avvenimenti di questi mesi e di queste settimane.

Su questo si è aperta un’interlocuzione positiva: noi non abbiamo voluto la divisione, non è vero che abbiamo fatto le piattaforme separate «a prescindere da». Quando c’è stato il rinnovo del biennio economico la piattaforma era unitaria e, allora, abbiamo detto: «Questa volta non possiamo ripetere la storia di due anni fa per cui facciamo la piattaforma unitaria, facciamo le mediazioni, poi, a un certo punto della trattativa, qualcuno firma senza consultare i lavoratori» e, allora, dicemmo: «Abbiamo delle differenze profonde (era in arrivo la Legge 30), mettiamoci d’accordo sulle regole, sul voto dei lavoratori. Se definiamo delle procedure democratiche, a quel punto tentiamo di costruire una piattaforma unitaria». Non è stato possibile ragionare sulla piattaforma unitaria, perché ci hanno detto di «no» al voto dei lavoratori e delle lavoratrici sull’eventuale accordo. Questo è quello che è successo.

Se oggi siamo in grado di ripartire da lì, credo veramente che si possa aprire un percorso diverso da esplorare fino in fondo e non c’è dubbio che questa nostra proposta sia una proposta che rivolgiamo anche alle Confederazioni.

Io non richiamo, anche qui, nessuna categoria, però ho la strana sensazione che non sia molto estesa questa pratica di votare. Credo che, invece, la questione della democrazia – assieme all’indipendenza, ma per stare alla questione della democrazia – sia uno degli elementi decisivi e costitutivi del sindacato del futuro, del sindacato che sia in grado anche di interloquire e parlare i giovani, i ragazzi e le ragazze che non sono quelli della nostra generazione.

Sono rimasto sorpreso, quando a Melfi con la Polizia che stava per partire, improvvisamente, quei giovani lavoratori oltre a «Bella ciao» hanno attaccato «Fratelli d’Italia»: io ero abituato ad altre canzoni, tanto più in momenti di lotta. Quei giovani, invece, passavano da «Bella ciao» a «Fratelli d’Italia» con un approccio diverso rispetto a noi.

Rispetto a questo nuovo protagonismo e presenza dei giovani l’elemento della democrazia è decisivo, perché non c’è nessuno che capisca per quale ragione tu possa fare un accordo senza chiedergli se lui è d’accordo o meno. Lo considera, giustamente, un sopruso, una negazione della democrazia.

Vado a due considerazioni. La prima: tutto il nostro ragionare e tutto il nostro operare – le scelte che abbiamo compiuto come Fiom – stanno dentro uno scenario internazionale che qui abbiamo ribadito con il contributo dell’intervento di Gino Strada. Io non ho nulla da aggiungere alle cose dette da Gino, perché la guerra è strumento permanente, ormai, del processo attuale di globalizzazione, così come la crisi di tutti gli organismi internazionali è così evidente: anche l’altro giorno sui giornali era riportato il fatto che gli Stati Uniti rifiutano la Corte penale internazionale.

Voi sapete che adesso c’è un processo a Milosevic, però non tutti sanno che gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto quel tribunale, perché i soldati degli Stati Uniti – come loro dicono – li possono giudicare solo loro, quindi la Corte penale internazionale non può giudicare l’operato e l’agire degli Stati Uniti. Fanno, come dire, quello che gli pare – se possiamo usare questo termine – rispetto a quelli che sono i vincoli e i trattati internazionali.

Credo che nell’era attuale dobbiamo dichiarare esplicitamente che la guerra è un tabù, che non è possibile accettare una situazione nel mondo che, assieme alle disuguaglianze sociali, vede crescere tutti gli strumenti di guerra, di barbarie. Un mondo che vede, contemporaneamente, gente che muore perché non riesce a soddisfare le necessità più immediate e più materiali della loro condizione e nel frattempo l’unico settore che «tira» e che fa soldi in tutti i paesi è quello militare.

Su questo la nostra scelta, che riconfermiamo, fin dall’inizio è stata netta e precisa. Riconfermiamo il nostro interesse anche rispetto all’iniziativa intrapresa da «Emergency» e non solo, per quanto riguarda l’applicazione di che cosa significa l’articolo 11 della Costituzione nel nostro paese.

A Gino lo dico così: proprio per le relazioni che abbiamo costruito nel corso di questi anni, per i rapporti che ci legano profondamente, oltre alla tessera onoraria che abbiamo dato al compagno Pietro Ingrao – che non è presente ai nostri lavori, perché sapete che non è un giovanotto e gli rivolgiamo un affettuoso saluto – abbiamo deciso di dare la tessera onoraria anche a Gino Strada per ciò che rappresenta nella nostra attività per la pace.

Vorrei fare, contemporaneamente, a Gino e a tutti noi un augurio e un auspicio che evidenzi anche con gli atti che cosa significa compiere delle scelte che siano legate alla non violenza e ne approfitto per dire che ieri l’atteggiamento delle forze di Polizia a Roma – da quello che mi hanno detto i compagni – al di là delle cifre ridicole che hanno dato sulla manifestazione, ha contribuito a evitare situazioni di incidenti; poi, chiaramente, dato che non ci sono stati gli incidenti, i giornali devono ingigantire altre cose, gli slogan, ecc., ma, certamente, non appartiene alla Fiom, alla nostra tradizione, ai nostri valori e anche alla nostra morale che si possa dire: «Una, dieci, cento Nassiriya» in manifestazioni per la pace e contro la guerra.

L’augurio a Gino è questo: sappiamo che sta tentando di contribuire a portare a casa i tre ostaggi – con molta discrezione e il fatto che sia uscito anche sulla stampa, pubblicamente ecc., non ha aiutato le operazioni in corso – e l’augurio, che non facciamo tanto a Gino Strada, ma lo facciamo a tutti noi, è che sia possibile che i tre ostaggi possano essere in questo modo salvati e riportati in Italia, perché «Emergency» e Gino Strada hanno l’autorità politica e morale del Movimento per la pace per poter chiedere la restituzione dei tre ostaggi.

Abbiamo, infine, compagni e compagne, la Fiom. Noi usciamo da questo Congresso (lo abbiamo sentito tutti), contemporaneamente, con le due mozioni e un documento che, alla fine, dovrebbe essere unitario, su questioni rilevanti e importanti.

Nello stesso tempo, l’intervento di Giorgio Cremaschi, che si riferisce alla mozione che ho presentato, che abbiamo presentato con diversi compagni, e l’intervento del compagno Nencini, che ha presentato un’altra mozione, hanno qui annunciato che noi usciamo da questo Congresso senza nessuna area organizzata.

Ritengo questo un fatto di straordinaria importanza della nostra vita interna che tiene assieme la democrazia, il confronto, anche vivace, tra posizioni diverse, ma anche tra sensibilità diverse che non si riassumono soltanto dentro le mozioni, con un’organizzazione che decide, continua la sua discussione che, in quanto discussione democratica, non è una discussione preconfezionata prima e preceduta da riunioni organizzate di aree che, alla fine, corrono il rischio di limitare la discussione interna dove ognuno parla assumendosi, personalmente, le responsabilità di quello che dice.

Questo, però, aumenta la responsabilità di noi tutti, perché è chiaro che questo è possibile, che una pratica di questa natura è possibile, perché tutti assumiamo, a partire dal segretario generale, il fatto che deve essere garantito il pluralismo interno nelle sue diverse espressioni, sensibilità e pluralismi che ci sono nella nostra organizzazione, perché questi elementi vanno vissuti come elemento di rafforzamento e non come elemento di indebolimento dell’organizzazione, a partire dal fatto, però, che tutti – e qui lo dico francamente, le cose non sono sempre così semplici – dobbiamo favorire un processo di rinnovamento dei gruppi dirigenti a partire dai massimi livelli.

Noi non possiamo continuare sempre a parlare del nuovo protagonismo, dei giovani, delle forze che emergono, lo diciamo tutti, e poi, quando si parla di noi stessi, uno spiega sempre che si riferisce a quello di fianco e che non lo riguarda mai direttamente.

Le burocrazie sono sempre così, le burocrazie – di cui faccio parte – si auto-difendono sempre: quando parlano di rinnovamento pensano sempre che il rinnovamento debba toccare altri. Il problema è di come tenere assieme, uscendo da questo Congresso, un’organizzazione che funziona ed esprime livelli di democrazia, sia interna che nel rapporto con i lavoratori, come elemento identitario del proprio agire e che, nello stesso tempo, considera i diversi pluralismi un elemento di forza e non di indebolimento, altrimenti non funzionerebbe come organizzazione democratica e si ripristinerebbero situazioni che vogliamo superare assieme: deve essere in grado di coniugare questo con la ferma volontà di andare a forme di rinnovamento della nostra organizzazione che permettano alle soggettività di cui tanto parliamo di esprimersi realmente anche nei ruoli di direzione.

Livorno, 5 giugno 2004