Estate. Tempo di vacanze, di
viaggi, di tempo libero dalla schiavitù del lavoro. Sebbene di
questi tempi le vacanze siano diventate un lusso, perché la
crisi morde le vite di noi tutti, chi può va via, si prende una
pausa, anche di una sola settimana.
Molti vanno all’estero, magari in uno di quei paesi belli ma
poveri, dove albergo, spiaggia, ristorante costano meno. Altri
si fanno una crocerina su quelle grandi navi che fanno mostra di
se tra luci e festoni nei porti.
Ma l’estate è anche tempo per altri viaggi. Piccole e miserabili
solcano il Mediterraneo le carrette del mare, zeppe di gente che
ha affrontato il deserto, le galere libiche, i mercanti
d’uomini, spendendo i risparmi di intere famiglie, pur di
agguantare un’opportunità di vita, un futuro per se e per i
propri figli. Tanti non ce la fanno, inghiottiti dal mare. Chi
riesce ad arrivare spesso trova ad accoglierlo uomini in armi
che gli garantiscono un soggiorno esclusivo uno di quegli hotel
di lusso che chiamano CIE, Centri di Identificazione ed
Espulsione per immigrati. Sono prigioni. Posti dove vieni
privato della libertà in attesa di essere buttato fuori a forza.
In queste prigioni soprusi, pestaggi, umiliazioni, cure negate,
sedativi nel cibo sono pane quotidiano.
Provate a pensarci, mentre prenderete il sole sul ponte.
Pensateci mentre mangerete un buon pasto in un ristorantino di
quelli giusti. Pensate che i soldi che spendete per la vostra
meritata vacanza tanti altri li pagano per un viaggio disperato
verso un paese che li accoglierà a braccia chiuse, pronto a
sfruttare all’osso i miserabili che arrivano per poi buttarli
fuori quando non servono più. Pensateci e, quando ne avrete
l’opportunità, mettetevi in mezzo.
Ogni giorno, in ogni dove, qualcuno viene caricato a forza su un
aereo, su una nave, su un treno. Dicono che li riportano a
“casa”. Sono i clandestini, gli stranieri senza documenti.
Vengono dai tanti Sud del mondo: sono fuggiti dalla miseria,
dalla guerra, dall’oppressione e qui hanno trovato razzismo,
caporalato, leggi speciali.
In molti paesi europei li imbarcano su voli speciali, gestiti da
agenzie specializzate che non vanno troppo per il sottile:
spesso gli immigrati sono legati stretti alle mani, alle
ginocchia, alle braccia. Qualcuno ogni tanto soffoca per i
bavagli troppo stretti o ha un malore per le attenzioni un po’
rudi dei carcerieri. Qualche mese fa un giovane nigeriano è
morto per il trattamento subito in aeroporto in Svizzera.
In Italia li caricano sulle navi e sugli aerei prima degli
altri: così nessuno li può vedere, e, forse, indignarsi. Nelle
carte di imbarco i prigionieri sono indicati come “depo”.
Siedono sempre in fondo all’aereo, circondati da poliziotti in
borghese: spesso sono ammanettati. A volte tacciono, rassegnati
alla deportazione forzata, altre volte si ribellano, gridano
forte, non rinunciano alla speranza. Tra loro c’è anche gente
che era qui da anni ed anni, che un giorno ha perso il lavoro e,
con il lavoro, anche le carte. Il lavoro che ricatta la vita di
noi tutti è una vera catena per gli immigrati. Una legge
razzista, una delle tante, sancisce che può vivere nel nostro
paese solo chi ha un contratto di lavoro, chi accetta di
lavorare per quattro soldi, senza tutele e senza orario. Oggi i
migranti, con permesso o in nero, sono i nuovi schiavi di
quest’Europa fatta di confini e filo spinato.
Quando uno schiavo non serve più lo si butta fuori. Così serve
da esempio per gli altri. Lavora e tieni bassa la testa,
altrimenti… Pensateci. Oggi tocca agli ultimi arrivati, domani
potrebbe toccare a noi. I padroni, se possono, non badano alla
nazionalità di quelli che sfruttano.
Ma questa macchina infernale può essere inceppata. A volte basta
poco. Un no. Una cintura non agganciata. Quest’estate quando
salirete sull’aereo che vi porta in vacanza, date un’occhiata in
fondo, ascoltate le grida dell’uomo o della donna che le carte
chiamano “depo”. Dite ad alta voce che non accettate questa
vergogna, rifiutate di allacciare le cinture. Il comandante, per
motivi di sicurezza, può decidere di sbarcare il prigioniero.
Basta un piccolo gesto e, per un giorno, sul volo che vi porta
in vacanza, niente “depo”, ma un briciolo di umanità in più.
Perché, purtroppo, il razzismo non va in vacanza.
23 luglio 2010