Articolo per: “L’Unità” del 22 maggio 2003

di Fernando Liuzzi

 

L’accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, firmato il 7 maggio dalla Federmeccanica con Fim e Uilm, ha a che fare con quattro diverse questioni. Naturalmente, questi problemi sono tra loro intrecciati. Tuttavia, per analizzarli è opportuno tenerli distinti.

Il primo, e più evidente, è quello dei rapporti interni al mondo sindacale. L’accordo, che ha escluso il sindacato maggiormente rappresentativo, e cioè la Fiom, è sicuramente l’esito di una divisione già preesistente. Adesso viene da chiedersi: avrà un ulteriore retroeffetto negativo sulla tessitura, da molti auspicata, di nuovi rapporti fra  Cgil, Cisl e Uil?

Il secondo problema è quello della sovranità dei lavoratori sugli atti contrattuali che li riguardano. Una questione che può essere riassunta così: che senso ha, nell’ambito di un sistema giuridico-politico a chiara impronta democratica come quello esistente nel nostro Paese, che una minoranza, in questo caso Fim e Uilm, possa decidere non dico al posto ma contro il volere della maggioranza dei lavoratori sindacalizzati?

Il terzo problema è quello delle relazioni industriali. Che impatto avrà questo accordo su un sistema di relazioni tra parti sociali in cui il contratto dei metalmeccanici ha, da più di trent’anni, un ruolo centrale?

Quarto problema: quale capacità avrà questo accordo di regolare in modo positivo i rapporti tra imprese e lavoratori nell’ambito dell’industria metalmeccanica?

Credo di poter dire, usando un’espressione tratta dalla koinè neo-romanesca,  che nei primi giorni dopo l’accordo si è assistito al tentativo, messo in atto da più parti, di buttarla in caciara. Dichiarazioni, liti, clamori, insulti, relativi soprattutto al primo problema, hanno sollevato un polverone, ovviamente amplificato da vari mezzi di informazione, che ha distolto l’attenzione di molti dalla questione più importante: quella dei contenuti contrattuali dell’intesa. Quel che serve, invece, è una discussione pacata che, come quella avviata su queste colonne da Massimo Roccella e Bruno Ugolini, parta proprio dall’analisi di tali contenuti.

La mia tesi è che l’accordo del 7 maggio è un cattivo accordo non solo per i lavoratori metalmeccanici ma anche per le imprese e quindi, in prospettiva, per il sistema delle relazioni industriali del nostro paese.

Che sia cattivo per i lavoratori non è difficile da dimostrare. I soldi sono così pochi che il potere d’acquisto delle retribuzioni contrattuali, di qui a fine 2004, è destinato sicuramente a diminuire. Nessun problema posto dai mutamenti in corso nel mondo industriale, a partire dalla precarizzazione relativa dei rapporti di lavoro, è stato risolto. Di più: l’accordo apre pericolosi varchi, proprio in tema di rapporti di lavoro oltre che in tema di orari, alla manomissione dei diritti oggi goduti dai lavoratori e dai loro sindacati. Insomma, un netto passo indietro.

Nell’accordo del 7 maggio c’è però un altro aspetto fondamentale che, sin qui, non è stato forse messo in luce a sufficienza: l’indebolimento della capacità regolativa del contratto.

Questo indebolimento lo si vede, innanzitutto, in ciò che riguarda le retribuzioni. Meno salario nel contratto nazionale non vuol dire che i metalmeccanici siano destinati a impoverire tutti nella stessa misura proporzionale ma, appunto, che il contratto vede indebolirsi la sua capacità di esercitare un’autorità salariale perequativa. I lavoratori più deboli si impoveriranno e quelli più forti si arrangeranno da sé.

Ciò che però, da un certo punto di vista, è persino più sorprendente, sono i massicci rinvii all’azione legislativa portata oggi avanti dal Governo. Fim, Uilm e Federmeccanica si spogliano così di un potere di autoregolazione dei rapporti di lavoro che, nella tradizione italiana, è sempre stata nelle mani delle parti sociali. Da noi, infatti, la contrattazione ha storicamente anticipato e non seguito la legislazione in materia di lavoro.

Come sanno tutti quelli che si occupano di negoziati in materia di lavoro, un accordo è buono quando può essere giudicato tale da entrambe le parti. Un buon contratto, infatti, non deve solo garantire i diritti dei lavoratori ma deve anche offrire qualche certezza alle imprese. L’accordo del 7 maggio, invece, genera per tutti più problemi di quanti ne risolva.

Maurizio Sacconi, sottosegretario al Lavoro, ha detto che questa intesa “ha oggettivamente una portata storica nell’intensa dinamica delle relazioni industriali in Italia”. Temo che abbia ragione ma non perché essa, come dice Sacconi, “eviti l’instabilità” connessa al conflitto sindacale. Al contrario, se non sarà superata da un nuovo accordo, questa intesa potrà avere tale “portata storica” proprio perché, per la prima volta dopo il contratto del gennaio 1970, invece di costruire adeguate relazioni sociali nel cuore dell’industria italiana, avvia un’opera di smantellamento che non si sa verso quale assetto sia indirizzata e arreca, così, un grave colpo all’istituto stesso del contratto nazionale di lavoro.