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CERVIA, 15 MAGGIO 2008

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Intervento di Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil

(intervento trascritto e non rivisto dall'autore)

Voglio cominciare questo mio intervento, con alcune considerazioni sul quadro politico che si è delineato dopo il recente voto. Ed è un quadro politico, ovviamente, fortemente spostato a destra, io sono convinto – l’avevo detto da tempo non solo a ragione dell’andamento del voto – che ci sono due componenti in questo spostamento a destra del quadro politico italiano. Una di carattere generale, che non riguarda cioè soltanto il nostro paese: se ognuno di noi prova a vedere come sono composte le maggioranze parlamentari nei governi dell’Unione europea allargata, vede con chiarezza che in questi anni il numero dei paesi governati da forze moderate è nettamente superiore ai paesi che sono governate dalle forze di sinistra, di centrosinistra o progressiste.

Abbiamo salutato, credo tutti con favore, l’andamento ultimo del voto spagnolo che ha riconfermato la maggioranza al governo guidato da Zapatero. Subito dopo è intervenuto il voto amministrativo inglese che ha riconfermato una tendenza generale che nei voti degli anni scorsi si era rafforzato. Bisognerà porsi il problema del perché l’Europa in questa fase della sua vita politica, economica, finanziaria, tende a spostarsi verso le forze moderate e quindi come anche da questo punto di vista l’Italia non faccia eccezione. Io sono arrivato a una conclusione – anche qui naturalmente sempre discutibile – in ragione della quale tutto questo è frutto probabilmente di una fase e di un contesto storico piuttosto profondo. Non vedo cioè tanto responsabilità della soggettività, che pure talvolta c’è stata e c’è negli schieramenti progressisti, di non essere stata all’altezza dei problemi che la società contemporanea vive. Vedo il prevalere, proprio nei caratteri della globalizzazione di questa fase e di questo periodo, di tendenze, sensibilità, problemi, sui quali la destra – con i suoi linguaggi, le sua scelte, i suoi radicamenti – ha oggi più peso, più carte da giocare rispetto ai valori tradizionali e nuovi delle forze progressiste.

Pesa in modo particolare questa globalizzazione senza regole, questa mobilità piena dei capitali, della finanza, le delocalizzazioni aziendali, le chiusure dei luoghi fondamentali degli insediamenti della sinistra della classe operaia tradizionale. Pesa questo senso di insicurezza che una globalizzazione senza regole trasmette giorno dopo giorno sempre di più nei confronti del cittadino. Insicurezza che vuol dire tutto, insicurezza legata alla precarietà della condizione lavorativa, insicurezza legata alla prospettiva del proprio futuro, insicurezza nei confronti di quelli che a torto sono visti come minaccia alla propria serenità.

E modelli culturali. Perché non c’è soltanto una globalizzazione materiale che spinge a rendere più fragile e insicura la condizione della persona che lavora e della persona anziana. Ci sono modelli culturali che si pongono e che diventano forti in sé e sono modelli e disegni culturali che poggiano sostanzialmente sull’individuo, sull’individualizzazione spinta delle scelte, delle propensioni e anche delle modalità per uscire dai problemi della condizione di oggi.

Non dobbiamo arrivare al paradosso contrario e che cioè questi processi rendono permanentemente deboli le nostre parole d’ordine: la solidarietà, il rispetto degli altri, il considerare l’altro come se stesso, l’interesse generale, l’etica pubblica, i diritti fondamentali, perché non siamo a questo passaggio. Ma non c’è dubbio che questa insicurezza e questa globalizzazione viene agita dalla destra cavalcando paure che parlano al cuore della condizione più diseredata presente in Italia e presente in Europa. E questo rende più difficile in questa fase specifica dello sviluppo della nostra società europea l’affermazione dei valori, degli insediamenti delle forze progressiste.

C’è poi per quanto riguarda il nostro paese il risultato evidente  che l’azione di governo di centro sinistra – per come è maturata, per come si è svolta, e io dico anche per come è finita – abbia trascinato con sé il giudizio molto negativo, pesantemente negativo, che poi si è riflesso nel voto dei cittadini e delle cittadine italiane. Perché di questo noi non possiamo dimenticarci, perché quando diciamo spostamento di un’asse politico – vale per il paese e vale per gli altri paesi – non dobbiamo pensare che questo accada in ragione di un’astrazione. Questo accade in ragione del fatto che la maggioranza dei cittadini elettori sceglie esplicitamente le forze e i programmi delle forze di centrodestra, è avvenuto in Europa ed è avvenuto in Italia nell’ultima tornata elettorale. Una maggioranza parlamentare di centrodestra implica che una maggioranza di cittadini ha fatto proprie – per una ragione o per l’altra – quelle scelte o quei programmi, oppure ha pensato e continua a ritenere che in questi programmi e in quelle scelte si potesse trovare una soluzione alla propria condizione, ai propri problemi che altri programmi e altri schieramenti non erano in condizione di fare.

Io credo, riflettendo sui 18 mesi dell’esperienza del governo Prodi, che sono stati fatti ovviamente degli errori, delle scelte sbagliate. Talune di queste – anche da parte nostra – non sono state indicate dopo ma sono state indicate durante. Io credo di essere stato tra i pochissimi che subito ha detto – anche parlando con il Presidente del Consiglio – che 25 ministri e 100 sottosegretari e viceministri erano un numero sproporzionato e che aver lasciato la strada della riduzione e semplificazione dei ministeri voluta da Bassanini era un errore. Non soltanto in rapporto alle persone, ai cittadini che non riuscivano a capire questa moltiplicazione di ruoli: ministro, viceministro, sottosegretario, ma per una ragione funzionale – e l’abbiamo vista noi – perché se un ministero come quello del welfare e del lavoro – invece di avere un ministro aveva  competenze su 3, talvolta 4 ministri, spesso anche in disaccordo tra di loro, tutto veniva ad essere più difficile e tutti quei problemi che non si sono risolti in questi 18 mesi e talvolta neanche abbozzati – vi prego di credere – nasceva anche dal fatto che proprio dove c’era una con testualità di più ministri che agivano su questo tema era difficile far maturare un tema consapevole.

Penso al tema dell’infanzia, al tema dell’assistenza, al tema della non autosufficienza, per parlare di temi strettamente sociali. Così come non c’è dubbio che passata la prima impostazione, quel modello di rivoluzione fiscale basato sulle detrazioni e non sulle deduzioni, ha copiato – perché non era sbagliato in sé, perché anzi in sé era più progressista come impostazione rispetto all’utilizzo del metodo delle deduzioni – ma ha copiato in una base imponibile che restava larga, con l’aumento dell’imposizione fiscale di regioni e comuni, finiva per avere un effetto moltiplicatore esattamente per quei redditi ai quali si era garantita l’invarianza del prelievo fiscale o addirittura il vantaggio fiscale.

E a un certo punto, giorno dopo giorno, malgrado le cose dette nelle fabbriche, coi pensionati, arrivavamo a vedere come con pensioni di 1.200 euro o con 1.100 al mese si pagava di più mentre con salari – in alcune aree del paese – con 1.000, 1.200 senza carichi familiari, quel lavoratore e quella lavoratrice finivano per pagare qualche decina di euro di più di tasse, mentre invece si aspettava una riduzione. Potrei continuare, per arrivare infine alla questione del “tesoretto”: sarà anche stata posta tardi, ma quel balletto “c’è”, “non c’è”, e un giorno c’era e un giorno scompariva e soprattutto lo si affermava per rimandarlo lontano, invece di affrontare la condizione di quella parte del paese che intanto si impoveriva e i consumi calavano, secondo me – e non credo di sbagliarmi – ha segnato ancora in  maniera  più drastica un rapporto difficile proprio con quella parte della rappresentanza del paese che poi è quella che noi rappresentiamo.

Non ho controprove, naturalmente. Ma non credo di sbagliarmi se dico che se ci avessero dato ascolto – tra novembre e gennaio dello scorso anno – quando dicemmo “restituite subito, usate il tesoretto a favore dei pensionati con le pensioni più basse, a favore lavoratori, come non a caso ha fatto Zapatero immediatamente rieletto presidente del Consiglio in Spagna. Non so se sarebbe cambiato risultato elettorale, ma so che una parte della nostra gente avrebbe avuto un motivo in più per riconsiderare la propria critica all’azione dei comportamenti del governo di centrosinistra.

Poi, tra tutte, io credo abbia pesato la divisione permanente in seno alla maggioranza e al governo. Non in sé. La storia del nostro paese è piena di governi e di maggioranze che si sono divise, ma proprio in un momento in cui la gente vive questo stato di insicurezza sul proprio futuro, talvolta sul proprio presente, avere un governo che attraverso l’insicurezza che si determinava dalle proprie divisioni interne non dava al paese il senso di sapere dove lo voleva portare con una linea rispettosa del programma, del patto sottoscritto con i cittadini, secondo me ha finito per rappresentare l’ulteriore elemento negativo da cui si può, credo onestamente, leggere anche l’andamento del voto.

Noi lo abbiamo provato ad analizzare il nel nostro comitato direttivo, e avremo altre occasioni di riflessione. Il voto dei lavoratori e dei  pensionati che cosa ci dice rispetto alle elezioni precedenti e quelle ancora prima? Ci dice una verità che sapevamo: che il voto dei lavoratori e dei pensionati è diventato più mobile. Esattamente come è diventato più mobile nella società italiana il voto dei cittadini. È dalla fine degli anni 80, dall’inizio degli anni 90 con la scomparsa dei grandi partiti ad appartenenza forte, a radicamento sociale forte, che il voto delle persone che lavorano o di coloro che stanno in pensione è diventato più mobile. Non abbiamo scoperto oggi il voto alla Lega nord dei tanti operai nelle aree più sviluppate del paese. Lo aveva per primo riconosciuto l’inchiesta della Fiom e poi quella dell’Ires. E noi sappiamo – perché poi la storia è andata avanti e non va avanti solo in un senso – che quel voto operaio che agli inizi degli anni 90 andò molto alla Lega poi tornò indietro, quando la Lega ebbe responsabilità di governo, e che nel 2006 andò in un certo modo  e oggi è ritornato in un altro modo. E la stessa cosa vale per il voto operaio, mentre si conferma ancora oggi che la maggioranza del voto dei lavoratori pubblici e della scuola continua ad andare alle forze di centrosinistra ma non nella misura in cui lo ha votato nel 2006, e che i pensionati questa volta si sono divisi più equamente nei confronti delle forze progressiste rispetto alle forze moderate.

Questo è il quadro politico che il voto ci consegna. Un quadro politico europeo, un quadro politico nazionale, un governo forte, una maggioranza più coesa di quanto non lo fosse nelle precedenti esperienze, una maggioranza che non vince solo nelle regioni del Nord ma vince in maniera molto netta in tutte le regioni del Mezzogiorno, tranne nelle due più piccole. Vince in Campania, in Sardegna, vince ovviamente in Sicilia, rivince in Puglia e in Calabria. Un governo che si presenta, anche a ragione di questa sua forza elettorale, e secondo me anche attraverso una riflessione degli errori compiuti nelle volte precedenti, con un tono dialogante. Come forze – l’ho detto l’altro giorno alla conferenza della Funzione pubblica – alla “maniera democristiana”, come forza di governo che vuol rassicurare e mediare. E quindi un contesto politico particolarmente impegnativo per tutti, anche per noi: per quello che siamo, per i nostri insediamenti, per le nostre parole d’ordine, per i nostri programmi, per le nostre politiche di riforme e politiche rivendicative. Naturalmente questa maggioranza e questo governo hanno tante contraddizioni al loro interno e sarà bene vederle, senza illusioni ma vederle e riconoscerle. E già si vedono dai primi atti, quando Tremonti dice che non c’è il tesoretto e poi nel Consiglio dei ministri della prossima settimana spenderà dai 3 ai 5 miliardi di euro, è evidente che è un modo di utilizzare quel tesoretto. Il quale non fu speso nella direzione della nostra piattaforma sul fisco, ma esattamente in direzione opposta. Così come c’è contraddizione in un governo che deve dialogare con tutte le organizzazioni sindacali, nessuna esclusa. E contemporaneamente, però, ovviamente non potrà che rispettare il proprio programma in una condizione di ristrettezza delle finanze. Però poi non ce n’è più, perché non siamo in una fase in cui puoi ridurre l’Ici, la tassazione sugli straordinari e poi dare le detrazioni al lavoro dipendente, ai pensionati  e poi anche intervenire sulle tariffe e sui prezzi.

Questo per noi vuol dire una cosa semplice, che però dobbiamo tenere ferma: noi di fronte a un governo che ha questa forza, che ha avuto un mandato popolare così grande, che rappresenta programmi e ambizioni che non sono le nostre, non possiamo giocare solo di rimessa, ma dovremo giocare con intelligenza, nelle contraddizioni che si aprono sul terreno delle proposte, e però essere capaci di segnare anche noi nel confronto, nelle mobilitazioni, in quello in cui sappiamo stare in campo, le nostre priorità e le nostre scelte.

E le nostre priorità e le nostre scelte non dobbiamo inventarle. Noi non dobbiamo riscoprire niente. Dobbiamo mettere assieme le cose che abbiamo chiesto al vecchio governo senza averle ottenute e le priorità che l’azione di questo governo può rendere più complicato. Penso in modo particolare che dobbiamo – e lo faremo dall’incontro della prossima settimana – rimettere al centro la grande richiesta di un aumento delle detrazioni fiscali per i pensionati e per il lavoro dipendente.

Prima ricordavo Zapatero, e mi veniva in mente mentre venivo qui oggi il segno diverso che ha un’operazione che punta a spendere 4-5 miliardi sull’Ici e la detassazione degli straordinari, rispetto a quello che ha fatto Zapatero: 400 euro per cittadino e si aiuta la proprietà non riducendo il patrimonio sugli immobili ma aiutando i mutui delle famiglie che, in ragione della variabilità dei tassi, non ce la fanno a sostenere gli impegni che hanno contratto. Un’altra modalità di sostegno alla condizione di chi non sta bene. Non a caso, tra le contraddizioni visibili dell’azione di governo, c’è che alcune alcune cose sono sparite. Della condizione degli anziani e dei pensionati non ne parla più nessuno, non si parla più di non autosufficienza – lo dico rispetto alle nostre richieste – non si parla più di reddito dei pensionati, non si parla più di adeguamento del potere d’acquisto dei pensionati e non si parla più di come intervenire per calmierare i prezzi delle tariffe.

Io ricordo che l’esperienza passata del governo Berlusconi, dal punto di vista del mancato controllo della dinamica dell’inflazione, portò il paese a riprendere in un periodo di inflazione calma a livello internazionale, a ripartire. E avverto il rischio, tanto più oggi, in presenza di tensioni inflazionistiche così importanti a livello dei mercati delle materie prime, che un governo che non avesse come sua cura quella di mettere sotto controllo la dinamica dei prezzi, finirebbe per accelerare quella componente internazionale non comprimibile, aggiungendoci una componente interna che invece dovrebbe agire nel senso opposto.

Così come dovremmo stare molto attenti alle politiche che il governo farà su due settori fondamentali del diritto di cittadinanza e della condizione delle persone: la scuola e, in modo particolare, il senso e il segno di una scuola universale e pubblica, laica, uguale per tutti i cittadini di questo paese. Secondo: la sanità, nella sua qualità e nella sua universalità di servizi.

Così come dobbiamo chiedere subito, su due questioni che ci stanno a cuore, delle risposte. La prima: che fine intende far fare il governo al decreto sui lavori usuranti approvato nelle ultime settimane dal governo di centrosinistra? Non era il testo che volevamo, ma non è la stessa cosa se i contenuti di quel testo vengono riproposti o vengono definitivamente cancellati. Perché vuol dire allora, da quel punto di vista, tornare indietro rispetto alla cosa importante che ottenemmo: non far considerare tutti i lavori attuali rispetto alla condizione che il lavoratore vive. E sulla sicurezza, e su questo siamo unitariamente impegnati, dire al governo che il decreto approvato esattamente l’ultimo giorno della vita del precedente governo, non va cambiato, non si può modificare. E non soltanto perché non è giusto in sé, ma perché se è un decreto appena approvato, neanche è entrato in vigore e magari viene modificato con una discussione che impegnerà settimane e mesi, vuol dire che in questo periodo noi saremo nella terra di nessuno, dove nessuna azienda, nessun lavoratore, nessuno saprà se il nuovo decreto si applica subito e, soprattutto, in prospettiva deresponsabilizziamo ancora di più le imprese dall’intervenire con propria responsabilità attiva su questo terreno. Così come non c’è dubbio che noi diremo con la forza necessaria che la misura che il governo intende assumere sugli straordinari fuori da ogni ideologia, che più giorni passano e più si rivela confusa, pasticciata e anche per molti versi assolutamente non utile.

Ogni giorno che passa ne leggiamo una. Oggi, un limite di tetto di reddito: detassazione del 10% degli  straordinari per i redditi sotto i 35 mila euro. Si legge che il settore pubblico ne sarebbe escluso. Ognuno di questo apre contraddizioni. Pensate soltanto che finiremmo per avere un ospedale privato in cui un lavoratore che facesse straordinario, lo vedrebbe tassato al 10%, e un lavoratore di un ospedale pubblico che fa lo straordinario non avrebbe lo stesso risultato. Oppure un asilo nido privato, in cui i lavoratore che fa lo straordinario avrebbe quel vantaggio e un lavoratore di un asilo nido pubblico che non lo avrebbe.

Oltre tutte le contraddizioni che qui sono state dette, si incentiverebbe l’orario individuale, si finirebbero per far saltare gli accordi di flessibilità che sono stati fatti, si aprirebbe inevitabilmente un problema di reddito tra uomo e donna, stante le diverse possibilità di accesso a questo finirebbe per aprire – diciamo la verità – una rincorsa salariale nel modo peggiore all’interno delle aziende, sapendo che abbiamo ovviamente settori importanti nel mondo del lavoro che hanno lo straordinario forfettizzato e ci sono settori in cui lo straordinario, nei limiti del contratto, è possibile.

Infine l’ultima cosa che dovremmo dire con forza al governo è che deve stare attento a come coniuga la giusta domanda di sicurezza con alcune fondamentali questioni di diritto, di rispetto dei diritti umani e dei doveri dell’ospitalità, fra tutte penso che dovremmo dire “no” con forza alla richiesta di introdurre il reato di clandestinità per le persone migranti che vengono a lavorare nel nostro paese, così come dice l’Unione europea e così come dicono gli osservatori più avveduti.

E cosa ci chiede inoltre questo quadro politico? Io credo che ci chieda di tenere fermo un lavoro unitario tra le grandi organizzazioni sindacali confederali. Proprio la forza di questo insediamento di governo e le idee e i modelli di società che ha, ci portano a tenere un rapporto unitario con le altre organizzazioni sindacali. Perché sui grandi temi abbiamo elementi comuni che sarebbe sbagliato non far pesare se non con un fronte comune.

Il documento unitario sulla riforma della contrattazione e della democrazia che i tre direttivi unitari hanno approvato, non nasce da oggi. Vedete, mi sono sentito dire in questi 4-5 anni che io avrei frenato sempre tutto, perché mi alzai dal tavolo per il fatto che le cose che avevamo definito con Montezemolo poi non furono rispettate. Montezemolo si lamenta del fatto che la Cgil si sia alzata dal tavolo, ma si scorda di aggiungere che quel tavolo doveva avere come cuore del suo confronto i temi del Mezzogoirno e della politica industriale, non quelli della politica contrattuale. E perché? Perché io ho sempre tenuto, la Cgil ha sempre tenuto ferma un’opinione indiscutibile di modello contrattuale se prima non c’è una posizione di Cgil, Cisl, Uil per affrontare questi temi.

Questo è stato il tema che ci ha tenuti fermi su questa posizione. E, per le scelte del nostro congresso, non bastava una posizione comune sulle politiche del modello contrattuale perché noi avevamo chiesto a Cisl e Uil di avere un punto di vista condiviso sui temi della rappresentatività e della democrazia sindacale. E ho sempre, abbiamo sempre detto che senza un accordo sulla democrazia non ci sarebbe mai stata un’intesa sul modello contrattuale. Oggi ci troviamo di fronte a un testo che per la prima volta da anni ci consente un approdo unitario al modello della democrazia e della rappresentatività. E io credo che questo sia un passo importante.

Ho sentito nella discussione, in quello che ha detto nella relazione di Rinaldini, che lui ha detto anche al Cd forte preoccupazione e contrarietà. Io devo dire che non condivido una parte dellel documento la lettura che qui viene data. E lo voglio dire con franchezza, pacatamente ma con determinazione, provando ad argomentare punto per punto il perché il documento contiene scelte che non ritrovo nelle critiche che sono state fatte qui.

Si dice che il primo livello di contrattazione, il contratto nazionale, ne uscirebbe depotenziato, io sono convinto esattamente del contrario. Sia assumendo come riferimento il 23 luglio, sia assumendo come riferimento quello che è avvenuto negli anni di contrattazione. C’è soprattutto un’affermazione inequivoca all’inizio della definizione del primo livello, che io credo vada apprezzata per quello che esprime, perché quando si dice che il livello del contratto nazionale è quello che deve garantire nei fatti – traduco – la sinteticità del testo “l’universalità dei diritti” e il fatto che quel contratto, nelle sue norme, nelle sue condizioni, valga per ogni azienda del paese, per ogni azienda del paese in quel settore e per ogni parte del paese, c’è un’affermazione fortissima del valore unitario del contratto nazionale. Esattamente quello che la compagna Marano qui chiedeva: un contratto che mi valga per Milano e mi valga per Palermo, in un’affermazione esplicita contenuta nella premessa della valutazione del testo.

Così come il fatto che non ci sia più soltanto la parola “difesa” del salario, ma “valorizzazione e sostegno” vorrà pure dire qualcosa. E provo a chiarire quello che vuole dire, che sono sostanzialmente tre cose.

La prima. Quando noi assumiamo quel termine – sul quale ho visto qualche esercizio di critica – “inflazione realisticamente prevedibile”, con gli indicatori che sono stati approntati, vuol dire una cosa semplice: che i futuri contratti, qualora quel testo diventasse l’accordo, almeno nelle intenzioni di Cgil, Cisl, Uil, abbandonano l’inflazione programmata, che però c’è ancora nel testo non disdettato dell’accordo del 23 luglio, e non assume l’inflazione del paniere Istat per impiegati e operai, ma pone due riferimenti oggettivi – non soggettivi – come il deflatore dei consumi interni o l’indice armonizzato europeo corretto con il peso dei mutui, che vogliono dire una cosa precisa, e cioè si assume un’indicatore dell’inflazione che rispetto a quelli che l’Istat ha usato fino a oggi è molto più sensibile alla crescita dei prezzi dei beni e dei consumi. Per capirci, è molto più favorevole di quello che fino ad oggi anche noi, superando il 23 luglio, abbiamo adottato. Secondo. Nel momento in cui il contratto nazionale diventa e si conferma – forse ancora di più rispetto al passato – sovraordinato anche nelle materie regolative e normative rispetto al passato e al 23 luglio, è evidente che tutti i costi della parte normativa non sono confutabili come era nel 23 luglio addirittura dentro l’indicatore dell’inflazione programmata.

Terzo. Si assume prendendolo dalla vostra esperienza ma anche da quella di altre categorie, ma rendendola parzialmente diversa, la possibilità che il contratto nazionale per tutte le aziende – non soltanto quindi per quelle che non fanno contrattazione – definisca uno zoccolo, una base per tutti, sulla quale poi sviluppare e aggiungere la contrattazione di secondo livello.

Quarto. Rispetto a quell’indicatore di cui parlavamo prima, l’accordo prevede un recupero in tempi certi, non abbiamo specificato lo strumento, ma è chiara la scelta e l’indicazione che il testo contiene. Aggiungo anche – perché so che anche questo è un tema della discussione – che quando nel testo si dice che bisogna rafforzare le sedi di confronto tra le parti sulle dinamiche dell’economia generale e sulle dinamiche dei settori, vuol dire (così come non io ma Raffaele Bonanni ha detto ai tre comitati direttivi) che nel caso in cui i settori – nell’andamento ciclico dell’economia e nelle diversità dei settori – avessero forti incrementi di produttività e di crescita, che una quota di produttività ovviamente può essere spesa anche al primo livello.

Aggiungo infine – e vi prego di seguirmi su questo passaggio, perché capisco che sia delicato ma credo anche importante – che un problema che avremo nei prossimi anni, per una fase non breve ma non sappiamo dire quanto lunga, è probabilmente un andamento dell’inflazione a salire e con difficoltà di prevedibilità. Questo perché siamo entrati in una fase in cui – con l’aumento delle materie prime, che va dal dal pane fino ai prodotti petroliferi – diventerà più difficile avere un quadro certo. Probabilmente non avremo un’inflazione a 2, 2,2 o 2,3%, ma di più. Ma se è così, se il cuore fondamentale della redistribuzione è esattamente al contrario dell’impostazione del 23 luglio, non è fare una programmazione dell’inflazione che gioca d’anticipo per ridurre l’inflazione attesa… ma è esattamente quella di recuperare integralmente l’inflazione. E il contratto nazionale pesa di più oggi, in questa’impostazione, proprio perché avremo di fronte a noi un’inflazione di questo valore e di questo significato.

Aggiungo anche, rispetto a preoccupazioni che c’erano rispetto alla prima stesura, che nel testo non ci sarà nulla che parla di deroghe alla contrattazione. È esattamente il contrario: dove si parla di rapporto tra il primo e il secondo livello si dice che il secondo livello dovrà migliorare il primo livello.

Anche sul secondo livello ho ascoltato le obiezioni che sono state fatte. Però consentitemi di dire che il documento non dice questo. Il  secondo livello viene definito come accrescitivo. Rinaldini usa un altro termine, che però gli assomiglia: “livello acquisitivo”. Non viene da nessuna parte postulato come generalizzato il premio variabile. Si parla di diversi indicatori, di diverse possibilità. Compresa la qualità degli investimenti. C’è un paniere di riferimento di indicatori molto più ricco, perché? Perché è la situazione della contrattazione, è molto più vasta e molto più diffusa.

Voglio anche aggiungere, perché vedo che non se ne parla, che quando noi poniamo il problema dei tempi dei rinnovi, della funzione che non è piena dell’indennità sostitutiva, del rapporto che c’è tra quando scade il vecchio e il nuovo contratto e dei periodi vuoti in mezzo, unitariamente si vuol porre l’attenzione sull fatto che la crescita del potere d’acquisto non si ha soltanto se scrivi una cifra lì, ma ce l’hai soltanto se scrivi una cifra lì e le modalità con cui la capienza piena di questi aumenti vive nel periodo, ti consente di recuperare il potere d’acquisto o meno.

Perché tu puoi perdere potere d’acquisto anche chiedendo di più ma facendo scaglionamenti o ritardi o slittamenti che poi ti portano ad avere alla fine di più ma ad aver perso nel periodo un montante retributivo e salariale molto forte. Io penso che anche il secondo livello, nelle modalità con cui è scritto, l’azienda, il sito, la filiera, il territorio per dove non si fa contrattazione aziendale, sia la modalità più corretta che renda conto delle diversità delle esperienze che sono  in campo.

Infine, la democrazia e la rappresentatività. Io credo che ci sarà un motivo se molti han detto che da questo punto di vista il documento rappresenta un salto in avanti importante. Io credo che sia così. È da vent’anni che la Cgil ha detto alla Cisl e alla Uil di assumere un orientamento comune in base al quale gli accordi sottoscritti, prima di diventare firmati effettivamente, siano sottoposti al voto dei lavoratori e dei pensionati. Lo abbiamo fatto nel ’93, lo abbiamo fatto sul welfare, ma non abbiamo mai raggiunto un’intesa in cui questo aspetto fosse chiarito con la forza nella quale è emersa in questo documento. E, giustamente, è stato fatto osservare che neanche quando c’era la gloriosa federazione Cgil, Cisl, Uil, in materia di democrazia, c’è mai stato un documento unitario che contenesse quello che, su questo aspetto, il documento propone.

Io lo so che per la vostra esperienza è un dire: “noi lo facciamo già”. Però vi prego di credere che per gli accordi confederali non è stato così: ogni volta te lo sei dovuto conquistare. E vi prego di credere che per tante altre strutture o categorie, questo ancora oggi non avviene. Quando si afferma nel testo che a questi criteri fondamentali debbono uniformarsi anche i comportamenti delle categorie, vuol dire che né più né meno che l’impegno che prendono Cgil, Cisl e Uil da oggi in poi, è che in tutte le strutture, di fronte ad accordi che hanno carattere generale, l’ultima parola spetta nel caso specifico ai lavoratori e ai pensionati rispetto alle materie e alle situazioni.

Aggiungo anche che le norme in materia di rappresentatività non sono poco significative. Aver provato per la prima volta a mettere un po’ di trasparenza per tutti, anche per noi, a provare a verificare se il mix tra le iscrizione certificate e il voto, potessero essere un problema al nodo che dai tempi dello Statuto ci portiamo dietro, di come si misura la rappresentatività, è un altro passo in avanti  importante. È un atto di trasparenza, di autoriforma. Lo stesso ragionamento contenuto nella relazione Francesca, sulle deleghe, sul rinnovo senza o accompagnato da questo processo di trasparenza, avrebbe un peso e un significato ancora più pieno.

E io credo che sia un altro passaggio importante perché superiamo quella tautologia che c’era nello Statuto dei lavoratori: chi tratta? I sindacati maggiormente rappresentativi.  Chi sono quelli maggiormente rappresentativi? Oggi si definisce su una base il più possibile certa, c’è un percorso, ci sono degli strumenti, ci sono delle sedi, dei criteri seri che vengono proposti, una riforma della rappresentatività delle grandi organizzazioni. E questo consentirà a tutti di non dire che si rappresentano milioni di persone quando magari si rappresentano centinaia di migliaia di lavoratori. E nessuno si potrà arrogare il diritto di poter parlare senza che il fondamento della propria rappresentanza sia stato verificato e definito. Questo è uno di quei processi di riforma dei corpi e della rappresentanza sociale e civile che da tanto avevamo chiesto. E se un problema c’è, questo problema è che non può riguardare solo il sindacato, perché è un problema di misurazione della rappresentatività così come il sindacato lo propone. Se lo devono porre tutti: le associazioni dei consumatori, le associazioni che operano a tutela di interessi, il sistema delle imprese, è una sfida che noi possiamo lanciare al sistema delle imprese a proposito di lezioni sulla trasparenza e la veridicità sui dati associativi che ci riguardano.

Su quello che c’è scritto nel testo abbiamo deciso di fare correttamente una fase di confronto e di discussione, di verifica, in tutti i posti di lavoro e tra i pensionati. Con una registrazione degli andamenti delle assemblee perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di questa relazione democratica, non come fatto occasionale, ma come fatto permanente. E ne abbiamo bisogno perché il confronto su questi temi sarà duro, sarà duro.

Ho detto l’altro giorno e lo ripeto qui – non ho paura di dire una cosa che penso: il problema di questa piattaforma non è che è troppo bassa, il problema vero di questa piattaforma è che incrocia dal governo al sistema delle imprese opposizioni, opinioni. Sono state dette nelle assemblee, viste, le leggiamo tutti i giorni… Lo sappiamo tutti i giorni… vanno in una direzione diametralmente opposta tra chi vuole il contratto nazionale forte solo per togliere potere alle Rsu e chi lo vuole invece così debole perché in ogni azienda si possa fare quello che si vuole, tra chi vuole – non si chiamano più gabbie salariali ma contratti differenziati per territorio. Montezemolo ha detto tra Nord e Sud, per esprimere esattamente un concetto preciso di cosa invece vogliono dire le gabbie salariali.

Sarà difficile, perché un governo che non rinnova i contratti pubblici è un interlocutore particolarmente difficile, come sarà difficile la nuova Confindustria e saranno difficili una serie di controparti a partire dalla Confcommercio che, ancora oggi, nega il contratto di lavoro alla sua categoria più grande: quella dei lavoratori del commercio.

In ragione di questo io credo che noi non avremmo bisogno di un dissenso tra di noi.

Lo dico onestamente e sinceramente – come son capace io – proprio di fronte al merito che io valuto positivamente questa piattaforma e alle difficoltà delle nostre controparti, noi avremmo bisogno di una forza unitaria, non solo nostra, ma di tutto il movimento sindacale. Perché naturalmente la sfida che abbiamo di fronte è particolarmente difficile. E vedete, proprio in queste ore due conferenze d’organizzazione di due categorie un po’ agli antipodi hanno chiuso unitariamente i loro lavori proprio su questo punto. Anche quello del modello contrattuale. La conferenza d’organizzazione della Funzione pubblica, la conferenza d’organizzazione di una delle categorie che ha il maggior numero di operai nel nostro paese: operai agricoli e operai alimentaristi. Hanno chiuso i loro lavori con un documento e con un’impostazione che assume il quadro delle difficoltà di merito che sono state proposte. Naturalmente io capisco un’altra discussione, la leggo, l’ho visto: negli interventi vostri, in quello che ho ascoltato, il contesto, il quadro, le difficoltà, la durezza delle nostre controparti, lo dobbiamo fare adesso, perché questa è la vera discussione.

Voglio dire un’ultima cosa: noi abbiamo bisogno in queste condizioni di ritessere un  modello unitario per il mondo del lavoro, e siccome il quadro di fronte a noi è così difficile  e siccome potremmo non farcela sarebbe meglio non provarci. Questo è il tema. Questa è la questione. Riconosco che questo è un punto vero, spesso anche nelle nostre discussioni, e ci ho riflettuto a lungo anch’io. Ho rivisto il documento conclusivo del nostro congresso, quello unitario. Se lo andiamo a rielggere viene riconfermato con forza la necessità di avere un modello contrattuale unitario per tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro paese. E io penso che questo obiettivo noi lo dobbiamo tenere vivo, aperto, e perseguire in ogni contesto di fronte a noi. Anche quando sembra tutto più difficile, per una ragione semplice: io qui trovo la risposta al problema che noi abbiamo tra un modello vecchio – il 23 luglio – che abbiamo tirato da tutte le parti ma appunto perché l’hai tirato da tutte le parti ormai non c’è più e l’assenza di modelli. Io credo che noi dobbiamo seriamente, serenamente, con le preoccupazioni ma senza paura, provare a riconquistare un modello unitario. Se noi non ce la facessimo, o se noi non provassimo a farlo, il risultato non ci lascerebbe così come siamo. Perché quello che oggi è fondamentale in un’economia di mercato fatta dall’assenza di regole è esattamente ri-regolare  una parte delle condizioni nelle quali il lavoro oggi si rappresenta.

Abbiamo bisogno noi di un modello unitario, in assenza di un modello unitario e risultato definito avremmo una situazione per i pubblici, una situazione per i  meccanici, una situazione per i chimici, una situazione per il commercio, una situazione per l’agricoltura con uno shopping contrattuale in cui noi non decideremo più niente. E saranno le aziende a scegliere quello che vogliono dalle diverse soluzioni che i rapporti di forza determineranno. E siccome il modello serve non a imbrigliare le categorie più forti – perché non lo è mai stato nel medio periodo – ma a sostenere chi ha più problemi a rinnovare i contratti, io credo che sia un imperativo, nella logica e nei valori che ha il sindacato confederale, che noi ci proviamo anche nelle condizioni difficili che abbiamo di fronte a noi.

Questo è il lavoro che dobbiamo fare. Senza modello unitario – uso qui un’espressione che talvolta Gianni [Rinaldini] usa – avremmo, allora sì, un sindacato di mercato, nel senso di un sindacato che vive tanti modelli quanti sono i mercati di impresa, i mercati di settore, i mercati di riferimento, che a quel punto si imporrebbero.

Naturalmente sono invece d’accordo con tutte le compagne e i compagni che hanno posto un problema vero: come contrattare di più e contrattare meglio, come utilizzare la riforma anche della nostra rappresentanza a partire dai delegati per avere un rapporto più stretto tra controllo delle condizioni e contrattazione. E voglio anche dire che il problema di fondo tra il contratto nazionale e il contratto di secondo livello è che – ovviamente – svolgono due funzioni complementari, essenziali l’una all’altra e viceversa. Perché senza un contratto forte fai fatica ad avere contrattazione di qualità e senza contrattazione decentrata di qualità fai più fatica ad avere un contratto forte. Questo è l’equilibrio che credo ognuno possa convenire.

Ma c’è un punto però – fermo restando questa verità, che è la verità che dobbiamo tenere dentro di noi – sul quale non possiamo non convenire a sua volta: che un sindacato è forte se ricostruisce dal basso le sue presenze, le sue rappresentanze, le sue radici. La nostra forza, quello che ci fa forti in alto è quello che giorno dopo giorno conquistiamo e strappiamo nei luoghi di lavoro e nel territorio. Ed è questo il senso profondo della nostra conferenza di organizzazione.

Io penso che, in ragione di questo e rispettando tutte le opinioni che ci sono in campo, possa rappresentare un problema il fatto una grande struttura quale voi siete, la più grande struttura nel settore dell’industria possa avere sulla piattaforma delle modalità che poi si avranno, un orientamento diverso. Ma non perché sogno o immagino una Cgil in cui non si possa liberamente decidere ed esprimersi. No, dal punto di vista della forza e della coesione di cui avremmo bisogno per un confronto così forte e così delicato. E perché da persona sincera e onesta quale io sono, so anche che ci sono delle conseguenze: perché se non si è d’accordo su una piattaforma diventerà difficile – eventualmente ci si arrivasse – essere d’accordo sull’accordo. E se non si è convinti di una mediazione unitaria si farà uno sforzo – lo so, lo farete – per sostenere questo lavoro. Ma se non si è convinti dentro sarà poi difficile fare un fronte comune.

Questo per me rappresenta anche un problema personale. Perché? Perché mi sono battuto, e mi batterò, perché quel documento, quella prospettiva possa avere il consenso convinto più ampio. Rispetterò l’opinione contraria, ma voglio – con la chiarezza necessaria che è nelle fasi difficili e con le parole oneste che spero potrete apprezzare anche avendo, per chi la ha, un’opinione diversa – dirla esattamente come la penso: non era questo, non su questo il tempo della divisione tra di noi.

Rispetterò qualora facciate questa scelta, ma devo dire che sarebbe stato meglio per tutti una scelta diversa. Rispetterò qualsiasi scelta, mi assumerò la responsabilità nell’ambito delle mie prerogative e di quel lavoro di collegialità che nella Cgil è, anche in condizioni difficili, fare il meglio per tutti. E so, e me lo dice la relazione di Rinaldini, che su questo potrò e potremo contare sulla Fiom. Per questo proviamo a lavorare assieme, ragionando gli uni sugli altri, sulle cose dette, su quello che ho ascoltato, che mi sento di dirvi con la chiarezza di cui sono capace e proviamo a ragionare che nella fase lunga che abbiamo di fronte, quando sono in ballo destini e problemi di questa complessità e di questa delicatezza, che talvolta restare uniti è meglio che avere una scelta diversa. E vale per tutti, vale per me e vale per chi non la pensa come me. Io mi atterrò sempre a questo criterio: lavorare per ricomporre, mai per dividere. Lavorare per avere più forza, mai per avere meno forza; perché poi al dunque un modello contrattuale è sempre un modello contrattuale, quello che conta sarà poi come le politiche contrattuali, la gente in carne e ossa, i nostri delegati, le nostre strutture, sapranno – dentro i precorsi che avremo – comportarsi con la responsabilità che sanno e che io so non mancherà in nessun passaggio.


 

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