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Perché il "patto per l'Italia" è un disastro per la lavoratrici e i lavoratori

 

In questi giorni una campagna di disinformazione sta tentando di cancellare i contenuti reali dell’accordo separato sottoscritto tra governo, associazioni delle imprese e alcuni sindacati.

La Confindustria ha dichiarato che mai in un solo accordo erano state concentrate tante flessibilità. Purtroppo gli industriali hanno ragione: il “Patto per l’Italia” rappresenta un concentrato di danni per i diritti e per le condizioni sociali delle lavoratrici e dei lavoratori.

Per capire questo basta guardare ai principali punti dell’intesa che qui riassumiamo:

1.     L’accordo mette in discussione l’articolo 18

Tutti i nuovi assunti, a qualunque titolo, non saranno “computati”, cioè non conteranno ai fini dell’articolo 18. Dunque le aziende che salgono oltre i 15 dipendenti potranno arrivare anche a mille conservando la libertà di licenziamento. L’unica eccezione è determinata dalle imprese che avevano più di 15 dipendenti all’entrata in vigore della nuova norma. Questo però vuol dire che tutte le nuove imprese, non saranno più vincolate dall’articolo 18. In successivi interventi esponenti del governo hanno dichiarato che i lavoratori non contati ai fini dello Statuto resteranno licenziabili per sempre. Secondo altre interpretazioni in queste aziende l’articolo 18 non sarà comunque applicato fino a che vale la norma in deroga. Poi comunque tutti i lavoratori assunti durante il periodo di vigore del patto non conteranno mai più ai fini dello Statuto. Aziende di 1000 dipendenti continueranno ad essere considerate sotto i 15, e potranno licenziare liberamente semplicemente bloccando le ulteriori assunzioni. D’altra parte non c’è scritto da nessuna parte nell’intesa che la norma si concluda dopo tre anni. Il testo parla solo di una verifica e di un “avviso comune” tra le parti sociali. Dopo sarà un accordo tra i sindacati firmatari dell’intesa e la Confindustria a decidere se continuare o no la sperimentazione. Già ora le diverse interpretazioni dell’intesa tra i suoi stessi firmatari indicano l’effetto distruttivo che essa ha sulla certezza dei diritti. E’ evidente allora che, senza una messa in discussione dell’accordo, l’attacco all’articolo 18 continuerà e si estenderà.

2.     L’accordo garantisce alle imprese un diluvio di flessibilità

Con il “Patto per l’Italia” sono state accettate le deleghe già presentate dal governo in Parlamento con le leggi 848 e con la 848bis. Queste deleghe estendono a dismisura la flessibilità selvaggia del lavoro. Si liberalizzano ulteriormente i contratti a termine, il lavoro interinale, tutte le forme di lavoro precario, mentre si estende il totale arbitrio delle imprese nella gestione degli orari, in particolare nei rapporti di lavoro a part-time. Passa così il cosiddetto lavoro a chiamata, quel rapporto di lavoro respinto da un referendum alla Zanussi. Si definisce lo spazio per una individualizzazione del rapporto di lavoro con i contratti di progetto, che diventano la via per eludere i contratti nazionali. Si peggiora la normativa sulla cessione dei rami d’impresa, con la messa in discussione del requisito dell’autonomia funzionale, che potrà esistere solo nel momento della cessione dell’attività. Così sarà solo un po’ più complesso, ma non vietato, trasferire attività ad aziende che eludano lo Statuto dei lavoratori.

3. Aumenti sottoposti a norme restrittive per i disoccupati mentre si mette in discussione la cassa integrazione.

L’indennità di disoccupazione aumenta al 60% per i primi 6 mesi, per poi calare a 40 e 30% fino a 12 mesi. Questi provvedimenti sono finanziati dalla cifra di 700 milioni di euro all’anno, che corrispondono più o meno all’attivo che registra la gestione della cassa integrazione, che, come si sa, è pagata con i contributi dei lavoratori. Questa cifra non è sufficiente per coprire tutta la domanda e non a caso il testo propone di delegare al governo il compito di definire nuove norme restrittive per l’utilizzo dell’istituto.

Contemporaneamente viene messo in discussione l’attuale sistema della cassa integrazione, che viene considerata un “di più” rispetto a quanto previsto come indennità di disoccupazione. Nella sostanza l’attuale regime di cassa integrazione ordinaria e straordinaria, tolto quanto garantito come indennità di disoccupazione per 12 mesi, potrà essere amministrato da fondi bilaterali concordati a livello nazionale e territoriale. Corriamo il rischio di avere differenti trattamenti di Cig a secondo dei territori e dei contratti e, soprattutto, può accadere che quello che prima era garantito dalla legge venga in un futuro amministrato dagli accordi tra aziende e sindacati firmatari del patto.

4.     Il fisco restituisce uno e prende quattro 

L’accordo prevede la riduzione delle tasse per lavoratori e pensionati accettando contemporaneamente tutta la riforma fiscale del governo. Questa riforma prevede due aliquote, del 23 e del 33%. I contribuenti più ricchi riceveranno così più di due terzi della riduzione delle tasse. Secondo alcuni calcoli, naturalmente se il governo mantiene le promesse, ai lavoratori dipendenti e ai pensionati dovrebbero andare al massimo 15 mila miliardi di vecchie lire come recupero fiscale, mentre ai contribuenti sopra i 200 milioni toccherebbero almeno 30.000 mila miliardi. Per una lira di recupero fiscale per lavoratori e pensionati ce ne sono due che vanno ai ricchi. Dal momento che i servizi dello stato sociale servono soprattutto per le classi sociali a reddito minore, mentre i ricchi non hanno certo bisogno di tutti i servizi pubblici, questa riforma vuol dire che lavoratori e pensionati riceveranno molto meno di tutto quello che dovranno pagare in più nell’assistenza, nella sanità, nella scuola e nei servizi, per compensare i soldi che mancheranno allo Stato dalle tasse dei ricchi.

In ogni caso l’accordo non dà a lavoratori e pensionati neppure la cifra prevista dalla riforma, ma promette circa 11 mila miliardi delle vecchie lire. Questa cifra corrisponde a quanto era dovuto dai vecchi accordi con i precedenti governi, che prevedevano già una riduzione delle aliquote per i lavoratori e per i pensionati e la restituzione del drenaggio fiscale.

In sintesi il governo utilizza restituzioni fiscali già dovute al lavoro dipendente e ai pensionati per ottenere il consenso alla riduzione delle tasse ai ricchi, che comprometterà tutta la spesa sociale.

5.     L’accordo mette in discussione la difesa del potere d’acquisto dei salari.  

Nel patto tutti i firmatari dichiarano di condividere gli obiettivi di politica economica del governo quali saranno definiti nel prossimo Dpef. E’ questo un fatto nuovo che limita la libertà di giudizio e l’autonomia del sindacato rispetto a tutta la politica economica del governo, ma soprattutto è un atto che può avere conseguenze negative per i rinnovi contrattuali.

Con il Dpef il governo stabilisce la nuova inflazione programmata a cifre assai lontane dalla realtà dell’aumento dei prezzi e dalle stesse previsioni dei principali istituti di ricerca. Vincolare i contratti a tali indici di inflazione significherebbe programmare la riduzione del potere d’acquisto dei salari.

6.     L’accordo non fa nulla per l’occupazione, in particolare per le aziende in crisi e per il Mezzogiorno.  

Il patto, che dovrebbe avere come ragione fondamentale la crescita dell’occupazione e lo sviluppo del Mezzogiorno, non assume nessun impegno concreto e nuovo. Mancano programmi di investimento, interventi sulla ricerca e sullo sviluppo dei settori industriali strategici, non sono previsti interventi di politica industriale che sarebbero necessari per crisi come quella della Fiat, mentre per il Sud siamo alla pura riaffermazione di buoni propositi.

Nella sostanza l’unica opera che viene definita per il Mezzogiorno è il ponte sullo stretto di Messina, mentre per quanto riguarda le risorse si resta nella media degli ultimi anni, scontando dunque la riduzione intervenuta con la Finanziaria del 2002.

Tutta la filosofia dell’accordo consiste nell’esaltare la flessibilità come via verso l’occupazione ed è per questo che mancano programmi di investimento concreti.

7.     L’accordo non cancella l’arbitrato e prova a cambiare la natura del sindacato.

Contrariamente a quanto affermato da alcuni, l’accordo non elimina il proposito del governo di introdurre l’arbitrato “secondo equità” in alternativa all’applicazione delle leggi e dei contratti nella tutela dei diritti dei lavoratori. L’accordo rinvia questa materia ad un “avviso comune” cioè ancora una volta ad un accordo tra sindacati e associazioni di imprese firmatarie del patto. Nel caso del mancato accordo il governo si riserverà di intervenire.

L’intesa, accanto all’utilizzo dello strumento dell'“avviso comune” per gestire diritti fondamentali dei lavoratori, propone la costituzione di Enti bilaterali per la gestione di fondi costituiti da risorse messe a disposizione dai lavoratori, dalle imprese e dallo Stato.

Questi Enti e questi fondi non sono istituiti per dare ai lavoratori qualcosa in più di quello che garantisce oggi lo stato sociale, ma intervengono in sostituzione delle garanzie pubbliche, che vengono ridimensionate. Si vuole così cambiare la natura del sindacato, che, partecipando alla gestione degli Enti e dei fondi, diventerebbe una sorta di organismo parastatale che, dalla formazione, al mercato del lavoro, alla sanità, alla cassa integrazione, si sostituirebbe alle funzioni dello Stato.

 

8.     Altri danni.  

L’accordo fa altri danni sia per quello che non tratta, sia per quello che prepara.

Le organizzazioni sindacali che hanno firmato l’intesa dichiaravano di voler estendere i diritti nel mondo del lavoro. Non è vero, mentre si colpisce l’articolo 18 e si estende la precarietà non c’è nulla di migliorativo nel patto per il lavoro a termine, per quello interinale, per l’apprendistato, per i contratti di formazione e lavoro, per il collaboratori coordinati e continuativi (co.co.co), per i dipendenti-soci delle cooperative. Tra l’altro, essendo l’accordo uno schema di delega che affida al governo e ai suoi tecnici la stesura definitiva dei punti concordati, è molto probabile che le norme attuative dell’accordo riservino ulteriori sorprese.

Inoltre il governo ottiene un consenso complessivo a tutta la sua impostazione di politica economica e sociale. Questo vuol dire via libera alla distruzione del sistema sanitario pubblico, alla controriforma della scuola che allarga lo spazio alle scuole private e taglia i fondi a quelle pubbliche. Sulle pensioni continuerà così l’iter del progetto governativo sulla riduzione dei contributi per i nuovi assunti, che colpisce il diritto alla pensione per i più giovani e taglia i fondi per quelli che già sono in quiescenza.

 

Conclusioni

Questi sono solo i punti più evidenti di un accordo complessivamente disastroso per i lavoratori sia per i danni concreti che produce, sia per la filosofia che proclama. Che è quella della compressione del costo del lavoro, della flessibilità selvaggia e della riduzione dei diritti come vie per l’occupazione, della smantellamento della spesa pubblica sociale.

Per queste ragioni la Cgil non ha firmato l’accordo e chiama alla lotta i lavoratori contro tutti i danni che esso può provocare.

Le altre organizzazioni sindacali, che sono così convinte della bontà dell’intesa hanno un solo modo serio per affermare le loro convinzioni: chiedere ai lavoratori e ai pensionati di votare su di essa. Il rifiuto della consultazione democratica, le pratiche discriminatorie che il governo vuole imporre nei confronti di chi non condivide il patto, sono la migliore dimostrazione che questa intesa colpisce tutti i diritti dei lavoratori, compreso quello di decidere liberamente sugli accordi che li riguardano. 

Roma, 10 luglio 2002