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Intervento
di Guglielmo Epifani, segretario generale della
Cgil
(intervento trascritto e non rivisto dall'autore)
Voglio cominciare questo mio intervento, con alcune
considerazioni sul quadro politico che si è delineato
dopo il recente voto. Ed è un quadro politico,
ovviamente, fortemente spostato a destra, io sono
convinto – l’avevo detto da tempo non solo a ragione
dell’andamento del voto – che ci sono due componenti in
questo spostamento a destra del quadro politico
italiano. Una di carattere generale, che non riguarda
cioè soltanto il nostro paese: se ognuno di noi prova a
vedere come sono composte le maggioranze parlamentari
nei governi dell’Unione europea allargata, vede con
chiarezza che in questi anni il numero dei paesi
governati da forze moderate è nettamente superiore ai
paesi che sono governate dalle forze di sinistra, di
centrosinistra o progressiste.
Abbiamo salutato, credo tutti con favore, l’andamento
ultimo del voto spagnolo che ha riconfermato la
maggioranza al governo guidato da Zapatero. Subito dopo
è intervenuto il voto amministrativo inglese che ha
riconfermato una tendenza generale che nei voti degli
anni scorsi si era rafforzato. Bisognerà porsi il
problema del perché l’Europa in questa fase della sua
vita politica, economica, finanziaria, tende a spostarsi
verso le forze moderate e quindi come anche da questo
punto di vista l’Italia non faccia eccezione. Io sono
arrivato a una conclusione – anche qui naturalmente
sempre discutibile – in ragione della quale tutto questo
è frutto probabilmente di una fase e di un contesto
storico piuttosto profondo. Non vedo cioè tanto
responsabilità della soggettività, che pure talvolta c’è
stata e c’è negli schieramenti progressisti, di non
essere stata all’altezza dei problemi che la società
contemporanea vive. Vedo il prevalere, proprio nei
caratteri della globalizzazione di questa fase e di
questo periodo, di tendenze, sensibilità, problemi, sui
quali la destra – con i suoi linguaggi, le sua scelte, i
suoi radicamenti – ha oggi più peso, più carte da
giocare rispetto ai valori tradizionali e nuovi delle
forze progressiste.
Pesa in modo particolare questa globalizzazione senza
regole, questa mobilità piena dei capitali, della
finanza, le delocalizzazioni aziendali, le chiusure dei
luoghi fondamentali degli insediamenti della sinistra
della classe operaia tradizionale. Pesa questo senso di
insicurezza che una globalizzazione senza regole
trasmette giorno dopo giorno sempre di più nei confronti
del cittadino. Insicurezza che vuol dire tutto,
insicurezza legata alla precarietà della condizione
lavorativa, insicurezza legata alla prospettiva del
proprio futuro, insicurezza nei confronti di quelli che
a torto sono visti come minaccia alla propria serenità.
E modelli culturali. Perché non c’è soltanto una
globalizzazione materiale che spinge a rendere più
fragile e insicura la condizione della persona che
lavora e della persona anziana. Ci sono modelli
culturali che si pongono e che diventano forti in sé e
sono modelli e disegni culturali che poggiano
sostanzialmente sull’individuo, sull’individualizzazione
spinta delle scelte, delle propensioni e anche delle
modalità per uscire dai problemi della condizione di
oggi.
Non dobbiamo arrivare al paradosso contrario e che cioè
questi processi rendono permanentemente deboli le nostre
parole d’ordine: la solidarietà, il rispetto degli
altri, il considerare l’altro come se stesso,
l’interesse generale, l’etica pubblica, i diritti
fondamentali, perché non siamo a questo passaggio. Ma
non c’è dubbio che questa insicurezza e questa
globalizzazione viene agita dalla destra cavalcando
paure che parlano al cuore della condizione più
diseredata presente in Italia e presente in Europa. E
questo rende più difficile in questa fase specifica
dello sviluppo della nostra società europea
l’affermazione dei valori, degli insediamenti delle
forze progressiste.
C’è poi per quanto riguarda il nostro paese il risultato
evidente che l’azione di governo di centro sinistra –
per come è maturata, per come si è svolta, e io dico
anche per come è finita – abbia trascinato con sé il
giudizio molto negativo, pesantemente negativo, che poi
si è riflesso nel voto dei cittadini e delle cittadine
italiane. Perché di questo noi non possiamo
dimenticarci, perché quando diciamo spostamento di
un’asse politico – vale per il paese e vale per gli
altri paesi – non dobbiamo pensare che questo accada in
ragione di un’astrazione. Questo accade in ragione del
fatto che la maggioranza dei cittadini elettori sceglie
esplicitamente le forze e i programmi delle forze di
centrodestra, è avvenuto in Europa ed è avvenuto in
Italia nell’ultima tornata elettorale. Una maggioranza
parlamentare di centrodestra implica che una maggioranza
di cittadini ha fatto proprie – per una ragione o per
l’altra – quelle scelte o quei programmi, oppure ha
pensato e continua a ritenere che in questi programmi e
in quelle scelte si potesse trovare una soluzione alla
propria condizione, ai propri problemi che altri
programmi e altri schieramenti non erano in condizione
di fare.
Io credo, riflettendo sui 18 mesi dell’esperienza del
governo Prodi, che sono stati fatti ovviamente degli
errori, delle scelte sbagliate. Talune di queste – anche
da parte nostra – non sono state indicate dopo ma sono
state indicate durante. Io credo di essere stato tra i
pochissimi che subito ha detto – anche parlando con il
Presidente del Consiglio – che 25 ministri e 100
sottosegretari e viceministri erano un numero
sproporzionato e che aver lasciato la strada della
riduzione e semplificazione dei ministeri voluta da
Bassanini era un errore. Non soltanto in rapporto alle
persone, ai cittadini che non riuscivano a capire questa
moltiplicazione di ruoli: ministro, viceministro,
sottosegretario, ma per una ragione funzionale – e
l’abbiamo vista noi – perché se un ministero come quello
del welfare e del lavoro – invece di avere un ministro
aveva competenze su 3, talvolta 4 ministri, spesso
anche in disaccordo tra di loro, tutto veniva ad essere
più difficile e tutti quei problemi che non si sono
risolti in questi 18 mesi e talvolta neanche abbozzati –
vi prego di credere – nasceva anche dal fatto che
proprio dove c’era una con testualità di più ministri
che agivano su questo tema era difficile far maturare un
tema consapevole.
Penso al tema dell’infanzia, al tema dell’assistenza, al
tema della non autosufficienza, per parlare di temi
strettamente sociali. Così come non c’è dubbio che
passata la prima impostazione, quel modello di
rivoluzione fiscale basato sulle detrazioni e non sulle
deduzioni, ha copiato – perché non era sbagliato in sé,
perché anzi in sé era più progressista come impostazione
rispetto all’utilizzo del metodo delle deduzioni – ma ha
copiato in una base imponibile che restava larga, con
l’aumento dell’imposizione fiscale di regioni e comuni,
finiva per avere un effetto moltiplicatore esattamente
per quei redditi ai quali si era garantita l’invarianza
del prelievo fiscale o addirittura il vantaggio fiscale.
E a un certo punto, giorno dopo giorno, malgrado le cose
dette nelle fabbriche, coi pensionati, arrivavamo a
vedere come con pensioni di 1.200 euro o con 1.100 al
mese si pagava di più mentre con salari – in alcune aree
del paese – con 1.000, 1.200 senza carichi familiari,
quel lavoratore e quella lavoratrice finivano per pagare
qualche decina di euro di più di tasse, mentre invece si
aspettava una riduzione. Potrei continuare, per arrivare
infine alla questione del “tesoretto”: sarà anche stata
posta tardi, ma quel balletto “c’è”, “non c’è”, e un
giorno c’era e un giorno scompariva e soprattutto lo si
affermava per rimandarlo lontano, invece di affrontare
la condizione di quella parte del paese che intanto si
impoveriva e i consumi calavano, secondo me – e non
credo di sbagliarmi – ha segnato ancora in maniera più
drastica un rapporto difficile proprio con quella parte
della rappresentanza del paese che poi è quella che noi
rappresentiamo.
Non ho controprove, naturalmente. Ma non credo di
sbagliarmi se dico che se ci avessero dato ascolto – tra
novembre e gennaio dello scorso anno – quando dicemmo
“restituite subito, usate il tesoretto a favore dei
pensionati con le pensioni più basse, a favore
lavoratori, come non a caso ha fatto Zapatero
immediatamente rieletto presidente del Consiglio in
Spagna. Non so se sarebbe cambiato risultato elettorale,
ma so che una parte della nostra gente avrebbe avuto un
motivo in più per riconsiderare la propria critica
all’azione dei comportamenti del governo di
centrosinistra.
Poi, tra tutte, io credo abbia pesato la divisione
permanente in seno alla maggioranza e al governo. Non in
sé. La storia del nostro paese è piena di governi e di
maggioranze che si sono divise, ma proprio in un momento
in cui la gente vive questo stato di insicurezza sul
proprio futuro, talvolta sul proprio presente, avere un
governo che attraverso l’insicurezza che si determinava
dalle proprie divisioni interne non dava al paese il
senso di sapere dove lo voleva portare con una linea
rispettosa del programma, del patto sottoscritto con i
cittadini, secondo me ha finito per rappresentare
l’ulteriore elemento negativo da cui si può, credo
onestamente, leggere anche l’andamento del voto.
Noi lo abbiamo provato ad analizzare il nel nostro
comitato direttivo, e avremo altre occasioni di
riflessione. Il voto dei lavoratori e dei pensionati
che cosa ci dice rispetto alle elezioni precedenti e
quelle ancora prima? Ci dice una verità che sapevamo:
che il voto dei lavoratori e dei pensionati è diventato
più mobile. Esattamente come è diventato più mobile
nella società italiana il voto dei cittadini. È dalla
fine degli anni 80, dall’inizio degli anni 90 con la
scomparsa dei grandi partiti ad appartenenza forte, a
radicamento sociale forte, che il voto delle persone che
lavorano o di coloro che stanno in pensione è diventato
più mobile. Non abbiamo scoperto oggi il voto alla Lega
nord dei tanti operai nelle aree più sviluppate del
paese. Lo aveva per primo riconosciuto l’inchiesta della
Fiom e poi quella dell’Ires. E noi sappiamo – perché poi
la storia è andata avanti e non va avanti solo in un
senso – che quel voto operaio che agli inizi degli anni
90 andò molto alla Lega poi tornò indietro, quando la
Lega ebbe responsabilità di governo, e che nel 2006 andò
in un certo modo e oggi è ritornato in un altro modo. E
la stessa cosa vale per il voto operaio, mentre si
conferma ancora oggi che la maggioranza del voto dei
lavoratori pubblici e della scuola continua ad andare
alle forze di centrosinistra ma non nella misura in cui
lo ha votato nel 2006, e che i pensionati questa volta
si sono divisi più equamente nei confronti delle forze
progressiste rispetto alle forze moderate.
Questo è il quadro politico che il voto ci consegna. Un
quadro politico europeo, un quadro politico nazionale,
un governo forte, una maggioranza più coesa di quanto
non lo fosse nelle precedenti esperienze, una
maggioranza che non vince solo nelle regioni del Nord ma
vince in maniera molto netta in tutte le regioni del
Mezzogiorno, tranne nelle due più piccole. Vince in
Campania, in Sardegna, vince ovviamente in Sicilia,
rivince in Puglia e in Calabria. Un governo che si
presenta, anche a ragione di questa sua forza
elettorale, e secondo me anche attraverso una
riflessione degli errori compiuti nelle volte
precedenti, con un tono dialogante. Come forze – l’ho
detto l’altro giorno alla conferenza della Funzione
pubblica – alla “maniera democristiana”, come forza di
governo che vuol rassicurare e mediare. E quindi un
contesto politico particolarmente impegnativo per tutti,
anche per noi: per quello che siamo, per i nostri
insediamenti, per le nostre parole d’ordine, per i
nostri programmi, per le nostre politiche di riforme e
politiche rivendicative. Naturalmente questa maggioranza
e questo governo hanno tante contraddizioni al loro
interno e sarà bene vederle, senza illusioni ma vederle
e riconoscerle. E già si vedono dai primi atti, quando
Tremonti dice che non c’è il tesoretto e poi nel
Consiglio dei ministri della prossima settimana spenderà
dai 3 ai 5 miliardi di euro, è evidente che è un modo di
utilizzare quel tesoretto. Il quale non fu speso nella
direzione della nostra piattaforma sul fisco, ma
esattamente in direzione opposta. Così come c’è
contraddizione in un governo che deve dialogare con
tutte le organizzazioni sindacali, nessuna esclusa. E
contemporaneamente, però, ovviamente non potrà che
rispettare il proprio programma in una condizione di
ristrettezza delle finanze. Però poi non ce n’è più,
perché non siamo in una fase in cui puoi ridurre l’Ici,
la tassazione sugli straordinari e poi dare le
detrazioni al lavoro dipendente, ai pensionati e poi
anche intervenire sulle tariffe e sui prezzi.
Questo per noi vuol dire una cosa semplice, che però
dobbiamo tenere ferma: noi di fronte a un governo che ha
questa forza, che ha avuto un mandato popolare così
grande, che rappresenta programmi e ambizioni che non
sono le nostre, non possiamo giocare solo di rimessa, ma
dovremo giocare con intelligenza, nelle contraddizioni
che si aprono sul terreno delle proposte, e però essere
capaci di segnare anche noi nel confronto, nelle
mobilitazioni, in quello in cui sappiamo stare in campo,
le nostre priorità e le nostre scelte.
E le nostre priorità e le nostre scelte non dobbiamo
inventarle. Noi non dobbiamo riscoprire niente. Dobbiamo
mettere assieme le cose che abbiamo chiesto al vecchio
governo senza averle ottenute e le priorità che l’azione
di questo governo può rendere più complicato. Penso in
modo particolare che dobbiamo – e lo faremo
dall’incontro della prossima settimana – rimettere al
centro la grande richiesta di un aumento delle
detrazioni fiscali per i pensionati e per il lavoro
dipendente.
Prima ricordavo Zapatero, e mi veniva in mente mentre
venivo qui oggi il segno diverso che ha un’operazione
che punta a spendere 4-5 miliardi sull’Ici e la
detassazione degli straordinari, rispetto a quello che
ha fatto Zapatero: 400 euro per cittadino e si aiuta la
proprietà non riducendo il patrimonio sugli immobili ma
aiutando i mutui delle famiglie che, in ragione della
variabilità dei tassi, non ce la fanno a sostenere gli
impegni che hanno contratto. Un’altra modalità di
sostegno alla condizione di chi non sta bene. Non a
caso, tra le contraddizioni visibili dell’azione di
governo, c’è che alcune alcune cose sono sparite. Della
condizione degli anziani e dei pensionati non ne parla
più nessuno, non si parla più di non autosufficienza –
lo dico rispetto alle nostre richieste – non si parla
più di reddito dei pensionati, non si parla più di
adeguamento del potere d’acquisto dei pensionati e non
si parla più di come intervenire per calmierare i prezzi
delle tariffe.
Io ricordo che l’esperienza passata del governo
Berlusconi, dal punto di vista del mancato controllo
della dinamica dell’inflazione, portò il paese a
riprendere in un periodo di inflazione calma a livello
internazionale, a ripartire. E avverto il rischio, tanto
più oggi, in presenza di tensioni inflazionistiche così
importanti a livello dei mercati delle materie prime,
che un governo che non avesse come sua cura quella di
mettere sotto controllo la dinamica dei prezzi,
finirebbe per accelerare quella componente
internazionale non comprimibile, aggiungendoci una
componente interna che invece dovrebbe agire nel senso
opposto.
Così come dovremmo stare molto attenti alle politiche
che il governo farà su due settori fondamentali del
diritto di cittadinanza e della condizione delle
persone: la scuola e, in modo particolare, il senso e il
segno di una scuola universale e pubblica, laica, uguale
per tutti i cittadini di questo paese. Secondo: la
sanità, nella sua qualità e nella sua universalità di
servizi.
Così come dobbiamo chiedere subito, su due questioni che
ci stanno a cuore, delle risposte. La prima: che fine
intende far fare il governo al decreto sui lavori
usuranti approvato nelle ultime settimane dal governo di
centrosinistra? Non era il testo che volevamo, ma non è
la stessa cosa se i contenuti di quel testo vengono
riproposti o vengono definitivamente cancellati. Perché
vuol dire allora, da quel punto di vista, tornare
indietro rispetto alla cosa importante che ottenemmo:
non far considerare tutti i lavori attuali rispetto alla
condizione che il lavoratore vive. E sulla sicurezza, e
su questo siamo unitariamente impegnati, dire al governo
che il decreto approvato esattamente l’ultimo giorno
della vita del precedente governo, non va cambiato, non
si può modificare. E non soltanto perché non è giusto in
sé, ma perché se è un decreto appena approvato, neanche
è entrato in vigore e magari viene modificato con una
discussione che impegnerà settimane e mesi, vuol dire
che in questo periodo noi saremo nella terra di nessuno,
dove nessuna azienda, nessun lavoratore, nessuno saprà
se il nuovo decreto si applica subito e, soprattutto, in
prospettiva deresponsabilizziamo ancora di più le
imprese dall’intervenire con propria responsabilità
attiva su questo terreno. Così come non c’è dubbio che
noi diremo con la forza necessaria che la misura che il
governo intende assumere sugli straordinari fuori da
ogni ideologia, che più giorni passano e più si rivela
confusa, pasticciata e anche per molti versi
assolutamente non utile.
Ogni giorno che passa ne leggiamo una. Oggi, un limite
di tetto di reddito: detassazione del 10% degli
straordinari per i redditi sotto i 35 mila euro. Si
legge che il settore pubblico ne sarebbe escluso. Ognuno
di questo apre contraddizioni. Pensate soltanto che
finiremmo per avere un ospedale privato in cui un
lavoratore che facesse straordinario, lo vedrebbe
tassato al 10%, e un lavoratore di un ospedale pubblico
che fa lo straordinario non avrebbe lo stesso risultato.
Oppure un asilo nido privato, in cui i lavoratore che fa
lo straordinario avrebbe quel vantaggio e un lavoratore
di un asilo nido pubblico che non lo avrebbe.
Oltre tutte le contraddizioni che qui sono state dette,
si incentiverebbe l’orario individuale, si finirebbero
per far saltare gli accordi di flessibilità che sono
stati fatti, si aprirebbe inevitabilmente un problema di
reddito tra uomo e donna, stante le diverse possibilità
di accesso a questo finirebbe per aprire – diciamo la
verità – una rincorsa salariale nel modo peggiore
all’interno delle aziende, sapendo che abbiamo
ovviamente settori importanti nel mondo del lavoro che
hanno lo straordinario forfettizzato e ci sono settori
in cui lo straordinario, nei limiti del contratto, è
possibile.
Infine l’ultima cosa che dovremmo dire con forza al
governo è che deve stare attento a come coniuga la
giusta domanda di sicurezza con alcune fondamentali
questioni di diritto, di rispetto dei diritti umani e
dei doveri dell’ospitalità, fra tutte penso che dovremmo
dire “no” con forza alla richiesta di introdurre il
reato di clandestinità per le persone migranti che
vengono a lavorare nel nostro paese, così come dice
l’Unione europea e così come dicono gli osservatori più
avveduti.
E cosa ci chiede inoltre questo quadro politico? Io
credo che ci chieda di tenere fermo un lavoro unitario
tra le grandi organizzazioni sindacali confederali.
Proprio la forza di questo insediamento di governo e le
idee e i modelli di società che ha, ci portano a tenere
un rapporto unitario con le altre organizzazioni
sindacali. Perché sui grandi temi abbiamo elementi
comuni che sarebbe sbagliato non far pesare se non con
un fronte comune.
Il documento unitario sulla riforma della contrattazione
e della democrazia che i tre direttivi unitari hanno
approvato, non nasce da oggi. Vedete, mi sono sentito
dire in questi 4-5 anni che io avrei frenato sempre
tutto, perché mi alzai dal tavolo per il fatto che le
cose che avevamo definito con Montezemolo poi non furono
rispettate. Montezemolo si lamenta del fatto che la Cgil
si sia alzata dal tavolo, ma si scorda di aggiungere che
quel tavolo doveva avere come cuore del suo confronto i
temi del Mezzogoirno e della politica industriale, non
quelli della politica contrattuale. E perché? Perché io
ho sempre tenuto, la Cgil ha sempre tenuto ferma
un’opinione indiscutibile di modello contrattuale se
prima non c’è una posizione di Cgil, Cisl, Uil per
affrontare questi temi.
Questo è stato il tema che ci ha tenuti fermi su questa
posizione. E, per le scelte del nostro congresso, non
bastava una posizione comune sulle politiche del modello
contrattuale perché noi avevamo chiesto a Cisl e Uil di
avere un punto di vista condiviso sui temi della
rappresentatività e della democrazia sindacale. E ho
sempre, abbiamo sempre detto che senza un accordo sulla
democrazia non ci sarebbe mai stata un’intesa sul
modello contrattuale. Oggi ci troviamo di fronte a un
testo che per la prima volta da anni ci consente un
approdo unitario al modello della democrazia e della
rappresentatività. E io credo che questo sia un passo
importante.
Ho sentito nella discussione, in quello che ha detto
nella relazione di Rinaldini, che lui ha detto anche al
Cd forte preoccupazione e contrarietà. Io devo dire che
non condivido una parte dellel documento la lettura che
qui viene data. E lo voglio dire con franchezza,
pacatamente ma con determinazione, provando ad
argomentare punto per punto il perché il documento
contiene scelte che non ritrovo nelle critiche che sono
state fatte qui.
Si dice che il primo livello di contrattazione, il
contratto nazionale, ne uscirebbe depotenziato, io sono
convinto esattamente del contrario. Sia assumendo come
riferimento il 23 luglio, sia assumendo come riferimento
quello che è avvenuto negli anni di contrattazione. C’è
soprattutto un’affermazione inequivoca all’inizio della
definizione del primo livello, che io credo vada
apprezzata per quello che esprime, perché quando si dice
che il livello del contratto nazionale è quello che deve
garantire nei fatti – traduco – la sinteticità del testo
“l’universalità dei diritti” e il fatto che quel
contratto, nelle sue norme, nelle sue condizioni, valga
per ogni azienda del paese, per ogni azienda del paese
in quel settore e per ogni parte del paese, c’è
un’affermazione fortissima del valore unitario del
contratto nazionale. Esattamente quello che la compagna
Marano qui chiedeva: un contratto che mi valga per
Milano e mi valga per Palermo, in un’affermazione
esplicita contenuta nella premessa della valutazione del
testo.
Così come il fatto che non ci sia più soltanto la parola
“difesa” del salario, ma “valorizzazione e sostegno”
vorrà pure dire qualcosa. E provo a chiarire quello che
vuole dire, che sono sostanzialmente tre cose.
La prima. Quando noi assumiamo quel termine – sul quale
ho visto qualche esercizio di critica – “inflazione
realisticamente prevedibile”, con gli indicatori che
sono stati approntati, vuol dire una cosa semplice: che
i futuri contratti, qualora quel testo diventasse
l’accordo, almeno nelle intenzioni di Cgil, Cisl, Uil,
abbandonano l’inflazione programmata, che però c’è
ancora nel testo non disdettato dell’accordo del 23
luglio, e non assume l’inflazione del paniere Istat per
impiegati e operai, ma pone due riferimenti oggettivi –
non soggettivi – come il deflatore dei consumi interni o
l’indice armonizzato europeo corretto con il peso dei
mutui, che vogliono dire una cosa precisa, e cioè si
assume un’indicatore dell’inflazione che rispetto a
quelli che l’Istat ha usato fino a oggi è molto più
sensibile alla crescita dei prezzi dei beni e dei
consumi. Per capirci, è molto più favorevole di quello
che fino ad oggi anche noi, superando il 23 luglio,
abbiamo adottato. Secondo. Nel momento in cui il
contratto nazionale diventa e si conferma – forse ancora
di più rispetto al passato – sovraordinato anche nelle
materie regolative e normative rispetto al passato e al
23 luglio, è evidente che tutti i costi della parte
normativa non sono confutabili come era nel 23 luglio
addirittura dentro l’indicatore dell’inflazione
programmata.
Terzo. Si assume prendendolo dalla vostra esperienza ma
anche da quella di altre categorie, ma rendendola
parzialmente diversa, la possibilità che il contratto
nazionale per tutte le aziende – non soltanto quindi per
quelle che non fanno contrattazione – definisca uno
zoccolo, una base per tutti, sulla quale poi sviluppare
e aggiungere la contrattazione di secondo livello.
Quarto. Rispetto a quell’indicatore di cui parlavamo
prima, l’accordo prevede un recupero in tempi certi, non
abbiamo specificato lo strumento, ma è chiara la scelta
e l’indicazione che il testo contiene. Aggiungo anche –
perché so che anche questo è un tema della discussione –
che quando nel testo si dice che bisogna rafforzare le
sedi di confronto tra le parti sulle dinamiche
dell’economia generale e sulle dinamiche dei settori,
vuol dire (così come non io ma Raffaele Bonanni ha detto
ai tre comitati direttivi) che nel caso in cui i settori
– nell’andamento ciclico dell’economia e nelle diversità
dei settori – avessero forti incrementi di produttività
e di crescita, che una quota di produttività ovviamente
può essere spesa anche al primo livello.
Aggiungo infine – e vi prego di seguirmi su questo
passaggio, perché capisco che sia delicato ma credo
anche importante – che un problema che avremo nei
prossimi anni, per una fase non breve ma non sappiamo
dire quanto lunga, è probabilmente un andamento
dell’inflazione a salire e con difficoltà di
prevedibilità. Questo perché siamo entrati in una fase
in cui – con l’aumento delle materie prime, che va dal
dal pane fino ai prodotti petroliferi – diventerà più
difficile avere un quadro certo. Probabilmente non
avremo un’inflazione a 2, 2,2 o 2,3%, ma di più. Ma se è
così, se il cuore fondamentale della redistribuzione è
esattamente al contrario dell’impostazione del 23
luglio, non è fare una programmazione dell’inflazione
che gioca d’anticipo per ridurre l’inflazione attesa… ma
è esattamente quella di recuperare integralmente
l’inflazione. E il contratto nazionale pesa di più oggi,
in questa’impostazione, proprio perché avremo di fronte
a noi un’inflazione di questo valore e di questo
significato.
Aggiungo anche, rispetto a preoccupazioni che c’erano
rispetto alla prima stesura, che nel testo non ci sarà
nulla che parla di deroghe alla contrattazione. È
esattamente il contrario: dove si parla di rapporto tra
il primo e il secondo livello si dice che il secondo
livello dovrà migliorare il primo livello.
Anche sul secondo livello ho ascoltato le obiezioni che
sono state fatte. Però consentitemi di dire che il
documento non dice questo. Il secondo livello viene
definito come accrescitivo. Rinaldini usa un altro
termine, che però gli assomiglia: “livello acquisitivo”.
Non viene da nessuna parte postulato come generalizzato
il premio variabile. Si parla di diversi indicatori, di
diverse possibilità. Compresa la qualità degli
investimenti. C’è un paniere di riferimento di
indicatori molto più ricco, perché? Perché è la
situazione della contrattazione, è molto più vasta e
molto più diffusa.
Voglio anche aggiungere, perché vedo che non se ne
parla, che quando noi poniamo il problema dei tempi dei
rinnovi, della funzione che non è piena dell’indennità
sostitutiva, del rapporto che c’è tra quando scade il
vecchio e il nuovo contratto e dei periodi vuoti in
mezzo, unitariamente si vuol porre l’attenzione sull
fatto che la crescita del potere d’acquisto non si ha
soltanto se scrivi una cifra lì, ma ce l’hai soltanto se
scrivi una cifra lì e le modalità con cui la capienza
piena di questi aumenti vive nel periodo, ti consente di
recuperare il potere d’acquisto o meno.
Perché tu puoi perdere potere d’acquisto anche chiedendo
di più ma facendo scaglionamenti o ritardi o slittamenti
che poi ti portano ad avere alla fine di più ma ad aver
perso nel periodo un montante retributivo e salariale
molto forte. Io penso che anche il secondo livello,
nelle modalità con cui è scritto, l’azienda, il sito, la
filiera, il territorio per dove non si fa contrattazione
aziendale, sia la modalità più corretta che renda conto
delle diversità delle esperienze che sono in campo.
Infine, la democrazia e la rappresentatività. Io credo
che ci sarà un motivo se molti han detto che da questo
punto di vista il documento rappresenta un salto in
avanti importante. Io credo che sia così. È da vent’anni
che la Cgil ha detto alla Cisl e alla Uil di assumere un
orientamento comune in base al quale gli accordi
sottoscritti, prima di diventare firmati effettivamente,
siano sottoposti al voto dei lavoratori e dei
pensionati. Lo abbiamo fatto nel ’93, lo abbiamo fatto
sul welfare, ma non abbiamo mai raggiunto un’intesa in
cui questo aspetto fosse chiarito con la forza nella
quale è emersa in questo documento. E, giustamente, è
stato fatto osservare che neanche quando c’era la
gloriosa federazione Cgil, Cisl, Uil, in materia di
democrazia, c’è mai stato un documento unitario che
contenesse quello che, su questo aspetto, il documento
propone.
Io lo so che per la vostra esperienza è un dire: “noi lo
facciamo già”. Però vi prego di credere che per gli
accordi confederali non è stato così: ogni volta te lo
sei dovuto conquistare. E vi prego di credere che per
tante altre strutture o categorie, questo ancora oggi
non avviene. Quando si afferma nel testo che a questi
criteri fondamentali debbono uniformarsi anche i
comportamenti delle categorie, vuol dire che né più né
meno che l’impegno che prendono Cgil, Cisl e Uil da oggi
in poi, è che in tutte le strutture, di fronte ad
accordi che hanno carattere generale, l’ultima parola
spetta nel caso specifico ai lavoratori e ai pensionati
rispetto alle materie e alle situazioni.
Aggiungo anche che le norme in materia di
rappresentatività non sono poco significative. Aver
provato per la prima volta a mettere un po’ di
trasparenza per tutti, anche per noi, a provare a
verificare se il mix tra le iscrizione certificate e il
voto, potessero essere un problema al nodo che dai tempi
dello Statuto ci portiamo dietro, di come si misura la
rappresentatività, è un altro passo in avanti
importante. È un atto di trasparenza, di autoriforma. Lo
stesso ragionamento contenuto nella relazione Francesca,
sulle deleghe, sul rinnovo senza o accompagnato da
questo processo di trasparenza, avrebbe un peso e un
significato ancora più pieno.
E io credo che sia un altro passaggio importante perché
superiamo quella tautologia che c’era nello Statuto dei
lavoratori: chi tratta? I sindacati maggiormente
rappresentativi. Chi sono quelli maggiormente
rappresentativi? Oggi si definisce su una base il più
possibile certa, c’è un percorso, ci sono degli
strumenti, ci sono delle sedi, dei criteri seri che
vengono proposti, una riforma della rappresentatività
delle grandi organizzazioni. E questo consentirà a tutti
di non dire che si rappresentano milioni di persone
quando magari si rappresentano centinaia di migliaia di
lavoratori. E nessuno si potrà arrogare il diritto di
poter parlare senza che il fondamento della propria
rappresentanza sia stato verificato e definito. Questo è
uno di quei processi di riforma dei corpi e della
rappresentanza sociale e civile che da tanto avevamo
chiesto. E se un problema c’è, questo problema è che non
può riguardare solo il sindacato, perché è un problema
di misurazione della rappresentatività così come il
sindacato lo propone. Se lo devono porre tutti: le
associazioni dei consumatori, le associazioni che
operano a tutela di interessi, il sistema delle imprese,
è una sfida che noi possiamo lanciare al sistema delle
imprese a proposito di lezioni sulla trasparenza e la
veridicità sui dati associativi che ci riguardano.
Su quello che c’è scritto nel testo abbiamo deciso di
fare correttamente una fase di confronto e di
discussione, di verifica, in tutti i posti di lavoro e
tra i pensionati. Con una registrazione degli andamenti
delle assemblee perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo
bisogno di questa relazione democratica, non come fatto
occasionale, ma come fatto permanente. E ne abbiamo
bisogno perché il confronto su questi temi sarà duro,
sarà duro.
Ho detto l’altro giorno e lo ripeto qui – non ho paura
di dire una cosa che penso: il problema di questa
piattaforma non è che è troppo bassa, il problema vero
di questa piattaforma è che incrocia dal governo al
sistema delle imprese opposizioni, opinioni. Sono state
dette nelle assemblee, viste, le leggiamo tutti i
giorni… Lo sappiamo tutti i giorni… vanno in una
direzione diametralmente opposta tra chi vuole il
contratto nazionale forte solo per togliere potere alle
Rsu e chi lo vuole invece così debole perché in ogni
azienda si possa fare quello che si vuole, tra chi vuole
– non si chiamano più gabbie salariali ma contratti
differenziati per territorio. Montezemolo ha detto tra
Nord e Sud, per esprimere esattamente un concetto
preciso di cosa invece vogliono dire le gabbie
salariali.
Sarà difficile, perché un governo che non rinnova i
contratti pubblici è un interlocutore particolarmente
difficile, come sarà difficile la nuova Confindustria e
saranno difficili una serie di controparti a partire
dalla Confcommercio che, ancora oggi, nega il contratto
di lavoro alla sua categoria più grande: quella dei
lavoratori del commercio.
In ragione di questo io credo che noi non avremmo
bisogno di un dissenso tra di noi.
Lo dico onestamente e sinceramente – come son capace io
– proprio di fronte al merito che io valuto
positivamente questa piattaforma e alle difficoltà delle
nostre controparti, noi avremmo bisogno di una forza
unitaria, non solo nostra, ma di tutto il movimento
sindacale. Perché naturalmente la sfida che abbiamo di
fronte è particolarmente difficile. E vedete, proprio in
queste ore due conferenze d’organizzazione di due
categorie un po’ agli antipodi hanno chiuso
unitariamente i loro lavori proprio su questo punto.
Anche quello del modello contrattuale. La conferenza
d’organizzazione della Funzione pubblica, la conferenza
d’organizzazione di una delle categorie che ha il
maggior numero di operai nel nostro paese: operai
agricoli e operai alimentaristi. Hanno chiuso i loro
lavori con un documento e con un’impostazione che assume
il quadro delle difficoltà di merito che sono state
proposte. Naturalmente io capisco un’altra discussione,
la leggo, l’ho visto: negli interventi vostri, in quello
che ho ascoltato, il contesto, il quadro, le difficoltà,
la durezza delle nostre controparti, lo dobbiamo fare
adesso, perché questa è la vera discussione.
Voglio dire un’ultima cosa: noi abbiamo bisogno in
queste condizioni di ritessere un modello unitario per
il mondo del lavoro, e siccome il quadro di fronte a noi
è così difficile e siccome potremmo non farcela sarebbe
meglio non provarci. Questo è il tema. Questa è la
questione. Riconosco che questo è un punto vero, spesso
anche nelle nostre discussioni, e ci ho riflettuto a
lungo anch’io. Ho rivisto il documento conclusivo del
nostro congresso, quello unitario. Se lo andiamo a
rielggere viene riconfermato con forza la necessità di
avere un modello contrattuale unitario per tutte le
lavoratrici e i lavoratori del nostro paese. E io penso
che questo obiettivo noi lo dobbiamo tenere vivo,
aperto, e perseguire in ogni contesto di fronte a noi.
Anche quando sembra tutto più difficile, per una ragione
semplice: io qui trovo la risposta al problema che noi
abbiamo tra un modello vecchio – il 23 luglio – che
abbiamo tirato da tutte le parti ma appunto perché l’hai
tirato da tutte le parti ormai non c’è più e l’assenza
di modelli. Io credo che noi dobbiamo seriamente,
serenamente, con le preoccupazioni ma senza paura,
provare a riconquistare un modello unitario. Se noi non
ce la facessimo, o se noi non provassimo a farlo, il
risultato non ci lascerebbe così come siamo. Perché
quello che oggi è fondamentale in un’economia di mercato
fatta dall’assenza di regole è esattamente ri-regolare
una parte delle condizioni nelle quali il lavoro oggi si
rappresenta.
Abbiamo bisogno noi di un modello unitario, in assenza
di un modello unitario e risultato definito avremmo una
situazione per i pubblici, una situazione per i
meccanici, una situazione per i chimici, una situazione
per il commercio, una situazione per l’agricoltura con
uno shopping contrattuale in cui noi non decideremo più
niente. E saranno le aziende a scegliere quello che
vogliono dalle diverse soluzioni che i rapporti di forza
determineranno. E siccome il modello serve non a
imbrigliare le categorie più forti – perché non lo è mai
stato nel medio periodo – ma a sostenere chi ha più
problemi a rinnovare i contratti, io credo che sia un
imperativo, nella logica e nei valori che ha il
sindacato confederale, che noi ci proviamo anche nelle
condizioni difficili che abbiamo di fronte a noi.
Questo è il lavoro che dobbiamo fare. Senza modello
unitario – uso qui un’espressione che talvolta Gianni
[Rinaldini] usa – avremmo, allora sì, un sindacato di
mercato, nel senso di un sindacato che vive tanti
modelli quanti sono i mercati di impresa, i mercati di
settore, i mercati di riferimento, che a quel punto si
imporrebbero.
Naturalmente sono invece d’accordo con tutte le compagne
e i compagni che hanno posto un problema vero: come
contrattare di più e contrattare meglio, come utilizzare
la riforma anche della nostra rappresentanza a partire
dai delegati per avere un rapporto più stretto tra
controllo delle condizioni e contrattazione. E voglio
anche dire che il problema di fondo tra il contratto
nazionale e il contratto di secondo livello è che –
ovviamente – svolgono due funzioni complementari,
essenziali l’una all’altra e viceversa. Perché senza un
contratto forte fai fatica ad avere contrattazione di
qualità e senza contrattazione decentrata di qualità fai
più fatica ad avere un contratto forte. Questo è
l’equilibrio che credo ognuno possa convenire.
Ma c’è un punto però – fermo restando questa verità, che
è la verità che dobbiamo tenere dentro di noi – sul
quale non possiamo non convenire a sua volta: che un
sindacato è forte se ricostruisce dal basso le sue
presenze, le sue rappresentanze, le sue radici. La
nostra forza, quello che ci fa forti in alto è quello
che giorno dopo giorno conquistiamo e strappiamo nei
luoghi di lavoro e nel territorio. Ed è questo il senso
profondo della nostra conferenza di organizzazione.
Io penso che, in ragione di questo e rispettando tutte
le opinioni che ci sono in campo, possa rappresentare un
problema il fatto una grande struttura quale voi siete,
la più grande struttura nel settore dell’industria possa
avere sulla piattaforma delle modalità che poi si
avranno, un orientamento diverso. Ma non perché sogno o
immagino una Cgil in cui non si possa liberamente
decidere ed esprimersi. No, dal punto di vista della
forza e della coesione di cui avremmo bisogno per un
confronto così forte e così delicato. E perché da
persona sincera e onesta quale io sono, so anche che ci
sono delle conseguenze: perché se non si è d’accordo su
una piattaforma diventerà difficile – eventualmente ci
si arrivasse – essere d’accordo sull’accordo. E se non
si è convinti di una mediazione unitaria si farà uno
sforzo – lo so, lo farete – per sostenere questo lavoro.
Ma se non si è convinti dentro sarà poi difficile fare
un fronte comune.
Questo per me rappresenta anche un problema personale.
Perché? Perché mi sono battuto, e mi batterò, perché
quel documento, quella prospettiva possa avere il
consenso convinto più ampio. Rispetterò l’opinione
contraria, ma voglio – con la chiarezza necessaria che è
nelle fasi difficili e con le parole oneste che spero
potrete apprezzare anche avendo, per chi la ha,
un’opinione diversa – dirla esattamente come la penso:
non era questo, non su questo il tempo della divisione
tra di noi.
Rispetterò qualora facciate questa scelta, ma devo dire
che sarebbe stato meglio per tutti una scelta diversa.
Rispetterò qualsiasi scelta, mi assumerò la
responsabilità nell’ambito delle mie prerogative e di
quel lavoro di collegialità che nella Cgil è, anche in
condizioni difficili, fare il meglio per tutti. E so, e
me lo dice la relazione di Rinaldini, che su questo
potrò e potremo contare sulla Fiom. Per questo proviamo
a lavorare assieme, ragionando gli uni sugli altri,
sulle cose dette, su quello che ho ascoltato, che mi
sento di dirvi con la chiarezza di cui sono capace e
proviamo a ragionare che nella fase lunga che abbiamo di
fronte, quando sono in ballo destini e problemi di
questa complessità e di questa delicatezza, che talvolta
restare uniti è meglio che avere una scelta diversa. E
vale per tutti, vale per me e vale per chi non la pensa
come me. Io mi atterrò sempre a questo criterio:
lavorare per ricomporre, mai per dividere. Lavorare per
avere più forza, mai per avere meno forza; perché poi al
dunque un modello contrattuale è sempre un modello
contrattuale, quello che conta sarà poi come le
politiche contrattuali, la gente in carne e ossa, i
nostri delegati, le nostre strutture, sapranno – dentro
i precorsi che avremo – comportarsi con la
responsabilità che sanno e che io so non mancherà in
nessun passaggio.
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