I trasferimenti d’azienda (o delocalizzazioni)

 

Relazione tenuta da  Guglielmo Simoneschi alla riunione della Consulta giuridica Fiom del 24 settembre 2004

 

I ripetuti interventi legislativi che, apportando modifiche alla precedente disciplina, hanno successivamente regolato il trasferimento di azienda, vanno dal testo originario dell’art. 2112 del codice civile a quello di cui all’art. 32 del dlgs 276 del 2003, passando dall’art. 47 della legge 428 del 1990, attuativa della direttiva Cee 14 febbraio 1977, n. 77 e dal dlgs 2 febbraio 2001, n.18, attuativo della direttiva 29 giugno 1998 n. 50. Allo stato attuale il testo dell’ art. 2112 c.c., avendone l’art. 32 del dlgs 276/2003 modificato il solo quinto comma, risulta, per i primi quattro comma, dalle disposizioni degli articoli 1 e 2 del dlgs n. 18 del 2001 e, come quinto comma appunto dall’art. 32 del dlgs 276/2003.

Una premessa di carattere generale: l’art. 2112 c.c. è una norma di garanzia mirando a conservare non solo i diritti maturati dai lavoratori trasferiti durante il rapporto di lavoro con il cedente ma anche, nei limiti che diremo, derivanti dalla eventuale sostituzione del contratto collettivo, gli stessi trattamenti economi e normativi applicati in precedenza.

Tuttavia l’effetto del passaggio dei rapporti di lavoro in capo al cessionario, conseguente ad uno dei molteplici contratti traslativi della proprietà o del godimento della azienda o di una sua parte ora estesi a nuove tipologie contrattuali, si verifica se e in quanto non siano in concreto disattese limiti e condizioni fissate dallo stesso art 2112 c.c., altrimenti, come deve dirsi per ogni altro atto di autonomia privata, il contratto o l’atto traslativo è invalido, non si ha trasferimento nè della azienda o di una sua parte né dei rapporti di lavoro ed i lavoratori restano alle dipendenze del precedente datore di lavoro.

Faccio un esempio che mi pare interessante sul piano sindacale: l’art. 2 del dlgs n. 18 del 2001, modificando l’art. 47 della legge 428 del 1990, ha confermato una regola che attribuisce alle r.s.u. e al sindacato di categoria il diritto alla previa informazione e consultazione, per le aziende con più di 15 dipendenti, sul progettato trasferimento di azienda o di una sua parte: informazione dovuta dal cedente e dal cessionario, consultazione a richiesta del sindacato: dice la norma che l’informazione deve contenere l’indicazione dei motivi del programmato trasferimento, delle conseguenze giuridiche ed economiche per i lavoratori, delle eventuali misure previste nei confronti di essi. La stessa disposizione, aggiunge che l’omissione di tali adempimenti, sia della informazione che della consultazione richiesta, cioè dell’esame congiunto, costituisce comportamento antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto. Sappiamo che per l’art. 28, accertata la antisindacalità della condotta del datore di lavoro, il giudice deve disporne la rimozione degli effetti, della quale un passaggio inevitabile non può non essere la invalidità o inefficacia del trasferimento: altrimenti a che serve l’informazione e consultazione del sindacato a trasferimento avvenuto? Eppure la Cassazione (n. 9130/2003) dissente, avendo affermato che l’inadempimento agli obblighi in questione non inficia la validità ed efficacia del trasferimento: evidentemente pervasa dal clima di manomissione dei diritti non instaurato ma certamente rafforzato dalla legge 30 e dal successivo decreto di attuazione. Comunque la tesi non regge sia perché vanifica la ratio della legge, che ha procedimentalizzato, come per i licenziamenti collettivi, anche il trasferimento di azienda, attribuendo al sindacato un analogo diritto al controllo preventivo; sia perché, com’ è pacifico che la violazione della procedura di cui alla 223/91, per la parte relativa agli obblighi di informazione e consultazione del sindacato, determina la antisindacalità della stessa e la invalidità od inefficacia degli atti conseguenti, cioè dei licenziamenti, coerenza interpretativa vuole che alle medesime conclusioni si arrivi con riguardo al trasferimento di azienda (o di una sua parte) ove ricorra la medesima violazione di legge. A mio avviso vale la pena di ritentare, a partire dai giudici di merito, anche perché sappiamo che, nella sezione lavoro della Corte, i contrasti giurisprudenziali sono un fatto frequente.

Altro argomento d’immediato rilievo sindacale è collegato al terzo comma dell’art. 2112 per il quale, secondo la dizione originaria, il datore di lavoro presso il quale si è trasferiti, è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dalla contrattazione nazionale, territoriale o aziendale vigente all’atto del trasferimento, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili ed applicati all’impresa dal nuovo datore di lavoro. Precisa il successivo comma che l’effetto sostitutivo, cioè l’applicazione del diverso contratto e dei relativi trattamenti economici e normativi, è consentita solo tra contratti del medesimo livello. La ratio di queste norme mi pare quella di voler attribuire a tutti i lavoratori dell’impresa cessionaria il medesimo trattamento contrattuale, nel bene e nel male, cioè sia che significhi per i lavoratori trasferiti perdere o acquistare il diritto ad un trattamento contrattuale più favorevole o meno favorevole di quello precedentemente fruito. Dato tuttavia che la eventuale sostituzione del contratto, dico eventuale perché ben può essere che il cessionario applichi lo stesso contratto applicato dal cedente, può avvenire solo tra contratti del medesimo livello, mi pare che qualche problema potrebbe sorgere sulla conservazione o acquisizione dai lavoratori trasferiti dei trattamenti previsti dai contratti di secondo livello, la cui realtà non è diffusa quanto quella dei contratti nazionali.

Una prima ipotesi: il nuovo datore di lavoro non ha un contratto aziendale di cui invece i lavoratori fruivano nell’impresa di provenienza. Soluzione proposta: i trattamenti aziendali si conservano perché nella continuità del rapporto, sancita dal 1° comma, sta anche la continuità dei trattamenti economici e normativi, ivi compresi quelli aziendali, di cui i lavoratori trasferiti fruivano lavorando nell’impresa cedente; ipotesi contraria: i rapporti di lavoro dell’impresa cessionaria sono regolati anche da un contratto aziendale che non aveva quella cedente: soluzione proposta: se è vero, come abbiamo detto, che la finalità della norma che prevede la sostituzione contrattuale è quella di garantire la parità di trattamento tra i lavoratori trasferiti e quelli già dipendenti dell’impresa cessionaria, pur non ricorrendo l’ipotesi legale di una successione contrattuale, per analogia si dovrebbe ritenere che con la cessione i lavoratori trasferiti acquistano il diritto ai trattamenti aziendali applicati dall’impresa cessionaria, di cui non usufruivano in quella cedente. In sintesi, rispetto ai trattamenti aziendali, quando un contratto di questo livello vi sia o per l’impresa cedente o per quella cessionaria, e non vi sia in quella di destinazione o in quella di provenienza, i lavoratori trasferiti conservano i trattamenti aziendali già fruiti con il precedente datore di lavoro, così come acquistano quelli dovuti dal nuovo datore di lavoro.

E veniamo al tema, la cessione di una parte o di un ramo d’azienda. L’art. 32 del dlgs 276, con una radicale modifica della precedente disciplina, ha disposto in questi termini: le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda intesa come articolazione funzionalmente autonoma di una attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario nel momento del suo trasferimento. Quindi, ai fini, resta la necessità che l’unità trasferita abbia una propria autonomia economica e organizzativa (ad esempio,il singolo negozio in una catena di negozi) intesa come complesso di beni oggettivamente idoneo allo svolgimento di una attività volta alla produzione di beni o servizi (così Cass. n. 17919/2002) o, come da altri ritenuto, come capacità del segmento produttivo ceduto di continuare a svolgere la propria attività economica organizzata, con la conseguenza che, se tale requisito non sussiste (ad esempio, si tratta di un reparto di lavorazione collocato a metà del ciclo produttivo) non si verifica l’ipotesi di cui all’art. 2112 c.c. e i lavoratori restano alle dipendenze del cedente (per la verità, parte della giurisprudenza, come la Cass. sopra citata, ritiene che mancando il requisito in questione della cessione di ramo, si verifica una cessione dei contratti di lavoro, per i quali comunque occorre il consenso del lavoratore ceduto).

Tuttavia nella nuova disposizione del decreto legislativo, diversamente da quanto disponeva il dlgs 18 del 2001 non si richiede più che l’autonomia dell’unità trasferita preesista al trasferimento, quale indice della oggettività, nel contesto organizzatorio dell’impresa, della autonomia del ramo ceduto, così come non si richiede più che nel trasferimento l’unità produttiva non perda la propria identità, al fine della conservazione dei rapporti giuridici ed in particolare di quelli di lavoro. È sufficiente che tale requisito sussista nel momento del trasferimento e soprattutto che siano le parti del contratto di cessione a identificare come autonomo – dentificandolo come tale, dice la norma – il segmento aziendale trasferito. Il che è estremamente pericolo perché è da escludersi, come dice Cass. 17207 del 2002, che il ramo di azienda possa essere qualificato come autonomo solo al momento del trasferimento ed in esclusiva funzione di esso, in quanto ciò consente di estromettere dalla impresa i lavoratori eccedenti o non graditi, senza rispettare per essi le garanzie previste dal rapporto di lavoro preesistente; ma è anche un assurdo giuridico, dal momento che l’accertamento dell’autonomia funzionale è questione che riguarda la qualificazione giuridica della fattispecie, come tale sottratta alla disponibilità delle parti, essendo la rispondenza o meno di un atto dell’autonomia privata alla fattispecie legale compito tipico ed esclusivo del giudice. Né si potrebbe obiettare, ha scritto Bavaro in un commento alla legge, che questa interpretazione affida al giudice la determinazione di ciò che è una articolazione funzionalmente autonoma: il giudice non determina ma qualifica un fatto come fattispecie di una categoria giuridica, al pari del giudizio sulla sussistenza di un motivo inerente l’attività economica, tecnica o organizzativa che può giustificare un licenziamento. Ne segue che non solo ci sono ragioni per una questione di legittimità costituzionale di questa parte della norma, in relazione all’ art. 24 o anche per irragionevolezza della scelta legislativa, ma anche che dai lavoratori trasferiti è pur sempre proponibile al giudice ordinario una domanda di accertamento della insussistenza della autonomia funzionale dell’unità trasferita: domanda che il giudice potrà accogliere o respingere a secondo che l’identificazione operata dalle parti non risponda \o risponda al requisito di legge.

Diciamo come stanno le cose: cosa vuole questa innovazione legislativa? nient’altro che la piena liberalizzazione dei processi di esternalizzazione, rimuovendo l’ultimo ostacolo che era dato, secondo il dlgs 18 del 2001, dalla necessità che l’unità trasferita fosse oggettivamente autonoma sul piano organizzativo e funzionale. Processi, ben considerati da Alleva come prassi truffaldine di frequente praticate dalle imprese, perché, aggirandosi il disposto dell’art. 2112 c.c., non consistono in una vera e propria alienazione o attribuzione del godimento di una parte del ciclo produttivo ad un soggetto estraneo all’impresa cedente, ma nella cessione di una parte della organizzazione ed attività aziendale ad un soggetto che sul piano economico e produttivo dipende dall’impresa che ha esternalizzato o perché ne diviene un fornitore appaltatore o perché non si tratta altro che dello stesso imprenditore travestito nella società ad hoc costituita ai fini dell’esternalizzazione: normalmente piccole società, della quale i lavoratori trasferiti diventano dipendenti, con perdita dei diritti sia di legge sia di contratto di cui fruivano in precedenza (si pensi all’art. 18), pur continuando l’impresa madre ad utilizzare il loro lavoro esattamente come prima. Che fare in questi casi: ferma restando la possibilità di contestare in sede giudiziaria, per le ragioni che dicevo, l’autonomia della attività produttiva o del servizio esternalizzato, dalla combinazione dei due contratti (quello di trasferimento e quello societario) può risultare la prova della loro comune destinazione ad una finalità elusiva dell’art. 2112 c.c. e quindi risultare ai sensi dell’art. 1344 c.c. che i negozi, nel loro collegamento, sono in frode alla legge: posto che l’art. 2112 c.c. è certamente destinato a regolare l’ipotesi che il trasferimento della proprietà o del godimento dell’unità produttiva sia effettivo ovvero avvenga in favore di un soggetto estraneo all’alienante.

Per il futuro raccolgo la proposta di Alleva: occorre pervenire al risultato che l’art. 2112 c.c. non si applica quando la cessione avviene in direzione di un soggetto controllato, ovvero che possa avvenire, quale regola antifrodatoria, solo con la salvaguardia di tutti i diritti precedentemente goduti dai lavoratori. Risultato al quale tendere sia per la via legislativa sia per quella giudiziale e contrattuale.