Ricordo 1. Il rapporto con Di Vittorio

Libertà dal lavoro, libertà nel lavoro. La lezione di Trentin al suo sindacato

 La sconfitta alla Fiat e la necessità di una svolta . Dalle lotte degli anni ’68-’70 allo Statuto dei lavoratori

Fernando Liuzzi

da “Il Riformista” (25 agosto 2007, pag. 2) 

 

Bruno Trentin è stato molte cose: un intellettuale, un uomo politico, soprattutto un sindacalista. Per cominciare quel lavoro che potrà consentirci di cogliere il senso di un’azione particolarmente ricca e complessa, credo possa essere utile tentare di istituire un primo, sommario paragone con la figura di un altro dirigente Cgil, il più grande dei nostri sindacalisti: Giuseppe Di Vittorio.

Partiamo da Di Vittorio: parola chiave, unità. Nel senso che l’esperienza, già maturata prima del Fascismo, aveva reso particolarmente acuta, in Di Vittorio, la sensibilità per il tema dell’unità dei lavoratori, considerata come premessa indispensabile a qualsiasi possibilità di difendere e promuovere con successo democrazia e diritti.

Nell’Italia del dopoguerra, unità, per Di Vittorio, non voleva dire solo unità tra lavoratori di diverso orientamento politico e sindacale, ma anche tra lavoratori di diversa collocazione territoriale e produttiva: occupati e disoccupati, città e campagna, Nord e Sud, agricoltura e industria, operai e impiegati.

Lo strumento politico che Di Vittorio immaginò per perseguire il suo scopo fu, come è noto, il Piano del lavoro. Quello contrattuale fu la scala mobile dei salari, nata come “indennità di contingenza”. Un meccanismo, frutto di un accordo tra Cgil e Confindustria, volto a offrire una protezione uniforme alle magre retribuzioni dell’epoca contro le minacce dell’inflazione postbellica e che fu esteso, via via, dall’industria del Nord a tutti i settori produttivi.

Completata la ricostruzione, in Italia partì una straordinaria stagione di sviluppo economico. Una stagione che può essere descritta anche come una durissima fase di accumulazione. E’ in questo contesto che si colloca la drammatica sconfitta patita dalla Fiom, alla Fiat, nel ’55. Stimolato da giovani intellettuali come Foa e Trentin, Di Vittorio capì: bisognava cambiare linea. Quello che serviva non era più uno strumento di protezione generale, ma il suo contrario. Bisognava cogliere le molte diversità generate dallo sviluppo nelle condizioni di lavoro e di vita. Bisognava articolare le occasioni rivendicative e gli strumenti contrattuali.

Ecco quindi Bruno Trentin. Forse nessuno, come lui, ha incarnato la nuova linea della Cgil, quella disegnata tra il Direttivo del ’55 e il 5° Congresso del ‘60. Dall’Ufficio Studi Cgil, dove era stato chiamato da Di Vittorio, Trentin fu spedito da Novella alla Fiom. E qui si mise a lavorare per sviluppare, assieme, contratto nazionale e contrattazione aziendale. Il primo come veicolo di un’unità dinamica della principale categoria dell’industria, i metalmeccanici, e come cornice e base della seconda.

La fase di accumulazione raggiunse il suo apice. Le energie sociali compresse da migrazioni interne e sforzo produttivo erano ormai vicine a esplodere. Il tappo saltò. Siamo al ciclo di lotte giovanili e operaie che va dal 1968 al 1970. La Cgil era già lì all’appuntamento quando la storia passò: ecco l’autunno caldo del 1969. Ecco il grande Contratto dei metalmeccanici (gennaio 1970). Ed ecco, anche, lo Statuto dei lavoratori, cioè la legge 300 (maggio 1970).

Bruno Trentin, dunque. Parola chiave? Forse, libertà. Nel senso che l’azione di Trentin fu volta a innescare e accompagnare un processo che potesse trasformare i lavoratori, per usare le sue parole, da “sfruttati” in “produttori”, e quindi in cittadini il cui problema principale non fosse quello di liberarsi dal lavoro, ma di essere liberi nel lavoro. Liberi di fare un assemblea sindacale all’interno del luogo di lavoro, come consentì il contratto del ’69 e ribadì la legge 300. Liberi di contrattare in fabbrica, con la struttura rappresentativa unitaria dei Consigli dei delegati. Liberi di superare contrapposizioni superate, unendosi nella Flm. Liberi di essere informati sui programmi e sui progetti dell’impresa, come sancì il contratto del 1973. Liberi di godere dei frutti di una formazione aggiornata e continua che li emancipasse dall’ignoranza o dall’inutile possesso di conoscenze professionali destinate a un rapido invecchiamento.

Ha avuto un ruolo, in tutto questo, la matrice azionista della formazione di Trentin? Forse sì. Sia come sia, è stato certo singolare che il destino abbia portato proprio lui non solo e non tanto a mettere la parola fine, con l’accordo del 31 luglio 1992, alla contrastata storia della scala mobile, uno strumento già ammalato di ipertrofia. Quanto a farlo non nell’ambito di un condiviso progetto di innovazione, ma sotto l’urto di una drammatica crisi nazionale.

Forse è questo che può spiegare perché Trentin si sia dimesso dalla guida della Cgil dopo aver fatto una scelta tutt’altro che contraddittoria con la sua parabola di dirigente sindacale. Ma su questo si discuterà ancora a lungo.