Consulta giuridica 27 aprile 2006

 

Premessa

La riunione è stata dedicata integralmente ad un approfondimento della questione dell’orario di lavoro e della flessibilità, già oggetto di discussione nella precedente riunione. Si conferma infatti la pesantezza dell’offensiva autoritaria in atto su questa materia, già preannunciata dai contenuti del documento della Confindustria del settembre 2005 e dallo scontro avuto in occasione della trattativa per il rinnovo per il CCNL, dove si è registrato che le imprese hanno individuato come proprio punto di mediazione, la rivendicazione della piena libertà di azione in materia di orario di lavoro, comprendendo il superamento di limiti per il lavoro straordinario, le turnazioni, i picchi di lavoro e quant’altro si renda necessario perché la flessibilità possa essere usata da parte delle imprese con modalità totalmente unilaterali e svincolate dalla contrattazione, trasformandosi in un vero e proprio strumento di riduzione del costo del lavoro.

La questione del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro è quella più sentita dalle lavoratrici e dai lavoratori e per la Fiom deve pertanto rimanere oggetto di contrattazione e non può in alcun modo essere lasciata alla gestione unilaterale delle imprese. È quindi necessario anche di fare il punto sullo stato della contrattazione aziendale in materia e costruire una strategia sindacale complessiva in grado di rispondere a quella delle imprese, estendendo il diritto delle RSU a contrattare sugli orari di lavoro, tenendo allo stesso tempo ben presente le difficoltà date dall’indubbio peggioramento della legislazione nazionale e comunitaria sulla materia e da un contesto, in cui la discussione sulla riforma del sistema contrattuale vedrà le imprese porre all’ordine del giorno non solo l’esigibilità e la tempestività della flessibilizzazione dell’orario di lavoro, ma anche la limitazione del diritto di sciopero, in particolare nei settori non interessati dalla legge 146/90.

Tale approfondimento si è reso ancor più necessario ed urgente in vista del fatto che nel mese di aprile presso il tribunale di Alessandria, in seguito ad una denuncia ai sensi dell’art. 28 legge 300/70 per comportamenti messi in atto dall’azienda a fronte del mancato raggiungimento di un accordo sull’uso dell’orario plurisettimanale (64 ore, art. 5 CCNL), è stata emessa una sentenza negativa, per la quale è presentato un ricorso da parte della Fiom. “Contrattazione non-ostativa” significa infatti che vanno contrattate appieno le modalità di attuazione di quanto previsto nel CCNL, nel rispetto della piena titolarità negoziale delle RSU e non può in alcun modo significare che le aziende possono agire unilateralmente.

 

Temi affrontati dalle relazioni e dalla discussione

Si è partiti dalla questione della direttiva CEE 104/1993, precisando che nel caso di ritardo di recepimento della legislazione comunitaria in quella nazionale, è prevista una condanna per mancata attuazione delle norme. La legislazione nazionale deve recepire gli obiettivi delle direttive, ma può salvaguardare regole di miglior favore in essere attraverso una “clausola di non-regresso”. Può inoltre optare tra una serie di possibilità previste nelle direttive, vanificando però di fatto in questo modo la possibilità di uniformare le normative a livello europeo. Esiste inoltre una sentenza della Corte di Giustizia Europea relativa alla Germania, in cui si afferma che la “clausola di non-regresso” è vincolante, ma può essere superata al fine di conseguire gli obiettivi prefissati dalla direttiva e scelti dal legislatore nazionale, e come si vedrà in seguito, è questo il criterio guida del decreto 66.

È necessario partire dal fatto che nell’art. 36 della Costituzione viene sancito che l’orario di lavoro giornaliero massimo va fissato per via di legge. Su questo argomento esistono tuttavia una serie di interpretazioni che tendono a sminuire la portata di questa norma, riferendola all’orario settimanale. Esistono inoltre una serie di rimandi in base ai quali la legge può delegare integralmente la determinazione dell’orario di lavoro alla contrattazione collettiva, ed in quell’ambito ai vari livelli di contrattazione successivi. È qui utile ricordare però che l’art. 39 della Costituzione non prevede la validità “erga omnes” dei contratti, mentre impegna il legislatore e recepire quanto stabilito dai contratti, contrariamente a quanto avviene in altri paesi dell’Unione Europea, dove il percorso è inverso. Il quadro che viene così a determinarsi, risulta pertanto non solo complesso, ma a volte addirittura contraddittorio.

Nella legge 23/1924, viene stabilito il limite massimo dell’orario di lavoro in 8 ore giornaliere, 48 ore settimanali e la possibilità di abbassare l’orario di lavoro settimanale attraverso la contrattazione. Viene anche stabilito il limite massimo per il lavoro straordinario di 2 ore giornaliere e 12 ore settimanali, fissando pertanto per via di legge un limite “globale” dell’orario di lavoro.

Nella legge 196/1997 (“pacchetto Treu”), viene fissato il limite delle 40 ore settimanali e stabilito che un eventuale “orario multiperiodale” può essere fissato solo dal CCNL. Quest’ultimo concetto, pur aprendo di fatto alla possibilità di superare la predeterminazione dell’orario di lavoro, attraverso il richiamo al vincolo che impone di definire gli orari plurisettimanali tramite la contrattazione collettiva, nel quadro attuale rischia di restare l’unico vero limite legislativo di riferimento in materia di orario di lavoro. Allo stesso tempo però la multiperiodalità – applicabile per estensione anche allo straordinario, così come alla fruibilità di pause, riposi e ferie - è sinonimo di flessibilità. La cui chiave di lettura della multiperiodalità è infatti nel concetto di “durata media”, in sostituzione di “durata massima” dell’orario di lavoro, cui si faceva riferimento in precedenza.

Una formulazione non sufficientemente chiara e la mancata gestione della norma (per altro nata nel contesto dell’ ”avviso comune” e del suo riferimento alla necessità di superare i limiti giornalieri e settimanali dell’orario di lavoro), così come una serie di interventi peggiorativi intervenuti complessivamente in materia di legislazione sul lavoro (368/2001, legge 30, dlgs 276/2003), per quanto riguarda l’orario, culminano nel decreto 66/2003 sulle “norme concernenti l’organizzazione dell’orario di lavoro”, nel quale si recepisce in ritardo la direttiva 104/1993. Attraverso questo decreto il preesistente limite “globale”, può essere superato nell’arco plurisettimanale: non esiste più il limite dell’orario di lavoro giornaliero, ma si fissa il periodo di riposo di 11 ore nell’arco delle 24 ore (art. 7).

Da questa norma si può pertanto dedurre che l’orario giornaliero può arrivare fino a 13 ore giornaliere (ed a 78 ore settimanali). Si fissa inoltre una durata massima dell’orario settimanale di 48 ore omnicomprensive, applicabile per un arco di quattro mesi (che in base all’art. 4 può essere superato nella contrattazione collettiva). Lo stesso decreto comprende una serie di ulteriori concetti potenzialmente destrutturanti, che richiedono la massima attenzione: il concetto di “durata media” delle variazioni rispetto all’orario settimanale di 40 ore, il fatto che la durata massima dell’orario di lavoro va definita nei CCNL (in assenza di questo limite nei CCNL, resterebbe solo quello fissato nel decreto stesso, ovvero le 48 ore per un periodo quattro mesi citato in precedenza), il fatto che in base all’art. 5 il ricorso al lavoro straordinario deve essere “contenuto”, che può essere regolamentato nel CCNL, ma in difetto è ammissibile fino a 250 ore annue. Infine l’art. 16 consente persino la flessibilizzazione delle 11 ore di risposo attraverso la contrattazione collettiva.

La formulazione della norma da quindi ampio spazio ad interpretazioni con effetti peggiorativi delle condizioni di lavoro, che potrebbero arrivare p.es. fino alla possibilità di applicare a livello annuo orari di 78 ore settimanali, rendendo così possibile persino il completo superamento di limiti preesistenti ed espliciti, contraddicendo di fatto sia la “clausola di non-regresso”, che i limiti stabiliti nell’art. 36 della Costituzione, ma legittimando l’intervento come “recepimento degli obiettivi” della direttiva comunitaria 104/1993 (che non contiene una distinzione chiara tra orario di lavoro normale e lavoro straordinario, dando così la possibilità di superare i limiti del lavoro straordinario).

In questo contesto emergono chiaramente i problemi del rapporto tra la fonte legislativa e quella contrattuale, della titolarità negoziale (secondo il Patto per l’Italia gli accordi possono essere firmati “da sindacati comparativamente più rappresentativi”, e non più “dai sindacati comparativamente più rappresentativi”), dell’efficacia dei contratti (art. 39 della Costituzione e mancanza di validità “erga omnes” del contratti).

Questo quadro rischia concretamente di mettere in discussione l’efficacia dell’intero impianto di tutele date dal CCNL, destrutturando la contrattazione fino al livello individuale. Inoltre, i rinvii alla contrattazione collettiva adottati nella legislazione recente, sono privi di significato concreto, dato che attribuiscono alla stessa poteri di regolamentazione propri della libertà sindacale (sancita sempre dall’art. 39 della Costituzione), ed al tempo stesso smontano limiti preesistenti, delegando alla contrattazione collettiva la “facoltà” di reintrodurli.

Va però citata una importante sentenza della Corte di Cassazione (n. 7453/05) del 12 aprile 2005, che conferma l’illegittimità del licenziamento di una lavoratrice sulla base di una serie di rilievi, tra i quali è qui utile citare il seguente: “la decisione della Casa di cura – dopo ben diciassette anni, nei quali il rapporto aveva trovato una stabile e consensuale strutturazione – di mutare l’orario di lavoro, senza neppure indicare in che giorni e in che orari la XXXX avrebbe dovuto recuperare le ore supplementari svolte nei giorni di guardia, costituisce in effetti una unilaterale mutazione delle condizioni essenziali del contratto, impossibile senza il consenso del lavoratore”. La sentenza afferma quindi l’importante principio che non è solo necessario comunicare le variazioni dell’orario di lavoro, ma che tali variazioni richiedono il consenso del lavoratore stesso.

È indispensabile una contrattazione estremamente rigorosa su queste materie ed è necessario estendere ed esercitare il potere negoziale in materia di orario di lavoro a tutti i livelli, prestando particolare attenzione alla necessità di stabilire limiti chiari ed espliciti della durata del normale orario di lavoro ed alla questione dei criteri di computo dello stesso, ai tempi e ritmi di lavoro, così come alla necessità di tutelare sia il diritto soggettivo alla determinazione della prestazione lavorativa, che il ruolo negoziale del sindacato a tutti i livelli.

Come richiamato in premessa, la questione dell’orario di lavoro, oltre a quella del recupero salariale attraverso il CCNL, saranno le questioni centrali che la Fiom dovrà affrontare nei prossimi mesi. Non si tratta infatti soltanto di contrastare le richieste di “esigibilità” e “tempestività” della flessibilità dell’orario, ma di evitare che - nel contesto dato - si arrivi fino ad un orario semestrale, che possa poi essere trasformato in orario annuale, magari attraverso una apparente “valorizzazione” del ruolo delle RSU nella contrattazione dello stesso a livello aziendale, cancellando così però di fatto il limite dell’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali e depotenziando contestualmente valore e ruolo del CCNL.

Questi argomenti saranno ulteriormente affrontati ed approfonditi nell’iniziativa nazionale della Fiom su “precarietà e contrattazione” decisa dal Comitato Centrale e convocata per il prossimo 1 giugno a Milano.

I relatori Bavaro, Carabelli, Allamprese e Simoneschi invieranno i testi delle loro relazioni e provvederemo non appena ci perverranno a diffonderli.