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						Intervento 
						di Guglielmo Epifani, segretario generale della 
						Cgil 
						(intervento trascritto e non rivisto dall'autore) 
						
						Voglio cominciare questo mio intervento, con alcune 
						considerazioni sul quadro politico che si è delineato 
						dopo il recente voto. Ed è un quadro politico, 
						ovviamente, fortemente spostato a destra, io sono 
						convinto – l’avevo detto da tempo non solo a ragione 
						dell’andamento del voto – che ci sono due componenti in 
						questo spostamento a destra del quadro politico 
						italiano. Una di carattere generale, che non riguarda 
						cioè soltanto il nostro paese: se ognuno di noi prova a 
						vedere come sono composte le maggioranze parlamentari 
						nei governi dell’Unione europea allargata, vede con 
						chiarezza che in questi anni il numero dei paesi 
						governati da forze moderate è nettamente superiore ai 
						paesi che sono governate dalle forze di sinistra, di 
						centrosinistra o progressiste.  
						
						Abbiamo salutato, credo tutti con favore, l’andamento 
						ultimo del voto spagnolo che ha riconfermato la 
						maggioranza al governo guidato da Zapatero. Subito dopo 
						è intervenuto il voto amministrativo inglese che ha 
						riconfermato una tendenza generale che nei voti degli 
						anni scorsi si era rafforzato. Bisognerà porsi il 
						problema del perché l’Europa in questa fase della sua 
						vita politica, economica, finanziaria, tende a spostarsi 
						verso le forze moderate e quindi come anche da questo 
						punto di vista l’Italia non faccia eccezione. Io sono 
						arrivato a una conclusione – anche qui naturalmente 
						sempre discutibile – in ragione della quale tutto questo 
						è frutto probabilmente di una fase e di un contesto 
						storico piuttosto profondo. Non vedo cioè tanto 
						responsabilità della soggettività, che pure talvolta c’è 
						stata e c’è negli schieramenti progressisti, di non 
						essere stata all’altezza dei problemi che la società 
						contemporanea vive. Vedo il prevalere, proprio nei 
						caratteri della globalizzazione di questa fase e di 
						questo periodo, di tendenze, sensibilità, problemi, sui 
						quali la destra – con i suoi linguaggi, le sua scelte, i 
						suoi radicamenti – ha oggi più peso, più carte da 
						giocare rispetto ai valori tradizionali e nuovi delle 
						forze progressiste.  
						
						Pesa in modo particolare questa globalizzazione senza 
						regole, questa mobilità piena dei capitali, della 
						finanza, le delocalizzazioni aziendali, le chiusure dei 
						luoghi fondamentali degli insediamenti della sinistra 
						della classe operaia tradizionale. Pesa questo senso di 
						insicurezza che una globalizzazione senza regole 
						trasmette giorno dopo giorno sempre di più nei confronti 
						del cittadino. Insicurezza che vuol dire tutto, 
						insicurezza legata alla precarietà della condizione 
						lavorativa, insicurezza legata alla prospettiva del 
						proprio futuro, insicurezza nei confronti di quelli che 
						a torto sono visti come minaccia alla propria serenità.
						 
						
						E modelli culturali. Perché non c’è soltanto una 
						globalizzazione materiale che spinge a rendere più 
						fragile e insicura la condizione della persona che 
						lavora e della persona anziana. Ci sono modelli 
						culturali che si pongono e che diventano forti in sé e 
						sono modelli e disegni culturali che poggiano 
						sostanzialmente sull’individuo, sull’individualizzazione 
						spinta delle scelte, delle propensioni e anche delle 
						modalità per uscire dai problemi della condizione di 
						oggi.  
						
						Non dobbiamo arrivare al paradosso contrario e che cioè 
						questi processi rendono permanentemente deboli le nostre 
						parole d’ordine: la solidarietà, il rispetto degli 
						altri, il considerare l’altro come se stesso, 
						l’interesse generale, l’etica pubblica, i diritti 
						fondamentali, perché non siamo a questo passaggio. Ma 
						non c’è dubbio che questa insicurezza e questa 
						globalizzazione viene agita dalla destra cavalcando 
						paure che parlano al cuore della condizione più 
						diseredata presente in Italia e presente in Europa. E 
						questo rende più difficile in questa fase specifica 
						dello sviluppo della nostra società europea 
						l’affermazione dei valori, degli insediamenti delle 
						forze progressiste.  
						
						C’è poi per quanto riguarda il nostro paese il risultato 
						evidente  che l’azione di governo di centro sinistra – 
						per come è maturata, per come si è svolta, e io dico 
						anche per come è finita – abbia trascinato con sé il 
						giudizio molto negativo, pesantemente negativo, che poi 
						si è riflesso nel voto dei cittadini e delle cittadine 
						italiane. Perché di questo noi non possiamo 
						dimenticarci, perché quando diciamo spostamento di 
						un’asse politico – vale per il paese e vale per gli 
						altri paesi – non dobbiamo pensare che questo accada in 
						ragione di un’astrazione. Questo accade in ragione del 
						fatto che la maggioranza dei cittadini elettori sceglie 
						esplicitamente le forze e i programmi delle forze di 
						centrodestra, è avvenuto in Europa ed è avvenuto in 
						Italia nell’ultima tornata elettorale. Una maggioranza 
						parlamentare di centrodestra implica che una maggioranza 
						di cittadini ha fatto proprie – per una ragione o per 
						l’altra – quelle scelte o quei programmi, oppure ha 
						pensato e continua a ritenere che in questi programmi e 
						in quelle scelte si potesse trovare una soluzione alla 
						propria condizione, ai propri problemi che altri 
						programmi e altri schieramenti non erano in condizione 
						di fare. 
						
						Io credo, riflettendo sui 18 mesi dell’esperienza del 
						governo Prodi, che sono stati fatti ovviamente degli 
						errori, delle scelte sbagliate. Talune di queste – anche 
						da parte nostra – non sono state indicate dopo ma sono 
						state indicate durante. Io credo di essere stato tra i 
						pochissimi che subito ha detto – anche parlando con il 
						Presidente del Consiglio – che 25 ministri e 100 
						sottosegretari e viceministri erano un numero 
						sproporzionato e che aver lasciato la strada della 
						riduzione e semplificazione dei ministeri voluta da 
						Bassanini era un errore. Non soltanto in rapporto alle 
						persone, ai cittadini che non riuscivano a capire questa 
						moltiplicazione di ruoli: ministro, viceministro, 
						sottosegretario, ma per una ragione funzionale – e 
						l’abbiamo vista noi – perché se un ministero come quello 
						del welfare e del lavoro – invece di avere un ministro 
						aveva  competenze su 3, talvolta 4 ministri, spesso 
						anche in disaccordo tra di loro, tutto veniva ad essere 
						più difficile e tutti quei problemi che non si sono 
						risolti in questi 18 mesi e talvolta neanche abbozzati – 
						vi prego di credere – nasceva anche dal fatto che 
						proprio dove c’era una con testualità di più ministri 
						che agivano su questo tema era difficile far maturare un 
						tema consapevole.  
						
						Penso al tema dell’infanzia, al tema dell’assistenza, al 
						tema della non autosufficienza, per parlare di temi 
						strettamente sociali. Così come non c’è dubbio che 
						passata la prima impostazione, quel modello di 
						rivoluzione fiscale basato sulle detrazioni e non sulle 
						deduzioni, ha copiato – perché non era sbagliato in sé, 
						perché anzi in sé era più progressista come impostazione 
						rispetto all’utilizzo del metodo delle deduzioni – ma ha 
						copiato in una base imponibile che restava larga, con 
						l’aumento dell’imposizione fiscale di regioni e comuni, 
						finiva per avere un effetto moltiplicatore esattamente 
						per quei redditi ai quali si era garantita l’invarianza 
						del prelievo fiscale o addirittura il vantaggio fiscale. 
						
						E a un certo punto, giorno dopo giorno, malgrado le cose 
						dette nelle fabbriche, coi pensionati, arrivavamo a 
						vedere come con pensioni di 1.200 euro o con 1.100 al 
						mese si pagava di più mentre con salari – in alcune aree 
						del paese – con 1.000, 1.200 senza carichi familiari, 
						quel lavoratore e quella lavoratrice finivano per pagare 
						qualche decina di euro di più di tasse, mentre invece si 
						aspettava una riduzione. Potrei continuare, per arrivare 
						infine alla questione del “tesoretto”: sarà anche stata 
						posta tardi, ma quel balletto “c’è”, “non c’è”, e un 
						giorno c’era e un giorno scompariva e soprattutto lo si 
						affermava per rimandarlo lontano, invece di affrontare 
						la condizione di quella parte del paese che intanto si 
						impoveriva e i consumi calavano, secondo me – e non 
						credo di sbagliarmi – ha segnato ancora in  maniera  più 
						drastica un rapporto difficile proprio con quella parte 
						della rappresentanza del paese che poi è quella che noi 
						rappresentiamo.  
						
						Non ho controprove, naturalmente. Ma non credo di 
						sbagliarmi se dico che se ci avessero dato ascolto – tra 
						novembre e gennaio dello scorso anno – quando dicemmo 
						“restituite subito, usate il tesoretto a favore dei 
						pensionati con le pensioni più basse, a favore 
						lavoratori, come non a caso ha fatto Zapatero 
						immediatamente rieletto presidente del Consiglio in 
						Spagna. Non so se sarebbe cambiato risultato elettorale, 
						ma so che una parte della nostra gente avrebbe avuto un 
						motivo in più per riconsiderare la propria critica 
						all’azione dei comportamenti del governo di 
						centrosinistra.  
						
						Poi, tra tutte, io credo abbia pesato la divisione 
						permanente in seno alla maggioranza e al governo. Non in 
						sé. La storia del nostro paese è piena di governi e di 
						maggioranze che si sono divise, ma proprio in un momento 
						in cui la gente vive questo stato di insicurezza sul 
						proprio futuro, talvolta sul proprio presente, avere un 
						governo che attraverso l’insicurezza che si determinava 
						dalle proprie divisioni interne non dava al paese il 
						senso di sapere dove lo voleva portare con una linea 
						rispettosa del programma, del patto sottoscritto con i 
						cittadini, secondo me ha finito per rappresentare 
						l’ulteriore elemento negativo da cui si può, credo 
						onestamente, leggere anche l’andamento del voto. 
						
						Noi lo abbiamo provato ad analizzare il nel nostro 
						comitato direttivo, e avremo altre occasioni di 
						riflessione. Il voto dei lavoratori e dei  pensionati 
						che cosa ci dice rispetto alle elezioni precedenti e 
						quelle ancora prima? Ci dice una verità che sapevamo: 
						che il voto dei lavoratori e dei pensionati è diventato 
						più mobile. Esattamente come è diventato più mobile 
						nella società italiana il voto dei cittadini. È dalla 
						fine degli anni 80, dall’inizio degli anni 90 con la 
						scomparsa dei grandi partiti ad appartenenza forte, a 
						radicamento sociale forte, che il voto delle persone che 
						lavorano o di coloro che stanno in pensione è diventato 
						più mobile. Non abbiamo scoperto oggi il voto alla Lega 
						nord dei tanti operai nelle aree più sviluppate del 
						paese. Lo aveva per primo riconosciuto l’inchiesta della 
						Fiom e poi quella dell’Ires. E noi sappiamo – perché poi 
						la storia è andata avanti e non va avanti solo in un 
						senso – che quel voto operaio che agli inizi degli anni 
						90 andò molto alla Lega poi tornò indietro, quando la 
						Lega ebbe responsabilità di governo, e che nel 2006 andò 
						in un certo modo  e oggi è ritornato in un altro modo. E 
						la stessa cosa vale per il voto operaio, mentre si 
						conferma ancora oggi che la maggioranza del voto dei 
						lavoratori pubblici e della scuola continua ad andare 
						alle forze di centrosinistra ma non nella misura in cui 
						lo ha votato nel 2006, e che i pensionati questa volta 
						si sono divisi più equamente nei confronti delle forze 
						progressiste rispetto alle forze moderate.  
						
						Questo è il quadro politico che il voto ci consegna. Un 
						quadro politico europeo, un quadro politico nazionale, 
						un governo forte, una maggioranza più coesa di quanto 
						non lo fosse nelle precedenti esperienze, una 
						maggioranza che non vince solo nelle regioni del Nord ma 
						vince in maniera molto netta in tutte le regioni del 
						Mezzogiorno, tranne nelle due più piccole. Vince in 
						Campania, in Sardegna, vince ovviamente in Sicilia, 
						rivince in Puglia e in Calabria. Un governo che si 
						presenta, anche a ragione di questa sua forza 
						elettorale, e secondo me anche attraverso una 
						riflessione degli errori compiuti nelle volte 
						precedenti, con un tono dialogante. Come forze – l’ho 
						detto l’altro giorno alla conferenza della Funzione 
						pubblica – alla “maniera democristiana”, come forza di 
						governo che vuol rassicurare e mediare. E quindi un 
						contesto politico particolarmente impegnativo per tutti, 
						anche per noi: per quello che siamo, per i nostri 
						insediamenti, per le nostre parole d’ordine, per i 
						nostri programmi, per le nostre politiche di riforme e 
						politiche rivendicative. Naturalmente questa maggioranza 
						e questo governo hanno tante contraddizioni al loro 
						interno e sarà bene vederle, senza illusioni ma vederle 
						e riconoscerle. E già si vedono dai primi atti, quando 
						Tremonti dice che non c’è il tesoretto e poi nel 
						Consiglio dei ministri della prossima settimana spenderà 
						dai 3 ai 5 miliardi di euro, è evidente che è un modo di 
						utilizzare quel tesoretto. Il quale non fu speso nella 
						direzione della nostra piattaforma sul fisco, ma 
						esattamente in direzione opposta. Così come c’è 
						contraddizione in un governo che deve dialogare con 
						tutte le organizzazioni sindacali, nessuna esclusa. E 
						contemporaneamente, però, ovviamente non potrà che 
						rispettare il proprio programma in una condizione di 
						ristrettezza delle finanze. Però poi non ce n’è più, 
						perché non siamo in una fase in cui puoi ridurre l’Ici, 
						la tassazione sugli straordinari e poi dare le 
						detrazioni al lavoro dipendente, ai pensionati  e poi 
						anche intervenire sulle tariffe e sui prezzi. 
						
						Questo per noi vuol dire una cosa semplice, che però 
						dobbiamo tenere ferma: noi di fronte a un governo che ha 
						questa forza, che ha avuto un mandato popolare così 
						grande, che rappresenta programmi e ambizioni che non 
						sono le nostre, non possiamo giocare solo di rimessa, ma 
						dovremo giocare con intelligenza, nelle contraddizioni 
						che si aprono sul terreno delle proposte, e però essere 
						capaci di segnare anche noi nel confronto, nelle 
						mobilitazioni, in quello in cui sappiamo stare in campo, 
						le nostre priorità e le nostre scelte. 
						
						E le nostre priorità e le nostre scelte non dobbiamo 
						inventarle. Noi non dobbiamo riscoprire niente. Dobbiamo 
						mettere assieme le cose che abbiamo chiesto al vecchio 
						governo senza averle ottenute e le priorità che l’azione 
						di questo governo può rendere più complicato. Penso in 
						modo particolare che dobbiamo – e lo faremo 
						dall’incontro della prossima settimana – rimettere al 
						centro la grande richiesta di un aumento delle 
						detrazioni fiscali per i pensionati e per il lavoro 
						dipendente.  
						
						Prima ricordavo Zapatero, e mi veniva in mente mentre 
						venivo qui oggi il segno diverso che ha un’operazione 
						che punta a spendere 4-5 miliardi sull’Ici e la 
						detassazione degli straordinari, rispetto a quello che 
						ha fatto Zapatero: 400 euro per cittadino e si aiuta la 
						proprietà non riducendo il patrimonio sugli immobili ma 
						aiutando i mutui delle famiglie che, in ragione della 
						variabilità dei tassi, non ce la fanno a sostenere gli 
						impegni che hanno contratto. Un’altra modalità di 
						sostegno alla condizione di chi non sta bene. Non a 
						caso, tra le contraddizioni visibili dell’azione di 
						governo, c’è che alcune alcune cose sono sparite. Della 
						condizione degli anziani e dei pensionati non ne parla 
						più nessuno, non si parla più di non autosufficienza – 
						lo dico rispetto alle nostre richieste – non si parla 
						più di reddito dei pensionati, non si parla più di 
						adeguamento del potere d’acquisto dei pensionati e non 
						si parla più di come intervenire per calmierare i prezzi 
						delle tariffe.  
						
						Io ricordo che l’esperienza passata del governo 
						Berlusconi, dal punto di vista del mancato controllo 
						della dinamica dell’inflazione, portò il paese a 
						riprendere in un periodo di inflazione calma a livello 
						internazionale, a ripartire. E avverto il rischio, tanto 
						più oggi, in presenza di tensioni inflazionistiche così 
						importanti a livello dei mercati delle materie prime, 
						che un governo che non avesse come sua cura quella di 
						mettere sotto controllo la dinamica dei prezzi, 
						finirebbe per accelerare quella componente 
						internazionale non comprimibile, aggiungendoci una 
						componente interna che invece dovrebbe agire nel senso 
						opposto.  
						
						Così come dovremmo stare molto attenti alle politiche 
						che il governo farà su due settori fondamentali del 
						diritto di cittadinanza e della condizione delle 
						persone: la scuola e, in modo particolare, il senso e il 
						segno di una scuola universale e pubblica, laica, uguale 
						per tutti i cittadini di questo paese. Secondo: la 
						sanità, nella sua qualità e nella sua universalità di 
						servizi.  
						
						Così come dobbiamo chiedere subito, su due questioni che 
						ci stanno a cuore, delle risposte. La prima: che fine 
						intende far fare il governo al decreto sui lavori 
						usuranti approvato nelle ultime settimane dal governo di 
						centrosinistra? Non era il testo che volevamo, ma non è 
						la stessa cosa se i contenuti di quel testo vengono 
						riproposti o vengono definitivamente cancellati. Perché 
						vuol dire allora, da quel punto di vista, tornare 
						indietro rispetto alla cosa importante che ottenemmo: 
						non far considerare tutti i lavori attuali rispetto alla 
						condizione che il lavoratore vive. E sulla sicurezza, e 
						su questo siamo unitariamente impegnati, dire al governo 
						che il decreto approvato esattamente l’ultimo giorno 
						della vita del precedente governo, non va cambiato, non 
						si può modificare. E non soltanto perché non è giusto in 
						sé, ma perché se è un decreto appena approvato, neanche 
						è entrato in vigore e magari viene modificato con una 
						discussione che impegnerà settimane e mesi, vuol dire 
						che in questo periodo noi saremo nella terra di nessuno, 
						dove nessuna azienda, nessun lavoratore, nessuno saprà 
						se il nuovo decreto si applica subito e, soprattutto, in 
						prospettiva deresponsabilizziamo ancora di più le 
						imprese dall’intervenire con propria responsabilità 
						attiva su questo terreno. Così come non c’è dubbio che 
						noi diremo con la forza necessaria che la misura che il 
						governo intende assumere sugli straordinari fuori da 
						ogni ideologia, che più giorni passano e più si rivela 
						confusa, pasticciata e anche per molti versi 
						assolutamente non utile.  
						
						Ogni giorno che passa ne leggiamo una. Oggi, un limite 
						di tetto di reddito: detassazione del 10% degli  
						straordinari per i redditi sotto i 35 mila euro. Si 
						legge che il settore pubblico ne sarebbe escluso. Ognuno 
						di questo apre contraddizioni. Pensate soltanto che 
						finiremmo per avere un ospedale privato in cui un 
						lavoratore che facesse straordinario, lo vedrebbe 
						tassato al 10%, e un lavoratore di un ospedale pubblico 
						che fa lo straordinario non avrebbe lo stesso risultato. 
						Oppure un asilo nido privato, in cui i lavoratore che fa 
						lo straordinario avrebbe quel vantaggio e un lavoratore 
						di un asilo nido pubblico che non lo avrebbe. 
						 
						
						Oltre tutte le contraddizioni che qui sono state dette, 
						si incentiverebbe l’orario individuale, si finirebbero 
						per far saltare gli accordi di flessibilità che sono 
						stati fatti, si aprirebbe inevitabilmente un problema di 
						reddito tra uomo e donna, stante le diverse possibilità 
						di accesso a questo finirebbe per aprire – diciamo la 
						verità – una rincorsa salariale nel modo peggiore 
						all’interno delle aziende, sapendo che abbiamo 
						ovviamente settori importanti nel mondo del lavoro che 
						hanno lo straordinario forfettizzato e ci sono settori 
						in cui lo straordinario, nei limiti del contratto, è 
						possibile.  
						
						Infine l’ultima cosa che dovremmo dire con forza al 
						governo è che deve stare attento a come coniuga la 
						giusta domanda di sicurezza con alcune fondamentali 
						questioni di diritto, di rispetto dei diritti umani e 
						dei doveri dell’ospitalità, fra tutte penso che dovremmo 
						dire “no” con forza alla richiesta di introdurre il 
						reato di clandestinità per le persone migranti che 
						vengono a lavorare nel nostro paese, così come dice 
						l’Unione europea e così come dicono gli osservatori più 
						avveduti.  
						
						E cosa ci chiede inoltre questo quadro politico? Io 
						credo che ci chieda di tenere fermo un lavoro unitario 
						tra le grandi organizzazioni sindacali confederali. 
						Proprio la forza di questo insediamento di governo e le 
						idee e i modelli di società che ha, ci portano a tenere 
						un rapporto unitario con le altre organizzazioni 
						sindacali. Perché sui grandi temi abbiamo elementi 
						comuni che sarebbe sbagliato non far pesare se non con 
						un fronte comune.  
						
						Il documento unitario sulla riforma della contrattazione 
						e della democrazia che i tre direttivi unitari hanno 
						approvato, non nasce da oggi. Vedete, mi sono sentito 
						dire in questi 4-5 anni che io avrei frenato sempre 
						tutto, perché mi alzai dal tavolo per il fatto che le 
						cose che avevamo definito con Montezemolo poi non furono 
						rispettate. Montezemolo si lamenta del fatto che la Cgil 
						si sia alzata dal tavolo, ma si scorda di aggiungere che 
						quel tavolo doveva avere come cuore del suo confronto i 
						temi del Mezzogoirno e della politica industriale, non 
						quelli della politica contrattuale. E perché? Perché io 
						ho sempre tenuto, la Cgil ha sempre tenuto ferma 
						un’opinione indiscutibile di modello contrattuale se 
						prima non c’è una posizione di Cgil, Cisl, Uil per 
						affrontare questi temi.  
						
						Questo è stato il tema che ci ha tenuti fermi su questa 
						posizione. E, per le scelte del nostro congresso, non 
						bastava una posizione comune sulle politiche del modello 
						contrattuale perché noi avevamo chiesto a Cisl e Uil di 
						avere un punto di vista condiviso sui temi della 
						rappresentatività e della democrazia sindacale. E ho 
						sempre, abbiamo sempre detto che senza un accordo sulla 
						democrazia non ci sarebbe mai stata un’intesa sul 
						modello contrattuale. Oggi ci troviamo di fronte a un 
						testo che per la prima volta da anni ci consente un 
						approdo unitario al modello della democrazia e della 
						rappresentatività. E io credo che questo sia un passo 
						importante.  
						
						Ho sentito nella discussione, in quello che ha detto 
						nella relazione di Rinaldini, che lui ha detto anche al 
						Cd forte preoccupazione e contrarietà. Io devo dire che 
						non condivido una parte dellel documento la lettura che 
						qui viene data. E lo voglio dire con franchezza, 
						pacatamente ma con determinazione, provando ad 
						argomentare punto per punto il perché il documento 
						contiene scelte che non ritrovo nelle critiche che sono 
						state fatte qui.  
						
						Si dice che il primo livello di contrattazione, il 
						contratto nazionale, ne uscirebbe depotenziato, io sono 
						convinto esattamente del contrario. Sia assumendo come 
						riferimento il 23 luglio, sia assumendo come riferimento 
						quello che è avvenuto negli anni di contrattazione. C’è 
						soprattutto un’affermazione inequivoca all’inizio della 
						definizione del primo livello, che io credo vada 
						apprezzata per quello che esprime, perché quando si dice 
						che il livello del contratto nazionale è quello che deve 
						garantire nei fatti – traduco – la sinteticità del testo 
						“l’universalità dei diritti” e il fatto che quel 
						contratto, nelle sue norme, nelle sue condizioni, valga 
						per ogni azienda del paese, per ogni azienda del paese 
						in quel settore e per ogni parte del paese, c’è 
						un’affermazione fortissima del valore unitario del 
						contratto nazionale. Esattamente quello che la compagna 
						Marano qui chiedeva: un contratto che mi valga per 
						Milano e mi valga per Palermo, in un’affermazione 
						esplicita contenuta nella premessa della valutazione del 
						testo. 
						
						Così come il fatto che non ci sia più soltanto la parola 
						“difesa” del salario, ma “valorizzazione e sostegno” 
						vorrà pure dire qualcosa. E provo a chiarire quello che 
						vuole dire, che sono sostanzialmente tre cose. 
						 
						
						La prima. Quando noi assumiamo quel termine – sul quale 
						ho visto qualche esercizio di critica – “inflazione 
						realisticamente prevedibile”, con gli indicatori che 
						sono stati approntati, vuol dire una cosa semplice: che 
						i futuri contratti, qualora quel testo diventasse 
						l’accordo, almeno nelle intenzioni di Cgil, Cisl, Uil, 
						abbandonano l’inflazione programmata, che però c’è 
						ancora nel testo non disdettato dell’accordo del 23 
						luglio, e non assume l’inflazione del paniere Istat per 
						impiegati e operai, ma pone due riferimenti oggettivi – 
						non soggettivi – come il deflatore dei consumi interni o 
						l’indice armonizzato europeo corretto con il peso dei 
						mutui, che vogliono dire una cosa precisa, e cioè si 
						assume un’indicatore dell’inflazione che rispetto a 
						quelli che l’Istat ha usato fino a oggi è molto più 
						sensibile alla crescita dei prezzi dei beni e dei 
						consumi. Per capirci, è molto più favorevole di quello 
						che fino ad oggi anche noi, superando il 23 luglio, 
						abbiamo adottato. Secondo. Nel momento in cui il 
						contratto nazionale diventa e si conferma – forse ancora 
						di più rispetto al passato – sovraordinato anche nelle 
						materie regolative e normative rispetto al passato e al 
						23 luglio, è evidente che tutti i costi della parte 
						normativa non sono confutabili come era nel 23 luglio 
						addirittura dentro l’indicatore dell’inflazione 
						programmata. 
						
						Terzo. Si assume prendendolo dalla vostra esperienza ma 
						anche da quella di altre categorie, ma rendendola 
						parzialmente diversa, la possibilità che il contratto 
						nazionale per tutte le aziende – non soltanto quindi per 
						quelle che non fanno contrattazione – definisca uno 
						zoccolo, una base per tutti, sulla quale poi sviluppare 
						e aggiungere la contrattazione di secondo livello.
						 
						
						Quarto. Rispetto a quell’indicatore di cui parlavamo 
						prima, l’accordo prevede un recupero in tempi certi, non 
						abbiamo specificato lo strumento, ma è chiara la scelta 
						e l’indicazione che il testo contiene. Aggiungo anche – 
						perché so che anche questo è un tema della discussione – 
						che quando nel testo si dice che bisogna rafforzare le 
						sedi di confronto tra le parti sulle dinamiche 
						dell’economia generale e sulle dinamiche dei settori, 
						vuol dire (così come non io ma Raffaele Bonanni ha detto 
						ai tre comitati direttivi) che nel caso in cui i settori 
						– nell’andamento ciclico dell’economia e nelle diversità 
						dei settori – avessero forti incrementi di produttività 
						e di crescita, che una quota di produttività ovviamente 
						può essere spesa anche al primo livello. 
						
						Aggiungo infine – e vi prego di seguirmi su questo 
						passaggio, perché capisco che sia delicato ma credo 
						anche importante – che un problema che avremo nei 
						prossimi anni, per una fase non breve ma non sappiamo 
						dire quanto lunga, è probabilmente un andamento 
						dell’inflazione a salire e con difficoltà di 
						prevedibilità. Questo perché siamo entrati in una fase 
						in cui – con l’aumento delle materie prime, che va dal 
						dal pane fino ai prodotti petroliferi – diventerà più 
						difficile avere un quadro certo. Probabilmente non 
						avremo un’inflazione a 2, 2,2 o 2,3%, ma di più. Ma se è 
						così, se il cuore fondamentale della redistribuzione è 
						esattamente al contrario dell’impostazione del 23 
						luglio, non è fare una programmazione dell’inflazione 
						che gioca d’anticipo per ridurre l’inflazione attesa… ma 
						è esattamente quella di recuperare integralmente 
						l’inflazione. E il contratto nazionale pesa di più oggi, 
						in questa’impostazione, proprio perché avremo di fronte 
						a noi un’inflazione di questo valore e di questo 
						significato.  
						
						Aggiungo anche, rispetto a preoccupazioni che c’erano 
						rispetto alla prima stesura, che nel testo non ci sarà 
						nulla che parla di deroghe alla contrattazione. È 
						esattamente il contrario: dove si parla di rapporto tra 
						il primo e il secondo livello si dice che il secondo 
						livello dovrà migliorare il primo livello.  
						
						Anche sul secondo livello ho ascoltato le obiezioni che 
						sono state fatte. Però consentitemi di dire che il 
						documento non dice questo. Il  secondo livello viene 
						definito come accrescitivo. Rinaldini usa un altro 
						termine, che però gli assomiglia: “livello acquisitivo”. 
						Non viene da nessuna parte postulato come generalizzato 
						il premio variabile. Si parla di diversi indicatori, di 
						diverse possibilità. Compresa la qualità degli 
						investimenti. C’è un paniere di riferimento di 
						indicatori molto più ricco, perché? Perché è la 
						situazione della contrattazione, è molto più vasta e 
						molto più diffusa. 
						
						Voglio anche aggiungere, perché vedo che non se ne 
						parla, che quando noi poniamo il problema dei tempi dei 
						rinnovi, della funzione che non è piena dell’indennità 
						sostitutiva, del rapporto che c’è tra quando scade il 
						vecchio e il nuovo contratto e dei periodi vuoti in 
						mezzo, unitariamente si vuol porre l’attenzione sull 
						fatto che la crescita del potere d’acquisto non si ha 
						soltanto se scrivi una cifra lì, ma ce l’hai soltanto se 
						scrivi una cifra lì e le modalità con cui la capienza 
						piena di questi aumenti vive nel periodo, ti consente di 
						recuperare il potere d’acquisto o meno.  
						
						Perché tu puoi perdere potere d’acquisto anche chiedendo 
						di più ma facendo scaglionamenti o ritardi o slittamenti 
						che poi ti portano ad avere alla fine di più ma ad aver 
						perso nel periodo un montante retributivo e salariale 
						molto forte. Io penso che anche il secondo livello, 
						nelle modalità con cui è scritto, l’azienda, il sito, la 
						filiera, il territorio per dove non si fa contrattazione 
						aziendale, sia la modalità più corretta che renda conto 
						delle diversità delle esperienze che sono  in campo.
						 
						
						Infine, la democrazia e la rappresentatività. Io credo 
						che ci sarà un motivo se molti han detto che da questo 
						punto di vista il documento rappresenta un salto in 
						avanti importante. Io credo che sia così. È da vent’anni 
						che la Cgil ha detto alla Cisl e alla Uil di assumere un 
						orientamento comune in base al quale gli accordi 
						sottoscritti, prima di diventare firmati effettivamente, 
						siano sottoposti al voto dei lavoratori e dei 
						pensionati. Lo abbiamo fatto nel ’93, lo abbiamo fatto 
						sul welfare, ma non abbiamo mai raggiunto un’intesa in 
						cui questo aspetto fosse chiarito con la forza nella 
						quale è emersa in questo documento. E, giustamente, è 
						stato fatto osservare che neanche quando c’era la 
						gloriosa federazione Cgil, Cisl, Uil, in materia di 
						democrazia, c’è mai stato un documento unitario che 
						contenesse quello che, su questo aspetto, il documento 
						propone. 
						
						Io lo so che per la vostra esperienza è un dire: “noi lo 
						facciamo già”. Però vi prego di credere che per gli 
						accordi confederali non è stato così: ogni volta te lo 
						sei dovuto conquistare. E vi prego di credere che per 
						tante altre strutture o categorie, questo ancora oggi 
						non avviene. Quando si afferma nel testo che a questi 
						criteri fondamentali debbono uniformarsi anche i 
						comportamenti delle categorie, vuol dire che né più né 
						meno che l’impegno che prendono Cgil, Cisl e Uil da oggi 
						in poi, è che in tutte le strutture, di fronte ad 
						accordi che hanno carattere generale, l’ultima parola 
						spetta nel caso specifico ai lavoratori e ai pensionati 
						rispetto alle materie e alle situazioni. 
						
						Aggiungo anche che le norme in materia di 
						rappresentatività non sono poco significative. Aver 
						provato per la prima volta a mettere un po’ di 
						trasparenza per tutti, anche per noi, a provare a 
						verificare se il mix tra le iscrizione certificate e il 
						voto, potessero essere un problema al nodo che dai tempi 
						dello Statuto ci portiamo dietro, di come si misura la 
						rappresentatività, è un altro passo in avanti  
						importante. È un atto di trasparenza, di autoriforma. Lo 
						stesso ragionamento contenuto nella relazione Francesca, 
						sulle deleghe, sul rinnovo senza o accompagnato da 
						questo processo di trasparenza, avrebbe un peso e un 
						significato ancora più pieno.  
						
						E io credo che sia un altro passaggio importante perché 
						superiamo quella tautologia che c’era nello Statuto dei 
						lavoratori: chi tratta? I sindacati maggiormente 
						rappresentativi.  Chi sono quelli maggiormente 
						rappresentativi? Oggi si definisce su una base il più 
						possibile certa, c’è un percorso, ci sono degli 
						strumenti, ci sono delle sedi, dei criteri seri che 
						vengono proposti, una riforma della rappresentatività 
						delle grandi organizzazioni. E questo consentirà a tutti 
						di non dire che si rappresentano milioni di persone 
						quando magari si rappresentano centinaia di migliaia di 
						lavoratori. E nessuno si potrà arrogare il diritto di 
						poter parlare senza che il fondamento della propria 
						rappresentanza sia stato verificato e definito. Questo è 
						uno di quei processi di riforma dei corpi e della 
						rappresentanza sociale e civile che da tanto avevamo 
						chiesto. E se un problema c’è, questo problema è che non 
						può riguardare solo il sindacato, perché è un problema 
						di misurazione della rappresentatività così come il 
						sindacato lo propone. Se lo devono porre tutti: le 
						associazioni dei consumatori, le associazioni che 
						operano a tutela di interessi, il sistema delle imprese, 
						è una sfida che noi possiamo lanciare al sistema delle 
						imprese a proposito di lezioni sulla trasparenza e la 
						veridicità sui dati associativi che ci riguardano.
						 
						
						Su quello che c’è scritto nel testo abbiamo deciso di 
						fare correttamente una fase di confronto e di 
						discussione, di verifica, in tutti i posti di lavoro e 
						tra i pensionati. Con una registrazione degli andamenti 
						delle assemblee perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo 
						bisogno di questa relazione democratica, non come fatto 
						occasionale, ma come fatto permanente. E ne abbiamo 
						bisogno perché il confronto su questi temi sarà duro, 
						sarà duro.  
						
						Ho detto l’altro giorno e lo ripeto qui – non ho paura 
						di dire una cosa che penso: il problema di questa 
						piattaforma non è che è troppo bassa, il problema vero 
						di questa piattaforma è che incrocia dal governo al 
						sistema delle imprese opposizioni, opinioni. Sono state 
						dette nelle assemblee, viste, le leggiamo tutti i 
						giorni… Lo sappiamo tutti i giorni… vanno in una 
						direzione diametralmente opposta tra chi vuole il 
						contratto nazionale forte solo per togliere potere alle 
						Rsu e chi lo vuole invece così debole perché in ogni 
						azienda si possa fare quello che si vuole, tra chi vuole 
						– non si chiamano più gabbie salariali ma contratti 
						differenziati per territorio. Montezemolo ha detto tra 
						Nord e Sud, per esprimere esattamente un concetto 
						preciso di cosa invece vogliono dire le gabbie 
						salariali.  
						
						Sarà difficile, perché un governo che non rinnova i 
						contratti pubblici è un interlocutore particolarmente 
						difficile, come sarà difficile la nuova Confindustria e 
						saranno difficili una serie di controparti a partire 
						dalla Confcommercio che, ancora oggi, nega il contratto 
						di lavoro alla sua categoria più grande: quella dei 
						lavoratori del commercio.  
						
						In ragione di questo io credo che noi non avremmo 
						bisogno di un dissenso tra di noi.  
						
						Lo dico onestamente e sinceramente – come son capace io 
						– proprio di fronte al merito che io valuto 
						positivamente questa piattaforma e alle difficoltà delle 
						nostre controparti, noi avremmo bisogno di una forza 
						unitaria, non solo nostra, ma di tutto il movimento 
						sindacale. Perché naturalmente la sfida che abbiamo di 
						fronte è particolarmente difficile. E vedete, proprio in 
						queste ore due conferenze d’organizzazione di due 
						categorie un po’ agli antipodi hanno chiuso 
						unitariamente i loro lavori proprio su questo punto. 
						Anche quello del modello contrattuale. La conferenza 
						d’organizzazione della Funzione pubblica, la conferenza 
						d’organizzazione di una delle categorie che ha il 
						maggior numero di operai nel nostro paese: operai 
						agricoli e operai alimentaristi. Hanno chiuso i loro 
						lavori con un documento e con un’impostazione che assume 
						il quadro delle difficoltà di merito che sono state 
						proposte. Naturalmente io capisco un’altra discussione, 
						la leggo, l’ho visto: negli interventi vostri, in quello 
						che ho ascoltato, il contesto, il quadro, le difficoltà, 
						la durezza delle nostre controparti, lo dobbiamo fare 
						adesso, perché questa è la vera discussione.  
						
						Voglio dire un’ultima cosa: noi abbiamo bisogno in 
						queste condizioni di ritessere un  modello unitario per 
						il mondo del lavoro, e siccome il quadro di fronte a noi 
						è così difficile  e siccome potremmo non farcela sarebbe 
						meglio non provarci. Questo è il tema. Questa è la 
						questione. Riconosco che questo è un punto vero, spesso 
						anche nelle nostre discussioni, e ci ho riflettuto a 
						lungo anch’io. Ho rivisto il documento conclusivo del 
						nostro congresso, quello unitario. Se lo andiamo a 
						rielggere viene riconfermato con forza la necessità di 
						avere un modello contrattuale unitario per tutte le 
						lavoratrici e i lavoratori del nostro paese. E io penso 
						che questo obiettivo noi lo dobbiamo tenere vivo, 
						aperto, e perseguire in ogni contesto di fronte a noi. 
						Anche quando sembra tutto più difficile, per una ragione 
						semplice: io qui trovo la risposta al problema che noi 
						abbiamo tra un modello vecchio – il 23 luglio – che 
						abbiamo tirato da tutte le parti ma appunto perché l’hai 
						tirato da tutte le parti ormai non c’è più e l’assenza 
						di modelli. Io credo che noi dobbiamo seriamente, 
						serenamente, con le preoccupazioni ma senza paura, 
						provare a riconquistare un modello unitario. Se noi non 
						ce la facessimo, o se noi non provassimo a farlo, il 
						risultato non ci lascerebbe così come siamo. Perché 
						quello che oggi è fondamentale in un’economia di mercato 
						fatta dall’assenza di regole è esattamente ri-regolare  
						una parte delle condizioni nelle quali il lavoro oggi si 
						rappresenta.  
						
						Abbiamo bisogno noi di un modello unitario, in assenza 
						di un modello unitario e risultato definito avremmo una 
						situazione per i pubblici, una situazione per i  
						meccanici, una situazione per i chimici, una situazione 
						per il commercio, una situazione per l’agricoltura con 
						uno shopping contrattuale in cui noi non decideremo più 
						niente. E saranno le aziende a scegliere quello che 
						vogliono dalle diverse soluzioni che i rapporti di forza 
						determineranno. E siccome il modello serve non a 
						imbrigliare le categorie più forti – perché non lo è mai 
						stato nel medio periodo – ma a sostenere chi ha più 
						problemi a rinnovare i contratti, io credo che sia un 
						imperativo, nella logica e nei valori che ha il 
						sindacato confederale, che noi ci proviamo anche nelle 
						condizioni difficili che abbiamo di fronte a noi. 
						 
						
						Questo è il lavoro che dobbiamo fare. Senza modello 
						unitario – uso qui un’espressione che talvolta Gianni 
						[Rinaldini] usa – avremmo, allora sì, un sindacato di 
						mercato, nel senso di un sindacato che vive tanti 
						modelli quanti sono i mercati di impresa, i mercati di 
						settore, i mercati di riferimento, che a quel punto si 
						imporrebbero.  
						
						Naturalmente sono invece d’accordo con tutte le compagne 
						e i compagni che hanno posto un problema vero: come 
						contrattare di più e contrattare meglio, come utilizzare 
						la riforma anche della nostra rappresentanza a partire 
						dai delegati per avere un rapporto più stretto tra 
						controllo delle condizioni e contrattazione. E voglio 
						anche dire che il problema di fondo tra il contratto 
						nazionale e il contratto di secondo livello è che – 
						ovviamente – svolgono due funzioni complementari, 
						essenziali l’una all’altra e viceversa. Perché senza un 
						contratto forte fai fatica ad avere contrattazione di 
						qualità e senza contrattazione decentrata di qualità fai 
						più fatica ad avere un contratto forte. Questo è 
						l’equilibrio che credo ognuno possa convenire. 
						 
						
						Ma c’è un punto però – fermo restando questa verità, che 
						è la verità che dobbiamo tenere dentro di noi – sul 
						quale non possiamo non convenire a sua volta: che un 
						sindacato è forte se ricostruisce dal basso le sue 
						presenze, le sue rappresentanze, le sue radici. La 
						nostra forza, quello che ci fa forti in alto è quello 
						che giorno dopo giorno conquistiamo e strappiamo nei 
						luoghi di lavoro e nel territorio. Ed è questo il senso 
						profondo della nostra conferenza di organizzazione. 
						
						Io penso che, in ragione di questo e rispettando tutte 
						le opinioni che ci sono in campo, possa rappresentare un 
						problema il fatto una grande struttura quale voi siete, 
						la più grande struttura nel settore dell’industria possa 
						avere sulla piattaforma delle modalità che poi si 
						avranno, un orientamento diverso. Ma non perché sogno o 
						immagino una Cgil in cui non si possa liberamente 
						decidere ed esprimersi. No, dal punto di vista della 
						forza e della coesione di cui avremmo bisogno per un 
						confronto così forte e così delicato. E perché da 
						persona sincera e onesta quale io sono, so anche che ci 
						sono delle conseguenze: perché se non si è d’accordo su 
						una piattaforma diventerà difficile – eventualmente ci 
						si arrivasse – essere d’accordo sull’accordo. E se non 
						si è convinti di una mediazione unitaria si farà uno 
						sforzo – lo so, lo farete – per sostenere questo lavoro. 
						Ma se non si è convinti dentro sarà poi difficile fare 
						un fronte comune. 
						
						Questo per me rappresenta anche un problema personale. 
						Perché? Perché mi sono battuto, e mi batterò, perché 
						quel documento, quella prospettiva possa avere il 
						consenso convinto più ampio. Rispetterò l’opinione 
						contraria, ma voglio – con la chiarezza necessaria che è 
						nelle fasi difficili e con le parole oneste che spero 
						potrete apprezzare anche avendo, per chi la ha, 
						un’opinione diversa – dirla esattamente come la penso: 
						non era questo, non su questo il tempo della divisione 
						tra di noi. 
						
						Rispetterò qualora facciate questa scelta, ma devo dire 
						che sarebbe stato meglio per tutti una scelta diversa. 
						Rispetterò qualsiasi scelta, mi assumerò la 
						responsabilità nell’ambito delle mie prerogative e di 
						quel lavoro di collegialità che nella Cgil è, anche in 
						condizioni difficili, fare il meglio per tutti. E so, e 
						me lo dice la relazione di Rinaldini, che su questo 
						potrò e potremo contare sulla Fiom. Per questo proviamo 
						a lavorare assieme, ragionando gli uni sugli altri, 
						sulle cose dette, su quello che ho ascoltato, che mi 
						sento di dirvi con la chiarezza di cui sono capace e 
						proviamo a ragionare che nella fase lunga che abbiamo di 
						fronte, quando sono in ballo destini e problemi di 
						questa complessità e di questa delicatezza, che talvolta 
						restare uniti è meglio che avere una scelta diversa. E 
						vale per tutti, vale per me e vale per chi non la pensa 
						come me. Io mi atterrò sempre a questo criterio: 
						lavorare per ricomporre, mai per dividere. Lavorare per 
						avere più forza, mai per avere meno forza; perché poi al 
						dunque un modello contrattuale è sempre un modello 
						contrattuale, quello che conta sarà poi come le 
						politiche contrattuali, la gente in carne e ossa, i 
						nostri delegati, le nostre strutture, sapranno – dentro 
						i precorsi che avremo – comportarsi con la 
						responsabilità che sanno e che io so non mancherà in 
						nessun passaggio. 
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