Dalle Commissioni interne alle Rsu

come sono cambiate le forme della rappresentanza dei lavoratori

di Gino Mazzone e Claudio Scarcelli

 

Le forme della rappresentanza dei diritti e degli interessi dei lavoratori in Italia hanno subìto, nel corso degli anni, notevoli e profonde modificazioni.

Prima di arrivare all’assetto odierno, alle Rsu, si sono succedute, nell’arco di un secolo circa, altre forme di rappresentanza, tra loro anche molto diverse, alcune delle quali hanno segnato decenni di storia del movimento operaio – le commissioni interne e i consigli di fabbrica – altre che hanno avuto vita più breve – i consigli di gestione, ecc.

Il primo accenno alle commissioni interne avviene nel 1906 con il contratto tra la Fiom e l’Itala di Torino, nel quale si riconosceva agli operai il diritto di eleggere una commissione interna alla quale, unitamente alla direzione della fabbrica, era demandato il compito di «risolvere le controversie e tutti i conflitti di qualsiasi natura», e costituiscono la prima forma di rappresentanza dei lavoratori in una unità produttiva. La loro vita è stata molto lunga – arrivando alle soglie degli anni Settanta – e pertanto soggetta a trasformazioni di vasta portata.

Esse vennero abolite fra il 2 ottobre 1925 – con il Patto di palazzo Vidoni, a Roma, stipulato fra la Confindustria e la Confederazione fascista delle corporazioni – all’indomani della vittoria dei comunisti nelle elezioni delle Commissioni interne del 1924 alla Fiat, e ricostituite il 2 settembre 1943 (durante i pochi giorni del governo Badoglio), quando viene stipulato un accordo – il cosiddetto patto Buozzi-Mazzini – fra le Confederazioni dei lavoratori dell’industria e la Confederazione degli industriali che reintroduce nel campo delle relazioni industriali l’istituto delle commissioni interne, attribuendo alle stesse anche poteri di contrattazione collettiva a livello aziendale. Alle elezioni delle commissioni interne della fine del ’43 furono chiamati a esprimersi, diversamente da come accadeva prima, tutti i lavoratori e non solamente gli iscritti al sindacato.

Gli accordi che intervengono successivamente in materia – sottoscritti il 7 agosto 1947, l’8 maggio 1953 e il 18 aprile 1966 – formalmente riducono sempre di più i compiti e i poteri delle commissioni interne, soprattutto in materia contrattuale, anche se nella realtà essi rimangono consistenti.  
L’elezione delle commissioni interne avveniva nelle aziende con più di 40 dipendenti su liste con voto segreto da parte di tutti i lavoratori e attribuzione dei seggi con criterio proporzionale. Essa era affidata a gruppi di lavoratori se avveniva per la prima volta o se il mandato era scaduto mentre se le elezioni avvenivano prima della scadenza del mandato, era la stessa commissione interna in carica ad avviare la procedura di elezione.
Le liste per le elezioni potevano essere presentate da qualsiasi gruppo di lavoratori, sia indipendente che inquadrato sindacalmente (come emanazione diretta delle centrali sindacali). Il numero dei componenti la commissione interna era determinato con un criterio direttamente proporzionale al numero dei lavoratori occupati in ciascuna unità aziendale (in alcune aziende o gruppi erano presenti accordi migliorativi).

Il punto di forza delle commissioni interne era sicuramente il fatto di essere una rappresentanza unica e  democraticamente eletta da tutti i lavoratori mentre la debolezza della struttura è individuabile nel rischio di aziendalismo o, nella peggiore delle ipotesi, di “collaborazionismo” e per questa via della perdita dell’orientamento sindacale.

Le sezioni sindacali aziendali (sas), istituite con un percorso iniziato a metà degli anni Cinquanta e concluso con il V Congresso della Cgil del 1960, rappresentantarono una sorta di anello di congiunzione fra il movimento sindacale e la vita aziendale. Tali strutture – che non furono mai riconosciute da accordi interconfederali – ebbero, tuttavia, molte difficoltà ad assumere un ruolo ben determinato nei riguardi delle commissioni interne le quali erano presenti in quasi tutti i luoghi di lavoro venendo pertanto accettate e riconosciute dalle controparti aziendali. Le sas, quindi, assicurarono la presenza del sindacato nella fabbrica a livello organizzativo ma quasi mai politico-contrattuale, ruolo che veniva nella pratica svolto dalle commissioni interne.

Nonostante a un certo punto la Cgil cercò di dare alle sezioni sindacali aziendali (organi che non furono mai unitari) un tipo di struttura che si occupasse maggiormente della condizione operaia e che fosse realmente espressione della base – anche attraverso l’elezione diretta dei suoi membri mediante voto segreto dei lavoratori e non più nominati dal sindacato provinciale – esse si avviarono al tramonto, che arrivò alla fine degli anni Sessanta.

In quegli stessi anni il dibattito sulla democrazia sindacale (avviato dalla Fiom all’interno della confederazione), sulla necessità di avere dei rappresentanti delle confederazioni eletti direttamente dai lavoratori e non più nominati dai sindacati provinciali e, parallelamente, i cambiamenti strutturali avvenuti nell’organizzazione della produzione (con le fabbriche divise in reparti completamente autonomi gli uni dagli altri) portarono alla necessità di una rappresentanza diretta più articolata di quanto potesse essere la commissione interna. Arrivò quindi il momento dei consigli di fabbrica, strutture molto popolari negli anni della contestazione che concretizzavano il crescente movimento dei delegati. I cdf diedero alla vita sindacale in fabbrica una spinta democratica maggiore delle commissioni interne, per la maggior parte delle quali l’elezione rappresentava l’unico momento di partecipazione dei lavoratori.

Con i consigli di fabbrica – che nel Congresso del ’70 la Fiom , anticipando la Cgil , riconobbe come istanza di base del sindacato – si arrivò quindi a delineare la figura del delegato di un gruppo operaio omogeneo che veniva continuamente coinvolto dagli atti del proprio rappresentante. L’assemblea dei lavoratori – fondamentale novità introdotta dai consigli di fabbrica e conquistata dai metalmeccanici con il contratto del ’69-70 – diventerà il momento democratico più alto nell’attività sindacale in fabbrica.

Il 1970 rappresenta un punto di svolta fondamentale: il 20 maggio viene ratificata la Legge 300, nota a tutti come lo «Statuto dei lavoratori» (richiesto da Di Vittorio già al Congresso della Cgil del 1952). Con esso, tra le altre cose, vengono introdotti per legge le rappresentanze sindacali aziendali e l’Assemblea dei lavoratori. Lo Statuto sancisce un insieme dei diritti dei lavoratori dipendenti (libertà sindacali), afferma in termini di diritto la presenza del sindacato in fabbrica e vieta l’attività antisindacale.

Per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, con l’unità di Cgil, Cisl e Uil e l’avvento della Flm per la categoria dei metalmeccanici, i problemi di rappresentanza furono superati grazie alla presenza di un’unica sigla sindacale. Quando però, verso la metà degli anni Ottanta si conclude l’esperienza unitaria, viene riavviato il confronto interno alle confederazioni alla ricerca di nuovi modelli di rappresentanza (ad esempio si provò con i cars, consigli aziendali delle rappresentanze sindacali).

Per almeno un biennio furono eletti (Fiom, Cgil) e nominate (Fim, Uilm) le Rsa come da Legge 300 finché Fim, Fiom e Uilm cercarono, attraverso regolamenti interni tra loro concordati (nel 1986 e nel 1988) di realizzare una sintesi tra la forma di rappresentanza dei consigli di fabbrica e quanto stabilito dalla Legge 300 che desse garanzie di presenza alle sigle presenti nelle fabbriche.

Si arriva, quindi, nel 1991 all’intesa-quadro tra Cgil, Cisl e Uil ripresa nel 1993 dal Protocollo di luglio – sottoscritto da governo, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil – che introduce le rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), la cui composizione «…deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il Ccnl, che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti».

Questa è ancora oggi la normativa vigente – riportata in queste pagine – alla quale bisogna attenersi per eleggere le rappresentanze sindacali unitarie e regolarne lo svolgimento.