Consulta giuridica del 7 luglio 2005

Autotutela, in funzione preventiva dell’infortunio sul lavoro

 

L’autotutela, in funzione preventiva dell’infortunio sul lavoro, è uno spaccato di una questione più generale che, essendo purtroppo di ampie dimensioni richiede anzitutto interventi e rimedi di carattere generale, sia legale sia collettivo. Con l’ espressione autotutela si vuole riferirsi all’ipotesi che il lavoratore rifiuti l’inizio o la prosecuzione della prestazione lavorativa  perché ritenuta , secondo una valutazione oggettiva, pericolosa o tale da creare grave pregiudizio alla propria integrità psicofisica. S’intende, in sostanza, riferirsi ad una delle svariate applicazioni dell’art. 1460 del codice civile, che , dinanzi all’inadempimento ad un obbligo legale o contrattuale di una delle parti, legittima l’altra a non adempiere , ovvero legittima l’altra al rifiuto di eseguire la propria, sempre che  il rifiuto sia di buona fede :  il che potrà dirsi, per fare degli esempi, quando il rifiuto della prestazione dovuta sia  strettamente dipendente o dalla palese violazione del datore di lavoro di norme di sicurezza o da circostanze che aggravino la normale pericolosità di un lavoro o , infine, dalla imposizione di modalità esecutive che rendano pericoloso un lavoro, che, se eseguito con modalità ordinarie, non avrebbe alcuna particolare pericolosità. Non c’è dubbio che questo strumento (l’autotutela) , proprio perché  espressione di una iniziativa individuale o di un gruppo di lavoratori, potrebbe trovare difficoltà sul piano pratico, tanto più in un contesto in cui il ricatto padronale è sempre pronto a far pagare ai lavoratori l’esercizio di un diritto: se ne ha conferma ricordando che, ad esempio, in provincia di Brescia dei 28.000 infortuni sul lavoro verificatisi in dato periodo, in prevalenza nel settore industriale, ne sono stati denunciati alla procura solo qualche diecina. E’ evidente che, piuttosto che reagire, sia all’infortunio sia al pericolo di infortunio, molte volte si preferisce il silenzio.   

Ma questo nulla toglie alla possibilità di aprire un nuovo fronte di lotta per la sicurezza sul lavoro investendo in una campagna di informazione e sensibilizzazione dei lavoratori e dei responsabili per la sicurezza mirata a che l’iniziativa individuale o di un gruppo di lavoratori, che contesti la eseguibilità della prestazione ( per mancanza di adeguate misure di sicurezza, sia quelle specifiche sia quelle generiche di cui  all’ 2087 c.c.) sia sottratta alla condizione di debolezza e di solitudine  del singolo o dei pochi tramite, di volta in volta,  l’assistenza e l’ausilio dei responsabili per la sicurezza aziendali, di modo che la manifestata espressione di autotutela possa divenire l’occasione per una vertenza aziendale sulla sicurezza del lavoro.

Considerando , poi, che l’esercizio e l’effettività  dell’autotutela presuppone, quanto meno una certa conoscenza da parte  del lavoratore sia  dei rischi insiti nella prestazione lavorativa richiesta sia  delle norme di prevenzione specifiche, vien fatto di riconsiderare quelle iniziative formative che spesso , per marginalizzare le responsabilità imprenditoriali, sono state  sbandierate quale panacea di tutti i mali:  nel senso che con quelle conoscenze (rischi e norme di prevenzione ) il lavoratore potrà assai meglio valutare quello che il datore di lavoro avrebbe dovuto fare per la prevenzione e non ha fatto e quindi quando il suo rifiuto di iniziare o proseguire la prestazione di lavoro è giustificato dall’inadempimento dell’altra parte contrattuale ; senza negare che , per la certezza dei rapporti, quel che ora è desumibile in via di principio dal codice civile, dovrebbe divenire un principio normato o sul piano legislativo o su quello contrattuale. ; la legittimazione di un atto di disobbedienza del lavoratore sarebbe davvero una conquista in un clima, come quello dei luoghi di lavoro dove solo l’obbedienza sembra essere l’impronta del lavoratore virtuoso.

Un’ultima osservazione preliminare: il rifiuto della prestazione di lavoro, come è noto, costituisce il massimo inadempimento del lavoratore ma non è più tale quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 1460 c.c. ovvero quando il rifiuto sia determinato dall’inadempimento ad uno degli obblighi primari che gravano sulla controparte contrattuale.  Quindi il rifiuto della prestazione  è una forma di tutela da considerare attentamente anche perché , incidendo sul piano dell’ esecuzione del rapporto di lavoro, è rimedio produttivo di effetti immediati e non dilazionati nel tempo come è della tutela processuale.

Sempre che, come si diceva, ricorrano certe condizioni, che giustifichino il rifiuto della prestazione di lavoro. Tra le quali anzitutto che vi sia proporzionalità tra gli interessi coinvolti nelle due prestazioni. Ha ritenuto in proposito Cass. 2003 n. 1261 che nei contratti a prestazioni corrispettive qualora una delle parti, a giustificazione della propria inadempienza, faccia valere l’inadempienza dell’altra (io devo lavorare, ma tu devi garantirmi di lavorare in sicurezza ) , si deve tener conto, nel valutare la legittimità dei comportamenti delle parti, della proporzionalità tra le due prestazioni, nel senso che la prestazione rifiutata non deve essere di peso minore dell’altra; altrimenti verrebbe meno quella buona fede della parte che, in via di eccezione, si avvale dell’altrui inadempimento (cioè del lavoratore), senza la quale ictu oculi s’intende che l’eccezione sarebbe meramente pretestuosa. Nel caso di specie che le due prestazioni siano di valore proporzionale è fuori dubbio (ovvero , è fuori dubbio che l’interesse del lavoratore alla tutela della salute è quanto meno equivalente all’interesse del datore di lavoro alla prestazione lavorativa , anche sul piano costituzionale, tenuto conto rispettivamente degli art. 32 e 41 cost. .   . E’ vero che si potrebbe obiettare che il rapporto di interdipendenza e proporzionalità non corre nella specie tra l’obbligo di lavorare e l’obbligo di retribuire, tipica ipotesi di applicazione dell’art. 1460 c.c., ma tra l’obbligo di lavorare e l’obbligo di sicurezza, ma ciò non esclude né l’interdipendenza delle due obbligazioni né l’equivalenza, posto che, nell’economia del rapporto di lavoro, l’obbligo di sicurezza ha per il lavoratore una valenza primaria alla pari dell’obbligo di retribuzione e quindi all’inadempimento tanto dell’uno quanto dell’altro il lavoratore potrà opporre contestualmente la propria volontà di non eseguire il proprio lavoro. Per concludere su questo versante , se volessimo fare un esempio  per sintetizzare quanto detto, potremmo dire che ad una omissione del datore di lavoro per la sicurezza di minimo rilievo – mancanza di segnaletica di un rischio da tempo conosciuto dal lavoratore – questi non potrebbe legittimamente opporre il rifiuto di lavorare ; ma se sulle impalcature di una impresa edile si omettono parapetti e cinture di sicurezza, non lavorare sarà un diritto e direi un dovere del lavoratore.

Prima di trarre le conclusioni, voglio richiamare una interessante giurisprudenza che riguarda il tema trattato per la sua pertinenza alla tutela del lavoratore dai rischi connessi con l’organizzazione del lavoro.  Cass. n. 8267/97,e, poi, Cass. n. 19680/2003  hanno affermato che il potere direttivo del datore di lavoro (espressione del potere organizzatorio) incontra il fondamentale limite del rispetto della dignità ed integrità psicofisica del lavoratore che non possono in alcun modo essere compromessi, pur nel perseguimento di oggettive ragioni di produzione o di servizio. Altrettanto si è affermato da Corte cost. n. 108 del 1989  per la quale il potere direttivo deve svolgersi nel senso che il datore di lavoro non possa compiere atti che producano danni e svantaggi ai lavoratori. L’ipotesi esaminata dalla Cassazione è quella del superlavoro , derivante da sottodimensionamento dell’organico e quindi dall’intensificazione dei ritmi di lavoro ovvero di uno stress lavorativo che ha determinato un incidente stradale del lavoratore. La Corte ha ritenuto la violazione dell’art. 2087 c. c., la responsabilità civile del datore di lavoro e quindi il diritto del lavoratore al risarcimento del danno. Allora , alla attuale tendenza dell’impresa alla massimazione della produttività, tramite anche metodi e ritmi lavorativi al limite della umana sopportabilità, pare contrapporsi un temperamento della giurisprudenza che riconduce sotto l’egida della responsabilità civile ex art. 2087 c.c. i danni conseguenti ad una organizzazione del lavoro che, per i più diversi motivi (tra i quali l’eccessività, quantitativa e qualitativa, dell’impegno lavorativo imposto), abbia causato al lavoratore un pregiudizio psico fisico, ovvero  varie patologie, tra le quali frequenti sono gli stati depressivi e  similari ; naturalmente sempre che sia provato il nesso di causalità  tra l’organizzazione del lavoro e la patologia che ha determinato nel lavoratore..  A questa tutela si può volontariamente sostituire quella di cui all’art. 1460 c.c. (eccezione di inadempimento ), trattandosi di far valere un inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza ex ante, in funzione preventiva del danno o del suo aggravamento, e non ex post, quando cioè il danno si è già verificato , in funzione risarcitoria. Quel che interessa, per concludere , è comunque rilevare che l’organizzazione del lavoro non appare più tanto libera e discrezionale, se è vero che il diritto alla salute che ne sia compromesso, diversamente da quanto prima generalmente si riteneva, è giustiziabile , ovvero suscettibile sia  di tutela giurisdizionale sia di autotutela nelle forme precedentemente descritte.

 

                                                                        Guglielmo  Simoneschi