Documento della Segreteria nazionale: <<Politiche industriali, grandi imprese e Fiat>>

 

PREMESSA

Con questo testo la Fiom intende dar l'avvio a una riflessione e a un'iniziativa tesa al rilancio delle politiche industriali in Italia. Questo in tutti i principali settori strategici, dall'auto, all'aeronautica, alla informatica e alle telecomunicazioni, ai beni strumentali e a tutti i comparti a media e alta tecnologia. A queste prime valutazioni seguiranno ulteriori approfondimenti sia sugli specifici settori, sia sulle strumentazioni adeguate al rilancio di un intervento coordinato delle istituzioni nel sistema industriale del paese.

 

LA CRISI DELLE POLITICHE INDUSTRIALI

Il precipitare della crisi della Fiat, ripropone nella sua centralità la questione della politica industriale nel paese. Per anni tale questione è stata assolutamente trascurata dall’agenda politica mentre sono state privilegiate esclusivamente le politiche di risanamento finanziario e le agevolazioni alle ristrutturazioni produttive ai fini del risparmio del costo del lavoro.

Sono mancati interventi a sostegno dei settori produttivi strategici, della dimensione d’impresa, dell’innovazione e della ricerca tecnologica. Sono mancati gli strumenti per agevolare un processo di crescita della dimensione media di impresa, per accrescere le capacità di autofinanziamento e di penetrazione nei mercati più lontani. Alcune esperienze sono state fatte nel comparto dei beni strumentali, ma proprio il risultato positivo di questi interventi ne ha sottolineato il carattere limitato e insufficiente. Così pure un intervento di settore come quello definito dalla Legge 810 sull’industria della difesa, che avrebbe potuto costituire il modello per una definizione di progetti e obiettivi di settore in tutti i comparti produttivi più rilevanti, è rimasto un caso isolato. Questa situazione - che si è accompagnata a una strategia di dismissioni del sistema a partecipazioni statali che ha puntato esclusivamente a fare cassa per lo Stato, mentre sul piano dell’industria privata entrava in crisi il sistema politico familiare di tutele delle imprese organizzato attorno a Mediobanca - ha determinato una complessiva caduta della dimensione e delle qualità competitiva del sistema industriale del paese. L'Italia continua a mancare di strumenti finanziari che assecondino lo sviluppo di qualità del sistema industriale, così l'attività finanziaria ha più spesso imboccato una via "bassa", quella dei servizi al consumo, concentrandosi sulle imprese a tariffa e sui vantaggi finanziari a breve.

L’Italia è uscita da una presenza significativa, a livello delle grandi imprese europee, nella chimica come nella farmaceutica, nell’informatica come nelle telecomunicazioni, nelle industrie ad alta tecnologia e dell’automazione. Complessivamente in questi settori la presenza industriale del paese si è ridotta ai minimi termini o è stata assorbita da grandi multinazionali estere. Il caso estremo che simboleggia questa fase è quello della telefonia cellulare. L’Italia è il più grande consumatore al mondo per abitante di telefonini, nessuno dei quali è prodotto sul posto. Si è dunque un modello di sviluppo da “centro commerciale”. Nel senso che la grande manifattura di qualità viene sempre più comprata all’estero e commercializzata, mentre resta solo uno spazio per una struttura industriale dedita alla subfornitura. Un sistema di centri commerciali e industria della subfornitura, governato da sistemi di relazioni finanziarie nei quali si rifugiano le grandi famiglie e nei quali si affermano le nuove forze del capitalismo rampante e le multinazionali, rischia di produrre come effetto la regressione del paese nella posizione competitiva internazionale. La caduta della quota delle esportazioni italiane su quelle mondiali e soprattutto, la caduta in tutti i settori di qualità, è un segnale netto di un arretramento che se non affrontato produrrà regressioni anche sul piano sociale. Già oggi il settore metalmeccanico, che rappresenta oltre il 40% dell'intero settore manifatturiero e oltre il 45% delle esportazioni, deve questi risultati al complesso della media e piccola impresa, che per limiti economici-finanziari non può produrre innovazione di carattere strategico. Si afferma così una competizione ricercata sempre più sulla riduzione dei costi, a partire da quello del lavoro. Tutto questo crea le basi per l’emergere nelle imprese di posizioni aggressive e regressive, come quelle che guidano attualmente la Confindustria.

Per affrontare questa caduta complessiva della qualità competitiva bisogna dunque intervenire alla radice delle sue cause, cioè nella crisi delle politiche industriali, dello sviluppo e della ricerca avanzata.

Occorre dunque un rilancio di politiche industriali attive, non semplicemente tese ad agevolare i processi di mercato in corso. Non è vero che queste politiche metterebbero l’Italia in contrasto con l’Unione europea perché esse dovrebbero essere presentate e sostenute nel quadro di una partecipazione attiva dell'Italia al processo di costruzione e miglioramento dell’Unione. Per la quale non sono più necessarie politiche liberiste, ma politiche di riequilibrio sociale e di sviluppo tecnologico ben distribuito. L’Italia può ben sostenere che gli interventi di politica industriale che ha in programma non puntano a iniziative protezionistiche, ma a sviluppare il paese là ove è strutturalmente debole, nella dimensione ‘impresa, nella qualità tecnologica. Da questo punto di vista è evidente che se è assolutamente strumentale e privo di efficacia l’attacco ai diritti dei lavoratori, e in particolare all’articolo 18, per far crescere la dimensione d’impresa, è vero che misure di politica industriale che impediscano lo smantellamento di ciò che resta della grande impresa e favoriscano lo sviluppo di medie e grandi imprese, possono ottenere risultati ben più rilevanti dal punto di vista produttivo, senza colpire i diritti del lavoro. La questione della crescita della dimensione industriale è sicuramente centrale, ma è sbagliato e inefficace, oltre che ingiusto, affrontarla con l’attacco ai diritti e alle condizioni di lavoro, che invece conduce a una ulteriore regressione del sistema industriale.

Occorre invece definire un sistema di politiche industriali attive che agisca secondo le seguenti direttrici:

-         mantenimento e potenziamento dell’industria manifatturiera di qualità e di media, alta tecnologia;

-         mantenimento e sviluppo delle dimensioni di impresa a partire dalle grandi imprese tuttora esistenti;

-         incremento delle risorse pubbliche e private destinate alla ricerca e allo sviluppo, fino a raggiungere almeno la media europea;

-         coordinamento delle misure di politiche industriali ai fini di interventi nel Mezzogiorno che garantiscano anche all’interno del paese una distribuzione equa delle risorse e dello sviluppo tecnologico;

-         una politica di sostegno a una internazionalizzazione attiva e non passiva del nostro sistema industriale, favorendo gli accordi e le intese nei mercati più avanzati e nei settori di media alta tecnologia, con lo scopo di conservare la “testa” dei sistemi produttivi.

Questo quadro di misure, che andrà poi definito per settori e per sistemi d'impresa, dovrà essere accompagnato a una radicale modifica delle tendenze in atto nel mercato e nella gestione della forza lavoro. Si tratta di fermare il processo di frantumazione delle imprese e di terziarizzazione spinta delle attività, che in molti casi, se nel breve garantisce utili, nel medio periodo produce incapacità di sviluppo. Si tratta di fermare il processo di precarizzazione della forza lavoro che, se nel breve permette di ridurre il costo del lavoro, nel medio periodo toglie alle imprese capacità professionali e possibilità di utilizzare al meglio la qualità della forza lavoro. Si tratta di fermare la politica dei tagli improvvisi del personale, più o meno assistita dai prepensionamenti, per sostituirla con una diversa distribuzione degli orari in grado di superare i momenti di difficoltà e rallentamento produttivo. Si tratta insomma di investire sulla qualità e stabilità della forza lavoro anziché sulla sua precarietà contando per questa via di valorizzare le risorse produttive e tecnologiche del paese.

In sintesi si tratta definitivamente di respingere l’ipotesi che lo sviluppo possa avvenire trasferendo qui quello che viene inteso come “modello americano”. La verità è che gli Stati Uniti per primi usano tutti gli strumenti dello Stato per realizzare politiche industriali di estrema competitività e che quel modello economico e sociale, privato delle particolari condizioni di potenza degli Stati Uniti non è esportabile, come dimostrano i suoi fallimenti in tutto il mondo. La politica industriale degli Stati Uniti è altamente protezionistica in tutti i settori, da quelli di base, a partire dall’acciaio, a quelli ad alta tecnologia. In quest’ultimo campo poi è decisivo l’intervento pubblico, che assieme alle commesse militari, determina una enorme mole di ricerca scientifica e una capacità tecnologica largamente superiore in quel paese. Per questo l’Italia deve farsi promotrice di una politica più aggressiva e competitiva dell’Unione Europea rispetto agli Usa.

La crisi della Fiat segue una serie di disastri industriali che hanno ridimensionato complessivamente quantità e qualità della grande impresa in Italia. Dopo lo smantellamento dell’Olivetti la frantumazione della più grande industria manifatturiera italiana rappresenterebbe un’ulteriore gravissima regressione di tutto il sistema industriale nella competizione internazionale. Il danno non sarebbe solo per l’industria automobilistica propriamente detta, ma per tutti i settori della componentistica, la cui occupazione dipende in un rapporto di quattro a uno dagli occupati nell’auto e anche per un più vasto indotto, basta solo pensare alla siderurgia che è largamente impegnata nella produzione automobilistica.

La gravità della crisi e il momento cruciale nel quale si sviluppano le ristrutturazioni del sistema industriale italiano,  devono essere affrontate con un approccio attivo, diverso da quelli del passato, che ovunque si proponga il potenziamento qualitativo e quantitativo dello stesso sistema a partire dalla media e grande impresa manifatturiera.

 

LA CRISI DELLA FIAT

La crisi della Fiat avviene in questo contesto di ritirata del sistema industriale italiano dalla dimensione della grande impresa di qualità, ma ha sue specifiche ragioni. La Fiat, ultima grande impresa manifatturiera di dimensioni internazionali, ha in questi anni subìto i danni di scelte sbagliate della proprietà e del gruppo dirigente, che hanno portato alla crisi attuale. Questo nella costante di una politica aziendale di chiusura verso il lavoro e le relazioni sindacali. Il modello autoritario nei rapporti di lavoro, il rifiuto di una reale partecipazione, il mancato coinvolgimento del sindacato e dei lavoratori in tutte le scelte aziendali, fino al rifiuto di trattare l'ultima vertenza di gruppo, sono elementi aggravanti della crisi del gruppo.

La Fiat era uscita dalla recessione del ‘93/94 con difficoltà, ma con una dimensione industriale ancora efficiente e con un programma di investimenti che, ancora, pur tra molti limiti, privilegiava la produzione industriale. Da allora tre grandi errori hanno caratterizzato la gestione aziendale. Il primo è stato quello, comune a tutte le proprietà delle grandi imprese italiane, di dare priorità assoluta alle scelte di carattere finanziario. Così come la crisi della Olivetti comincia con un fallimento delle scalate finanziarie internazionali della sua proprietà, così la crisi del gruppo industriale comincia con la distorsione di risorse e gli insuccessi che hanno accompagnato l’intervento della proprietà Fiat in settori diversi, dalla Telecom all’Istituto San Paolo. Anche quando la crisi industriale si stava delineando la Fiat ha continuato a privilegiare le scelte finanziarie, con l’ultimo investimento l’acquisizione del settore energia della Montedison. Tutti questi interventi andavano nella direzione opposta a quella che le imprese chiamano rafforzamento del core business. Le imprese finanziare della proprietà Fiat hanno indebolito complessivamente il gruppo. Si è poi scelta una strategia di diversificazione degli investimenti del gruppo che ha portato a immobilizzare ingenti risorse nell’acquisto di grandi gruppi americani (Pico e Case). Le risorse per interventi in questi settori, di dubbia efficacia sul piano delle politiche industriali, hanno prodotto un vuoto di risorse per gli investimenti per il rilancio dell’auto.

In terzo luogo si è approntata una strategia di internazionalizzazione della produzione e della vendita dell’auto che si è rivelata miope e sbagliata. La Fiat ha puntato a costruire fabbriche in paesi dell’Europa orientale, dell’Asia, e dell’America Latina nei quali pensava di godere di ritmi di sviluppo che avrebbero fatto crescere il mercato dei suoi prodotti. Era una sorta di riproposizione del “modello Seicento” applicato su scala internazionale. In questo modo si evitava però di misurarsi con la competizione nei paesi industrializzati, con le auto a più elevata qualità e di gamma medio alta. Questa scelta è stata drasticamente smentita dai meccanismi stessi della globalizzazione, che in tutti i paesi a insediamento Fiat ha prodotto crisi che hanno ridotto gli spazi di mercato per le auto del gruppo torinese. La scelta di investire nei paesi in via di sviluppo invece che competere nelle aree tecnologicamente più avanzate è stata pagata due volte. Con l’assenza di prodotti competitivi per i paesi più ricchi e una crisi di mercato per i propri prodotti in quelli più poveri. Il risultato è che oggi la Fiat subisce i costi pesantissimi della caduta produttiva nei suoi stabilimenti fuori dall’Italia, mentre crolla nella sua quota di mercato in Europa.

Infine c’è da sottolineare che accanto a questi tre errori di dimensione strategica la Fiat ha praticato una politica di riorganizzazione delle imprese fondata sulla estrema terziarizzazione delle attività, che oggi produce persino dei danni di efficienza e che in prospettiva rischia di prefigurare un vero e proprio “spezzatino” nella gestione del gruppo, ove si dovesse procedere a delle vendite.

In questo contesto, con livelli di investimento nell’auto largamente inferiori a quelli con i quali aveva affrontato la crisi dell’inizio degli anni Novanta, la Fiat è entrata nella nuova crisi mondiale di quel settore industriale, priva di prodotti competitivi. Questo in particolare nei segmenti delle auto medie e di elevata qualità, quelli che contano nei paesi industrializzati più avanzati. Particolarmente negativo è stato poi il risultato di tutta la gamma alta, che ha portato alla chiusura dello stabilimento di Rivalta che ha seguito la sorte di quello Alfa di Arese, mentre il modello sul quale si puntava, la Stilo, non ha ottenuto risultati significativi. Nonostante il grave attacco ai diritti e alle condizioni di lavoro imposto dall’azienda allo stabilimento di Cassino ove viene costruita.

Così vengono al pettine tutti i nodi non risolti dell’accordo con General Motors. Questo accordo è nato per ragioni finanziarie prima che industriali, nel contesto di quella distorsione di risorse verso la finanza e gli investimenti più disparati che ha caratterizzato gli ultimi anni della gestione del gruppo. E’ stato quindi realizzato in un quadro di debolezza e di non chiarezza rispetto al futuro del gruppo. Nonostante le richieste sindacali non è mai stato varato un progetto industriale che definisse le prospettive dell’intesa e le sue ricadute produttive e occupazionali. L’accordo è sempre più apparso come un registro di pagine bianche che venivano scritte a seconda della tendenza dei mercati e delle scelte del gruppo più forte. E’ significativo che la Fiat, dopo aver lasciato intendere di voler essere coinvolta nell’intervento sulla crisi del gruppo coreano Daewoo, abbia dovuto abbandonare, mentre la General Motors invece abbia perfezionato l’acquisto di quella casa automobilistica. Ora il gruppo General Motors si trova a essere socio della Fiat e contemporaneamente proprietario di quella Daewoo che è competitiva con la Fiat proprio sul settore delle macchine piccole e ha insediamenti in diversi paesi dove è presente anche il gruppo torinese. C’è il rischio dunque di una sovrapposizione di impianti e produzioni tra la Fiat e la casa coreana, mentre è ancora da definire quale sarà il rapporto globale tra Fiat e Gm.

I due comparti nei quali si diceva che l’accordo con Gm dovesse produrre i risultati migliori, componentistica e motori, rischiano di subire invece i danni più gravi. Tutta la componentistica del gruppo è in vendita e le cessioni non sono state perfezionate in molte realtà solo perché non si sono trovati acquirenti disponibili ai prezzi dell’azienda. Il settore dei motori, che è stato accorpato nella società Power Train, paritaria tra Fiat e Gm, sta drasticamente ridimensionando il suo insediamento in Italia. Infine, la stessa impiantistica e tutte le attività a essa connesse, il Comau, sono nella lista delle cessioni.

Già oggi, dunque, si delinea un assetto del gruppo Fiat che vede la presenza produttiva nell’auto sempre più limitata ad alcune catene di montaggio finale, mentre tutto il resto, dai motori, alla componentistica di qualità, agli interventi impiantistici, rischia di essere acquistato sul mercato.

A questo si aggiunge ancora l’assoluta marginalità della ricerca rispetto alle nuove tecnologie dell’auto a basso impatto ambientale, in particolare al motore all’idrogeno, si comprende la pesantezza delle prospettive strategiche del gruppo. La Fiat così rischia di non caratterizzarsi più come un’impresa automobilistica, ma come una gigantesca carrozzeria, come un insieme di quegli impianti “cacciavite” che vengono montati e smontati dalle grandi multinazionali dell’auto nei vari paesi.

Né può essere sostenuta seriamente una sopravvivenza industriale del gruppo che prescinda dall’automobile. E’ vero oggi gli altri settori vanno meglio dell’auto, in particolare i veicoli industriali e l’areonautica. Ma queste realtà, di fronte allo svuotamento dell’auto finirebbero per essere assorbite in logiche centrifughe e inevitabilmente finirebbero sul mercato per realizzare utili. Senza l’auto la Fiat è condannata a ripercorrere la strada già seguita dall’Olivetti, che ha trasformato la sua ragione sociale da industria informatica a società finanziaria, passando attraverso lo spezzatino e la vendita di tutte le proprie principali attività.

 

IL RILANCIO DELL’INDUSTRIA AUTOMOBILISTICA IN ITALIA

La crisi della Fiat e la crisi della politica industriale nel paese convergono verso uno stesso snodo: è ipotizzabile la presenza di una forte industria automobilistica in Italia ? E, se questa venisse a mancare quale sarebbe la posizione dell’Italia nella competizione internazionale ? La risposta a queste domande è che solo una serie di interventi mirati di politica industriale e di precisi condizionamenti delle scelte dell’impresa, possono impedire la fine di una autonoma produzione automobilistica.

Per impedire questo esito negativo occorre un intervento che si fondi sulle seguenti premesse:

1.      l’auto non è un prodotto maturo ma, al contrario un concentrato di nuove tecnologie sulle quali si giocheranno anche questioni strategiche come quelle di una mobilità ecologicamente compatibile, in particolare nei paesi più avanzati. Questo implica concepire l’auto come un prodotto da collocare in un territorio sulla base di una concezione  complessiva e integrata della mobilità. Connessa all’auto è la questione del riciclo dei materiali mentre centrale è la questione dei nuovi motori, a partire da quello all’idrogeno. Il prodotto auto va collocato in un contesto di mobilità ampia, che comporta un intreccio con il trasporto pubblico e forme nuove di leasing del prodotto. Si sta sviluppando il sistema dell’auto “in affitto” o in comproprietà, che comporta rilevanti investimenti nel sistema dei servizi e dell’assistenza, che devono razionalizzarsi e radicarsi nel territorio. In sintesi chi continuerà a produrre auto in breve dovrà misurasi con nuove frontiere scientifiche, tecnologiche, produttive e nell’industrializzazione dei servizi e dell’assistenza. Chi manterrà nel proprio paese la produzione di auto otterrà un avanzamento tecnologico complessivo del proprio sistema industriale.

2.      L’Italia è un paese dove si producono poche auto rispetto al mercato. Il mercato italiano dell’auto è costantemente superiore ai due milioni di auto. Con gli ultimi tagli produttivi per la prima volta la produzione di auto scenderà sotto il milione. L’Italia l’unico grande paese industriale così deficitario nell’auto, la cui bolletta costa al paese più di quella petrolifera. Francia, Germania, Spagna sono paesi esportatori di auto, così pure naturalmente i colossi americani e giapponesi, anche la Gran Bretagna è in condizioni migliori del nostro paese. Per queste ragioni la soluzione non è incentivare il mercato, che comporterebbe automaticamente un ulteriore aumento del già pesante deficit della bolletta automobilistica del nostro paese, ma incentivare la produzione automobilistica in Italia.

3.      Le misure di politica industriale a sostegno dello sviluppo dell’industria automobilistica in Italia non possono essere considerate come protezionistiche o come violazioni delle regole dell’Unione Europea. Non si tratta infatti di aiutare un’azienda, ma di intervenire su una situazione di deficit del nostro paese che rischia di essere l’unico grande paese europeo senza un’adeguata industria dell’automobile. Le mire tese a incrementare la produzione di auto in Italia e a favorire lo sviluppo della ricerca e dell’innovazione tecnologica sul piano dei motori ecologicamente compatibili e del riciclo dei materiali non sono da considerare violazioni di regole comunitarie perché intervengono sulla struttura industriale del paese e non sulla concorrenza.

Con queste premesse è possibile allora ipotizzare un intervento complessivo che abbia lo scopo di salvaguardare e sviluppare la produzione automobilistica, intervento che dovrà misurarsi su diversi aspetti, dagli interventi dello Stato alle scelte delle imprese, alle intese sindacali. Punti fondamentali di questo intervento potrebbero essere però coordinati da una sorta di “ACCORDO DI PROGRAMMA” per il settore auto che vedesse definiti i criteri di fondo degli interventi e delle intese. Tale accordo dovrebbe comportare:

-         misure e incentivi per il mantenimento e lo sviluppo della produzione automobilistica in Italia. Interventi coordinati del governo per favorire l’insediamento in Italia di società estere;

-         un intervento mirato del governo per favorire la ricerca, lo sviluppo e l’industrializzazione di motori ecologicamente compatibili a partire da quello all’idrogeno, assieme a programmi di investimento per il riciclo dei materiali e a incentivi allo sviluppo del servizio per l’auto in comproprietà o in affitto, interventi che favorirebbero lo sviluppo e l’ulteriore insediamento di produzione automobilistica nel paese;

-         l’impegno della Fiat a mantenere e sviluppare le produzioni italiane, negli attuali assetti di stabilimento e a potenziare componentistica e motoristica. In questo senso dovrebbe essere ricontrattato, ove necessario, l’accordo tra Fiat e Gm;

-         un programma di interventi sulla forza lavoro teso a garantirne la formazione e la riqualificazione e a conservare il patrimonio professionale. In questo senso dovrebbero essere finanziati, in alternativa alle mobilità e ai prepensionamenti, tutte le forme di riduzione d’orario e in particolare i contratti di solidarietà.

Un ruolo particolare nell’accordo di programma dovrebbero svolgere le Regioni, sia quelle interessate agli insediamenti industriali dell’auto, sia quelle ove più forte è la concentrazione automobilistica e più gravi sono i problemi di mobilità. Le regioni dovrebbero coordinare i progetti di intervento sulla mobilità e a tutela dell’ambiente con politiche industriali e commesse produttive corrispondenti.

 

CONCLUSIONE

La crisi della Fiat è la crisi dell’ultimo grande gruppo industriale manifatturiero del nostro paese. Se non verrà affrontata nel quadro di nuove politiche industriali e avendo a mente che la fine in Italia di un’autonoma produzione automobilistica significa un pesante arretramento della posizione competitiva di tutto il paese, essa non avrà soluzione positiva. Per queste ragioni, la Fiom non intende accedere a trattative o confronti che siano la pura registrazione di una politica di smantellamento e di tagli occupazionali. La Fiom ritiene invece che sia giunto il momento di mettere le politiche industriali e gli interventi in tutti i settori strategici al centro del confronto economico e sociale del paese, solo così si potrà efficacemente affrontare l’attuale fase di passaggio e di riorganizzazione di tutti i principali sistemi produttivi.

Segreteria nazionale Fiom-Cgil

Roma, 31 maggio 2002