CONTESTO GENERALE
In questa sezione viene tracciato un breve quadro politico, sociale ed economico che emerge dalla lettura dei giornali, in cui si sottolineano le tematiche che si intrecciano all’azione sindacale e alle battaglie per i rinnovi contrattuali.
IL QUADRO POLITICO
La debolezza del governo Rumor
L’Autunno caldo vede in carica un governo monocolore Dc. E’ un governo di transizione nato dopo la frantumazione del centro sinistra e la crisi di governo del luglio 1969 che porta la nascita del governo Rumor. La crisi del centrosinistra ha, fra le sue ragioni, le feroci lotte interne nei due grandi partiti che lo compongono, il Psi e la Dc. Le conseguenze che ne seguiranno saranno la scissione del Psi (da cui nascerà prima il Psu e poi il Psdi) e lo scioglimento della corrente Dc che sostiene la segreteria Piccoli, il quale si dimetterà e Forlani verrà eletto il 22/10/69 Segretario della Dc dopo aspre lotte interne.
I giornali conservatori sottolineano questi fattori di instabilità politica, di frazionamento dei partiti e di inadeguatezza del governo Rumor a fronteggiare i gravi problemi del paese, quali concause dei fermenti dell’Autunno caldo. Inoltre sottolineano il fatto che le tanto proclamate riforme promesse dal centrosinistra, disattese dalla caduta dello stesso e dai continui litigi fra i partiti di maggioranza, hanno provocato delusione e rabbia nella sinistra e nel sindacato che aveva sperato in queste riforme per migliorare la condizione dei lavoratori.
Su questo è illuminante un editoriale apparso sul Corriere della Sera il 19/10/69 in cui si legge: «Ci sono stati gravi errori nel passato: le rappresentanze sindacali sono state troppo depresse e umiliate all’interno della fabbrica, ci si è illusi di svuotare la forza dei sindacati ma si è prestato il fianco all’infiltrazioni estremiste. La mancanza di una qualsiasi legge sindacale ha fatto il resto insieme alle inadempienze della classe politica. La frantumazione del centrosinistra e il vuoto di potere che ne è conseguito ha agevolato i fermenti di estremismo e ha reso più difficile l’azione del sindacato. Ora occorre uno Stato autorevole e non sarà di nessun aiuto sapere il nome del vincitore nella spietata lotta per il potere interno che continua a dilaniare la Dc». (di lì a breve, sarà eletto Forlani).
Anche a causa di queste lacune e inadeguatezze dell’esecutivo e delle crisi interne ai partiti, l’Autunno caldo si trasforma da avvenimento contrattuale in un fatto che investe tutta la politica e la vita sociale del paese. Ruggero Ravenna, dirigente della Uil, avanza l’ipotesi di una forma di «democrazia atipica» in cui il sindacato si presenta a reclamare la sua parte di potere accanto al parlamento e ai partiti. Da un comunicato di Fiom, Fim e Uilm si legge: «Le rivendicazioni non sono state misurate alle possibilità del sistema ma alle condizioni, alle esigenze, al rapporto di forza della categoria: ciò che occorre è modificare profondamente i rapporti di reddito e di potere della società italiana». Vittorio Foa spiega in un articolo sul Manifesto (nel 1969 era settimanale). «L’avversario da combattere è il sistema e del sistema fanno parte non soltanto i conti della nazione, ma anche il sindacalismo organizzato: lo scopo della lotta non può essere altro che quello di far saltare tutti i parametri del congegno economico».
Mentre nella stampa di ispirazione vicina alle istanze industriali si sottolinea che il potere sindacale di fabbrica non è un’appendice del contratto, bensì l’essenza stessa di un sindacalismo che mira a uno sbocco politico. Questo timore viene espresso in vari editoriali della stampa conservatrice la quale, quando ormai appare chiaro che il sindacato si appresta ad ottenere uno dei più grandi successi nella storia contrattuale, paventano un partito sindacato o un sindacato che si fa Stato, reso evidente, secondo questa stampa, dall’allargamento delle lotte su tematiche non solo di rivendicazione ma di riforme sociali e reso ancora più forte sia dalla frantumazione dei partiti che dall’inerzia del governo.
In un editoriale sul Corriere della Sera del 4 dicembre si legge: «Le nuove forme di lotta sindacali pongono problemi sulla sopravvivenza stessa delle libere istituzioni, quelle forme di lotta che mirano a conquistare maggiore gamma di potere operaio su tematiche quali quelle della casa, occupazione, collocamento, addestramento professionale e gestione previdenziale. Sono rivendicazioni abbastanza nuove per il sindacato e ne abbiamo avuto esempio con lo sciopero generale del 19 novembre. Il fenomeno ha coinciso con un momento di debolezza organica dello Stato, di sfaldamento delle maggioranze parlamentari, di crisi frazionistica dei partiti democratici. A tutto questo si è frapposto un fenomeno di spinta nell’azione dei sindacati, che danno l’impressione di raccogliere una maggiore capacità di pressione sullo Stato e sui poteri pubblici. E’ da attendersi che i sindacati continueranno per questa strada che potremmo definire della extra-contrattualità. Bisognerà chiedersi a cosa servono i partiti se padrone dello Stato diventa, attraverso l’unità sindacale, un solo partito, quello della classe operaia. A cosa servirà il Parlamento se le leggi si contratteranno tra organi statali e sindacati con scioperi e agitazioni di piazza».
Il ruolo del ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin
I motivi di frustrazione del mondo del lavoro per il progressivo scadimento della politica di pianificazione economica, una delle conseguenze della crisi politica, sono evidenti con il ministero del Lavoro, che dovrebbe essere l’organo di direzione di una politica dell’occupazione, ma che si trova del tutto impreparato a fronteggiare i suoi compiti. Manca un interlocutore vero con i sindacati, non già e non solo per la risoluzione delle vertenze ma per la grande tematica dell’occupazione. Il ministro del Lavoro ha il portafoglio ma non ha il ministero nel senso che non padroneggia la materia che gli dà il titolo: non ha voce sulle migrazioni interne, sul collocamento e sull’addestramento professionale.
Pur con queste limitazioni, il ruolo che gioca il ministro del Lavoro nelle trattative per i rinnovi dei contratti e su alcune importanti vertenze che si intrecciano nella stagione contrattuale quali quelle della Fiat e della Pirelli, risulta non privo di significato. In particolare appare piuttosto evidente, dalle numerose dichiarazioni e comunicati polemici della Confindustria di cui la stampa conservatrice dà ampio risalto, come si verifichi uno scontro piuttosto forte fra il mondo imprenditoriale e il ministro del Lavoro.
Sulla Vertenza Fiat (sospensione di 28.000 operai in seguito agli scioperi «selvaggi» delle Officine 32 e 33 della Fiat Mirafiori) e quella della Pirelli (la serrata decisa dall’azienda milanese e la sospensione di 12.000 operai contro le agitazioni dei lavoratori per l’aumento del premio di produzione), il Corriere della Sera il 4 ottobre scrive: «A distanza di pochi giorni dalla "condanna" della Fiat per la sospensione di ventottomila operai in seguito all’agitazione della officina 32, il ministro del Lavoro Donat Cattin ha "condannato" la Pirelli per la decisione di bloccare l’attività dello stabilimento della Bicocca a Milano, rispondendo ieri alle interrogazioni alla Camera. Il ministro ha riconosciuto che negli stabilimenti vi furono devastazioni e danneggiamenti ma provocati da elementi estranei alle Organizzazioni sindacali. Il ricorso alla serrata da parte della Pirelli costituisce un fatto di estrema gravità, ha precisato il ministro, e un atto penalmente lecito, ma tanto la dottrina quanto la giurisprudenza sono concordi nel definirla un illecito civile». Così come è indicativo il livore con cui la Confindustria si scaglia al termine della trattativa per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici contro il ministro del Lavoro, si comprende quanto il ruolo del ministro sia stato se non decisivo quanto meno importante nel successo finale delle rivendicazioni sindacali. (Per un approfondimento leggi Le dichiarazioni dei protagonisti)
Per comprendere il pensiero del ministro è importante sottolineare che in quel periodo c’è un dibattito serrato nella componente cattolica del sindacato e nella corrente progressista della Democrazia cristiana (di cui il ministro del Lavoro è leader della componente Forze nuove). La tesi propugnata è sostanzialmente che il conflitto industriale è una manifestazione fisiologica e permanente delle moderne società avanzate, un conflitto che avviene tuttavia, in condizioni di disparità. Da una parte ci sono le direzioni aziendali, che esercitano un potere diffuso e capillare, mediante la politica delle assunzioni, dei trasferimenti, delle promozioni e dei licenziamenti. La parte opposta, cioè i lavoratori, non ha un potere così diffuso, anzi l’attività delle Organizzazioni sindacali è di regola ostacolata dalle direzione aziendali e la stessa partecipazione dei lavoratori al movimento sindacale è scoraggiata con ogni mezzo. Per questo motivo Donat Cattin sarà uno dei propugnatori dello Statuto dei lavoratori (l’iter parlamentare che porterà all’approvazione dello Statuto cade proprio durante l’Autunno caldo) che tenta appunto di riequilibrare la situazione di svantaggio della classe operaia e si guadagnerà il titolo di «ministro dei lavoratori».
Sulla questione del suo intervento nella trattativa del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, inizialmente i sindacati l’avevano osteggiato, respingendo il suo concetto di «contratto pilota» dei metalmeccanici , riaffermando l’autonomia della categoria e negando la concatenazione tra la sua soluzione e lo sblocco di altri contratti. Ma innegabilmente l’opera di mediazione del ministro ha aiutato l’andamento positivo delle trattative sia delle aziende a partecipazione statale, le quali sono state indotte dal ministro a formulare nuove offerte vicine alle richieste dei lavoratori, che quelle delle aziende private. In particolare, queste ultime avevano messo la pregiudiziale sulla contrattazione articolata aziendale che per oltre due mesi blocca la trattativa. Alla fine gli industriali si videro costretti a rinunciare a questa pregiudiziale per non assumersi la responsabilità del prolungamento della vertenza con i conseguenti danni all’economia, sottolineati dal ministro.
L’ordine pubblico e le lotte operaie
Un altro importante fattore di questo periodo è l’azione dei Comitati unitari di base, gruppi di lavoratori non aderenti ai sindacati confederali, che la stampa conservatrice definisce come «maoisti» o «filo-cinesi» e che assurgono alla cronaca nelle lotte della primavera a Torino alla Fiat e poi definitivamente nell’estate del ‘69 nella Vertenza Pirelli-Bicocca a Milano. Questi gruppi «estremisti» sono spesso accompagnati nelle lotte dai movimenti extraparlamentari e sono oggetto e soggetto di provocazioni e di tafferugli dentro e fuori la fabbrica, in particolare come detto alla Fiat e alla Pirelli. Questi episodi provocheranno grandi ripercussioni nella politica e soprattutto nel sindacato. Si apre infatti la questione della rappresentanza sindacale, dell’autodisciplina delle organizzazioni dei lavoratori nelle manifestazione pubbliche e negli scioperi e del pericolo dello scavalcamento di questi gruppi extra-confederali che inducono i sindacati a un atteggiamento più duro nei confronti delle scelte aziendali in vista del rinnovo dei contratti nell’autunno. Non è un caso che gli scioperi «selvaggi» alle officine Fiat Mirafiori (che provocheranno le 28.000 sospensioni) avvengono i primissimi giorni di settembre, provocando la decisione del sindacato di chiedere l’anticipo dell’inizio delle trattative che cominceranno l’8 settembre, proprio per evitare ulteriori tensioni e l’indebolimento della posizione del sindacato confederale.
Lo sciopero generale nazionale del 19 novembre indetto da Cgil-Cisl-Uil per il diritto alla casa, al quale partecipano venti milioni di lavoratori rappresenta un punto alto dell’unità del sindacato, ma purtroppo registra anche la morte dell’agente di polizia Annarumma nella manifestazione di Milano. La destra, speculando sul luttuoso avvenimento, tenta di introdurre elementi di diversione e di vera e propria provocazione anche con interventi al Parlamento di esponenti dell’Msi che invocano uno Stato più duro. Gli scopi di questa campagna sono due: di ordine sindacale per incrinare lo schieramento unitario dei sindacati inasprendo le vertenze sindacali; di ordine politico per la svolta autoritaria che potrebbe avere la crisi che si trascina da tempo dalla scissione socialista e dalla dissoluzione del centro sinistra.
Anche la destra socialdemocratica e democristiana rilancia una campagna per l’«ordine», mettendo sotto accusa i sindacati degli atti di violenza. Né è un caso che si ricominci a parlare di crisi di governo sotto la pressione delle forze conservatrici, non ultime anche di stampo fascista (in quel periodo si verificano diversi incidenti provocati da gruppi di destra) interessate a portare verso punti di rottura ancora più gravi la situazione sociale e politica italiana. Questo clima diventerà ancora più delicato con la strage di piazza Fontana nel dicembre 1969.
Divampano anche molte polemiche sulla presenza delle forze dell’ordine nelle manifestazioni dei lavoratori. I sindacati ne chiedono l’allontanamento e in una lettera al ministro del Lavoro essi affermano che «l’obiettivo irrinunciabile resta quello del disarmo delle forze di polizia alle manifestazioni sindacali, dato che molto spesso l’intervento della polizia è stata all’origine degli inevitabili inasprimenti dei conflitti sindacali, fino ad arrivare ad un vero e proprio attacco al diritto di sciopero che va sommato agli atti di coercizione e violenza morale da parte del padronato». Su questa delicata questione il ministro del Lavoro cerca di operare una mediazione fra le richieste di maggiore repressione e quella di disarmo della polizia, respingendo le soluzioni più drastiche e spingendo sulla responsabilità e l’autodisciplina del sindacato.
LA SITUAZIONE SOCIALE
La questione meridionale
Di fronte alle tensioni sociali che scuotono il paese emergono i gravi problemi provocati dalla trasformazione della società italiana – la crisi delle grandi città, lo squilibrio fra Sud e Nord, la nuova ondata di emigrazione verso il triangolo industriale. I giornali dedicano molti servizi e inchieste sulla grave situazione urbanistica delle città e i problemi ad essa connessi e, in particolare i giornali progressisti, sull’esigenza di una nuova politica di edilizia popolare. I giornali conservatori si fanno portavoce degli amministratori di Milano e Torino che denunciano il crescente afflusso di immigrati che rende drammatica la situazione degli alloggi, dei servizi pubblici e delle comunicazioni. Il dato degli immigrati nel triangolo industriale indica una popolazione che ha superato i 6 milioni.
Per alcuni commentatori la realtà sta dando ragione a quei meridionalisti che ammonivano che creare nuovi stabilimenti della Fiat a Rivalta invece che in Campania o in Puglia significava, oltre che danneggiare il Sud, portare un duro colpo alle strutture civili e sociali del Nord. Il ministro Colombo aveva proposto una politica della «contrattazione programmata» fra il governo e le industrie nel 1967, ma la crisi del centrosinistra non ne aveva permesso la realizzazione. Se pur si registrano annunci di nuovi investimenti delle industrie pubbliche e private (l’Alfa sud alle porte di Napoli e la holding Fiat-Iri costituita per impiantare un grande stabilimento aeronautico nella Campania oltre che l’ulteriore sviluppo del Centro siderurgico di Taranto) questi sono al di fuori di una visione programmata dello sviluppo generale del paese. E intanto il divario del livello economico del Sud rispetto al Nord cresce. Ecco perché la questione meridionale si rivela alla radice delle crisi sociali.
Inoltre i giornali vicini alle posizioni industriali denunciano che durante gli scioperi «selvaggi» e nei disordini avvenuti nelle fabbriche e nelle piazze, fra i più accesi protagonisti di azione estremiste sono proprio giovani provenienti dal Sud e che dietro tutti questi gravi fenomeni riaffiora il grave problema irrisolto: la questione meridionale. Nel caso, per esempio, degli scioperi ad oltranza alla Fiat Mirafiori che fanno da precursori alla stagione contrattuale agli inizi di settembre, proclamati da lavoratori che non si rifanno alle direttive sindacali, un rappresentante della Fim spiega che questi gruppi fanno leva sui giovani operai del Sud che arrivando a Torino trovano mille difficoltà, dalla casa al costo della vita in aumento e sono esasperati anche dal lavoro estremamente pesante. Così le file del dissenso a tutti i costi si ingrossano e i sindacati si trovano in una situazione difficile per non lasciarsi sfuggire di mano il movimento operaio. Promuovono dibattiti sulle condizioni di lavoro e cercano soprattutto di persuadere gli operai che soltanto un fronte unitario può sopportare il peso di una lotta estenuante e lunghissima. Inoltre la decisione dell’allargamento della piattaforma rivendicativa ad altre tematiche di giustizia sociale trova una delle sue ragioni, proprio per dare una risposta a questi gravi problemi che investono anche l’azione sindacale.
Allargamento della piattaforma rivendicativa Ccnl per la giustizia sociale
Le difficoltà sociali ed economiche vissute al Sud come dagli immigrati al Nord, la pressante questione del caro affitti e del caro vita che investe tutta la popolazione lavoratrice, l’esigenza di riforme su vari campi come quello fiscale, mutualistico, scolastico irrompono nell’autunno sindacale in lotta per le rivendicazioni retributive e normative nelle fabbriche. I giornali progressisti fanno proprie queste istanze, rilanciando la giustezza delle rivendicazioni contrattuali per sollevare la domanda interna, chiedendo una nuova politica di edilizia popolare e di blocco dei fitti. Anche i giornali conservatori non lesinano critiche al governo per i salari troppo bassi, le riforme mancate, l’inadeguatezza della pianificazione urbanistica. I grandi profitti realizzati nel boom economico del dopoguerra non hanno portato quei miglioramenti auspicati per il benessere della popolazione, sottolineano i giornali di ispirazione cattolica.
La Cgil, Cisl e Uil fanno proprie queste problematiche e decidono l’allargamento della piattaforma rivendicativa del Ccnl alla giustizia sociale. Proclamano uno sciopero generale del 19 novembre proprio su questi temi, manifestazioni in molte città, come quella imponente di Milano del 15 ottobre, incontri con il governo e una concreta vittoria con il blocco dei affitti, sul cui decreto il governo rischia seriamente di cadere. Sull’allargamento della piattaforma rivendicativa si deve registrare una defezione della Cisl. Infatti le federazioni dell’industria della Cisl dichiarano che gli scioperi per la casa, l’assistenza sanitaria e la riforma fiscale contrastano e forse danneggiano le agitazioni per il rinnovo di numerosi contratti nazionali. Il tono polemico del comunicato dei sindacati Cisl nei confronti della Segreteria confederale conferma la frattura all’interno dell’organizzazione, già manifesta in occasione dell’ultimo congresso nazionale, anche su altri temi come il disarmo della polizia nei conflitti di lavoro, le forme di rappresentanza e l’unità sindacale. Anche sui giornali divampa una polemica molto accesa per questa scelta del sindacato. I giornali conservatori lamentano che organizzare scioperi e manifestazioni per questioni rivendicative è un diritto del sindacato, ma non su questioni come le riforme sociali ed economiche. Precisano che queste problematiche non competono alle organizzazioni dei lavoratori, piuttosto sono le aziende le prime a soffrine della mancanza e invece vengono ulteriormente danneggiate con gli scioperi decisi dal sindacato.
Il ruolo dell’informazione
A fronte dell’intensa lotta della classe lavoratrice e dall’evidente impatto della loro azione sulla vita sociale, politica ed economica del paese, non si riscontra una giusta presenza delle istanze e delle ragioni dei lavoratori nei mezzi di comunicazione di massa.
Nel 1969 la televisione sta iniziando ad assumere quel ruolo di catalizzatore dell’informazione, seppur a dei livelli neppure paragonabili a quelli odierni. Erano in onda Rai Uno (nata nel 1954 con il nome di Programma nazionale) e Rai Due (nata nel 1961 con il nome di Secondo programma). Il direttore del telegiornale di Rai Uno nel 1969 era Willy De Luca (in carica 1967-1975), il direttore del Tg2 era Ugo Zatterin (in carica 1961-1975).
Secondo i sindacati, la radio e la televisione di Stato non danno il giusto risalto alle lotte dei lavoratori, le notizie sono spesso mistificate o lacunose, così come la presenza delle organizzazioni dei lavoratori non è degnamente rappresentata nelle rare trasmissioni dedicate alle tematiche del lavoro. I giornali conservatori, che sono i giornali a più alta tiratura, lanciano continuamente campagne di denigrazione e di accuse nei confronti dei sindacati e solo la stampa progressista rilancia e sostiene la battaglia degli operai. L’opinione pubblica generale non ha gli strumenti per comprendere il grande significato non solo sindacale, di quello che le organizzazioni dei lavoratori e i lavoratori stessi stanno compiendo in quel periodo.
Il sindacato prende atto di questa situazione e decide una serie di iniziative: manifestazioni davanti alla sede della Rai-Tv in varie città, Roma, Milano, Genova, Torino per chiedere che la Tv di Stato dedichi più tempo e attenzione alle lotte dei lavoratori. Il 24 ottobre gli operai di Milano costringono gli autori di «Faccia a Faccia» a non registrare la puntata che doveva andare in onda sullo Statuto dei lavoratori: la Cisl aveva deciso di non partecipare alla trasmissione perché non erano state date sufficienti garanzie per un tema così importante per i lavoratori e non voleva fungere da semplice comparsa . Luciano Lama e Pietro Ingrao, dalle pagine de L’Unità, lanciano accuse alla faziosità della Rai. A Roma viene creata una Radio operaia che mantiene un costante e rapido contatto con i lavoratori per informarli sulle novità delle trattative a Roma. Inoltre i lavoratori riescono ad ottenere la diretta Tv a Roma negli incontri tra il ministro del Lavoro, industriali e sindacati nella trattativa finale dei metalmeccanici.
IL CONTESTO ECONOMICO
La situazione economica si lega in modo profondo alle vertenze sindacali in corso. Vengono organizzati dibattiti nelle redazioni dei giornali, pubblicati commenti ed editoriali di illustri economisti nei giornali di opposte tendenze. Le tematiche principali che emergono sono le ripercussioni economiche derivanti dall’accettazione della piattaforma rivendicativa dei sindacati, in particolare sul richiesto aumento della retribuzioni e la contemporanea riduzione di orario, la mancanza di pianificazione economica, la redistribuzione del reddito.
Come già asserito, la crisi del centrosinistra ha disatteso molte riforme, tra cui quelle di una migliore pianificazione del settore produttivo. Gli effetti del boom economico ha sì portato lo sviluppo del paese ma questo non è supportato né da una buona programmazione né ha prodotto un’equa redistribuzione del reddito.
Da uno stralcio dell’intervento del ministro del Lavoro al congresso della Uil il 28 ottobre si legge che «la programmazione indicativa è fallita e lo sviluppo spontaneo è in crisi. Occorre un profondo cambiamento di istituzione del potere di responsabilità e di guida: si avrà un nuovo tipo di programmazione democratica, che nasce per spinta dal basso, non più a carattere indicativo, ma decisionale. A tal fine sono previsti incontri triangolari (governo, imprenditori, sindacati) sui problemi del mondo del lavoro».
Per quanto riguarda la redistribuzione del reddito, tema oggetto di molti dibattiti in questo Autunno caldo, riportiamo un intervento di Giacomo Vaciago, docente ordinario di Politica economica, pubblicato sull’Avvenire, l’11 dicembre 1969. «I principali obiettivi della politica economica italiana in questo dopoguerra sono stati, di volta in volta, l'equilibrio della bilancia dei pagamenti, lo sviluppo economico e la stabilità dei prezzi. Un obiettivo è stato però costantemente ignorato: una più equa distribuzione del reddito. Non intervenire per risolvere questa situazione significa ignorare i pesanti effetti negativi nel breve come nel lungo periodo, che rischiano di far saltare il sistema stesso. Nel breve suscitano da parte degli sfruttati violenti tentativi di aumentare la loro fetta di reddito, il che porta a tensioni inflazionistiche che destabilizzano l’intero processo produttivo. Le risposte tradizionali a questi due pericoli sono nel primo caso la repressione violenta (il “colpo di Stato”) e nel secondo, la razionalizzazione della situazione esistente (la “politica dei redditi”). Esiste però una terza alternativa di realizzare indirettamente una distribuzione del reddito più equa, attraverso il raggiungimento di una serie di obiettivi intermedi di carattere spiccatamente sociale. Il violento scontro di questi mesi sembra però indicare che la fiducia da parte della classe lavoratrice a questa alternativa è seriamente scossa. La lotta si è riproposta direttamente in termini di quote di reddito distribuite, rifiutando la mediazione dell'aumentata disponibilità di servizi sociali.»
La piattaforma rivendicativa e le ripercussioni economiche
La piattaforma rivendicativa presentata dalle organizzazioni sindacali vede, tra gli altri punti, un aumento salariale consistente che alla fine si misurerà in circa ventimila lire in più sulla busta paga (il salario medio di un metalmeccanico nel 1969 è di 100.000 lire) e che i sindacati giudicheranno come il più importante successo contrattuale mai conseguito dalla categoria fino ad allora, ovviamente non solo dal punto di vista di miglioramento retributivo. In ogni caso l’aumento di retribuzione, unito alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali, rappresentano uno dei fattori chiave nell’intensa discussione se non dire polemica, presente sui giornali durante la stagione contrattuale.
Il nocciolo della questione dal punto di vista dei giornali vicini alle posizioni industriali è che se le richieste di aumento salariale e riduzione dell’orario di lavoro della piattaforma sindacale, fossero accettate si verificherebbe una catastrofe a livello economico con un aumento insopportabile del costo del lavoro, conseguenti forti spinte inflazionistiche, minore potere della moneta, ripercussioni negative sulle esportazioni, ridotto utile per le imprese. Secondo gli industriali, queste richieste dovrebbero provocare un aumento del costo del lavoro di categoria del 36-38 per cento. Quello del contratto precedente comportò un aumento del 10-12 per cento; quello del 1963 un aumento del costo del lavoro del solo 7 per cento.
Per tutti e tre i mesi prima della firma dell’accordo dei metalmeccanici, la campagna contro le richieste dei lavoratori è martellante, tanto che il ministro del Lavoro si trova costretto a rassicurare gli industriali che se le richieste venissero accettate non succederà la catastrofe annunciata dalla Confindustria e dai giornali a loro vicini.
La tesi contrapposta dei giornali vicini alle organizzazioni sindacali è invece che le richieste dei lavoratori non solo sono giuste e sopportabili per l’economia del lavoro, ma che, se accettate,comporteranno un aumento della domanda interna e quindi dei consumi, dovuto proprio ai miglioramenti retributivi è ciò avrà un effetto positivo sulla produzione e sull’occupazione, oltre che a non minacciare gli utili delle imprese. Tesi sostenuta in buona parte anche dal ministro del Lavoro.
La firma del Contratto dei metalmeccanici delle aziende a partecipazione statale
La firma dell’Accordo dei metalmeccanici delle aziende a partecipazione statale il 9 dicembre provocherà un’altra accesa polemica fra Confindustria e il ministro del Lavoro. In una lettera inviata al presidente del Consiglio Rumor al termine della trattativa, Angelo Costa presidente della Confindustria, spiega la tesi degli industriali: essi «accusano» che le industrie a partecipazione statale hanno stipulato, per pressioni politiche, contratti collettivi che rendono praticamente impossibile anche ai sindacati stipulare contratti differenti, che pur sarebbero giustificati da differenze obiettive. In sostanza si sottolinea che le industrie statali sono di grandi dimensioni e hanno l’appoggio dello Stato nel caso di deficit, mentre quelle private sono costituite sia di aziende di grandi dimensioni ma soprattutto di migliaia di piccole e medie aziende nelle quali l’aumento del costo del lavoro dovuto ai miglioramenti retributivi è più difficilmente sopportabile.
Da uno stralcio della dichiarazione del ministro del Lavoro alla firma del Contratto dei metalmeccanici Intersind, pubblicata da Il Sole 24 Ore del 10 dicembre, il ministro risponde alle «accuse»: «I risultati che sono stati conseguiti corrispondono a linee direttive politiche che il centro di promozione dell’azione sociale del governo, il ministero del Lavoro, ha proposto per il paese, cioè puntare ad alti salari, ad una riduzione degli orari, perché il progresso tecnologico distribuisca la minore quantità di tempo necessaria per la produzione su una quantità maggiore di lavoratori, e la sistemazione di alcune condizioni particolari tra le quali, importante, è quella nei confronti degli impiegati per il trattamento di malattia e per il trattamento infortunistico. Il carico che il Contratto dei metalmeccanici e l’Intersind dà alle imprese è notevole e deve spingere l’imprenditore ad essere più attivo e vivo nello sforzo di ricerca di più alti livelli tecnologici, di maggiore capacità produttiva e di maggiore produttività».
Negli editoriali a commento della fine delle trattative, i giornali che si sono contraddistinti nella campagna contro la piattaforma rivendicativa dei sindacati, attuano un cambiamento significativo. Non possono non riconoscere la vittoria della classe lavoratrice, anzi ne esaltano l’unità e la combattività, ma a questo punto chiedono un periodo di tregua sindacale che rappresenta il corrispettivo dei rinnovi contrattuali e un impegno ad aumentare la produttività, investendo i sindacati della responsabilità insieme agli imprenditori e al governo, di mantenere in equilibrio l’economia del paese.