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Bollettino
bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi
Numero
speciale "11 settembre"
Commenti
- Dalla
montagna di commenti abbiamo selezionato quelli che a nostro parere sono più
illuminanti e più autorevoli, e li abbiamo suddivisi in tre sezioni: la
guerra; i motivi del diffuso odio contro gli Stati Uniti e il mondo
occidentale; l’islamismo. Non si tratta di vere e proprie analisi, ma ciò
che dicono è estremamente significativo - specialmente sui motivi
dell’odio antiamericano e su che cosa si dovrebbe fare al posto della
guerra. Ovviamente, riferiamo
opinioni altrui - e tali le lasciamo, anche se abbiamo scelto quelle che
almeno in parte possiamo condividere (ma senza scartare troppo). Lo scopo è
evidente: se in altri stati di guerra occorreva anzitutto misurare la forza
delle armi e i motivi economici e politici del loro impiego, in questo
conflitto dobbiamo anzitutto far luce in un meandro di motivi che sono
anche, forse soprattutto, ideologici. E diciamo la verità: siamo al buio.
-
- La
guerra
-
- New York Review
of Books
- “La
prima domanda che viene in mente non ha ancora avuto una risposta. Chi
stiamo combattendo? Se si tratta di bin Laden e dei suoi associati, per
quanto formidabili siano, rischiamo di scoprire che individuare e
smantellare la loro rete è probabilmente un compito lento e frustrante in
un mondo senza muri, e che anche i successi in questa particolare lotta non
porranno fine a molte altre forme sanguinose di terrorismo”. La guerra in
Afghanistan è già di per sé carica di rischi, ma poi “dovrebbero gli
Stati Uniti far la guerra a coloro che essa ha dichiarato essere Stati
terroristici, o sostenitori dei terroristi, anche se i loro legami con bin
Laden sono ipotetici e dubbi? Questa lista include Stati che adesso
promettono di aiutarci (la Siria e il Sudan), come pure stati che sono da
tempo nostri nemici (l’Iraq) o mezzo nemici (l’Iran); e tentare di
‘punirli’ potrebbe avere effetti a boomerang e ridurre
l’appoggio internazionale per gli Stati Uniti”.
- “La
seconda domanda riguarda i mezzi con cui condurre questa guerra. L’accento
che l’amministrazione ha posto sulle differenze tattiche è stato saggio.
Il terrorismo dovrebbe essere combattuto come un reato criminale contro
degli innocenti, proprio come si fa con la nostra criminalità. Più
efficaci delle operazioni militari sono probabilmente gli strumenti della
polizia e della counter-intelligence, compresa la paziente raccolta di informazioni,
la silenziosa penetrazione delle cellule, il taglio delle connessioni
finanziarie, lo smantellamento delle comunicazioni utilizzate dalle reti
terroristiche. Gli attacchi militari rischiano di provocare un danno
politico, indebolendo i regimi che ci lasciano operare dal loro territorio,
o i regimi amici posti davanti a un’opinione interna vacillante (Pakistan,
Egitto, Arabia saudita). (...) Come possiamo allora combattere il terrorismo
senza indebolire la nostra posizione in un mondo in cui l’appoggio di
altri governi e popoli è essenziale? Un motivo di prudenza nel punire
governi che aiutano il terrorismo è che non potremmo evitare di punire
anche le loro società (e così facendo possiamo aumentare nettamente
l’ostilità di massa nei nostri confronti); e nel caso peggiore ci
troveremmo, dopo il collasso di coloro che sono oggi al potere, davanti al
terribile compito di trovare nuovi leaders che non appaiano come nostre marionette”.
- Una
terza questione riguarda “l’unilateralismo americano”. “Com’è
spesso accaduto in passato nella Nato, il rischio è che guardiamo ai nostri
alleati come partners minori della nostra impresa, cui si chiede di integrare e
sostituire le nostre forze e di pagare per il bene comune. (...) Se la
nostra è la causa dell’umanità, se il terrorismo contro dei civili
minaccia tutti, se la sicurezza da attacchi terroristici è un bene pubblico
universale, allora dovremmo comportarci non come un paese che cerca vendetta
per ciò che ha subìto e ha la forza di torcere il braccio a chiunque nel
mondo, ma come un paese che cerca un ampio mandato, accettando le norme e le
limitazioni della legge internazionale”. E infine, l’ultima domanda:
“Chi dirigerà la “nuova guerra dell’America? I professionisti della
violenza (in larga parte dei civili), o coloro che si rendono conto dei
limiti della nostra potenza?”. Inutile dire che non c’è ancora
risposta.
-
- Le
Monde
- Domanda: “Qual è la logica
dell’operazione militare americana?”
Risposta: “ Nell’immediato, degli attacchi per abbattere le
magre difese antiaeree e l’infrastruttura militare fissa dei talebani,
allo scopo di permettere le eventuali operazioni ulteriori, specialmente
l’invio di forze speciali aeroterrestri e di facilitare le operazioni
dell’opposizione afghana. Questo può sboccare anzitutto sulla caduta del
regime talebano e poi - si può sperare - su operazioni di destabilizzazione
delle organizzazioni di al-Qaida”.
- D. “Lei ha un pronostico sulle
possibilità di successo?”
R. “Sapremo presto se il
governo pakistano riesce a farcela o no. Se sì, c’è una chance di assistere allo scenario che dicevo: entrata
dell’opposizione a Kabul, riunione di una grande assemblea e tentativo di
instaurare un governo, con o senza il re; insomma, un ambiente in cui le
forze speciali potrebbero più facilmente dar la caccia agli elementi arabi
di al-Qaida. Se il governo pakistano dovesse invece cadere, ci troveremmo in
un territorio totalmente sconosciuto. Sarebbe un fattore di
destabilizzazione sia nel sottocontinente indiano, sia nell’insieme del
Medio Oriente”.
- D. “Lunedì scorso gli
americani hanno fatto sapere all’Onu che non escludono interventi in altri
paesi, oltre all’Afghanistan...”
R. “Appunto per questo parlo di
Colin Powell piuttosto che dell’amministrazione americana. Non è un
segreto per nessuno che il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz vorrebbe
regolare i conti anche con l’Iraq; né è un segreto che gli americani
pensano che lo Yemen non ha cooperato nella caccia agli autori
dell’attentato con l’Uss Cole, nell’ottobre 2000. Andare aldilà degli
scopi di guerra che consistono nel colpire al-Qaida o gli Stati che
l’hanno sostenuta, vuol dire esporsi a un rischio aggravato di
destabilizzazione dell’insieme del Medio Oriente”.
- Perchè?
-
- Guardian [3]
- “
Due giorni dopo i terribili attacchi A New York e Washington, è penosamente
chiaro che la maggior parte degli americani non capiscono il perché. Dal
presidente sino ai passanti per le strade, il messaggio sembra essere sempre
lo stesso: è un attacco inesplicabile alla libertà e alla democrazia, cui
bisogna rispondere con una forza schiacciante”. Forse, mentre ancora si
scava tra le macerie, solo pochi possono stabilire un rapporto tra
l’effetto e le sue cause; eppure “da quando il padre di George Bush
lanciò il suo nuovo ordine mondiale un decennio fa, gli Stati Uniti,
sostenuti dal loro alleato britannico, spaziano per il mondo come un
colosso. Senza limitazioni imposte da altre superpotenze, il gigante
americano ha ridisegnato a proprio vantaggio il sistema finanziario e
commerciale globale; ha stracciato una fila di trattati che non gli
convenivano; ha mandato truppe in tutti gli angoli del mondo; ha bombardato
l’Afghanistan, il Sudan, la Yugoslavia e l’Iraq senza preoccuparsi delle
Nazioni unite; ha mantenuto una serie di embargo omicidi contro dei regimi
recalcitranti; e ha sprezzantemente gettato il proprio peso a sostegno
dell’illegale occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, che
dura da 34 anni”. “È questo passato di sfrontato egoismo nazionale e di
arroganza che alimenta l’antiamericanismo in larghe fasce di popolazione
mondiale, per le quali c’è ben poca democrazia nell’attuale
ripartizione della ricchezza e della potenza globali”.
-
- Economist [4]
- L’Economist non è d’accordo. “Per prendere seriamente queste
critiche, bisogna prima separarle dal generale antiamericanismo di moda in
alcuni giri della sinistra europea o latino-americana. Si può accettare
l’antipatia per la pena di morte, per una società così pronta ad avere
pistole, persino per la validità di una cultura che si esprime con dei film
ben modesti e con gli hamburgers
dei McDonalds, ma niente di tutto questo spiega, per non dire che
giustifichi, un solo atto di terrorismo. L’accusa che in politica gli
Stati Uniti sono arroganti può meritare più attenzione. L’America ha
negli ultimi tempi sbattuto da parte alcuni buoni accordi internazionali
(sugli esperimenti nucleari, ad esempio, una corte penale internazionale, le
mine di terra) e ha anche respinto alcuni accordi discutibili (l’accordo
di Kyoto sul riscaldamento atmosferico) con un’indifferenza che non si
addice al maggior produttore mondiale di gas a effetto serra. La sua
comprensibile determinazione di avere uno scudo missilistico minaccia di
sconfiggere il sistema di deterrenza e di controllo degli armamenti nucleari
che sinora ha salvato il mondo da una catastrofe nucleare. Essa ha rifiutato
di versare le proprie quote alle Nazioni unite e ha anche ridotto i propri
aiuti ai poveri del mondo. Il suo desiderio di perseguire i criminali di
guerra africani e balcanici, pur rifiutando di permettere che i suoi
cittadini siano giudicabili da una corte internazionale ha fatto ritenere
che essa non voglia accettare per sé i criteri che essa impone agli altri.
Durante la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno indubbiamente subordinato
princìpi e cause al criterio sovrano di battere il comunismo. Il grande
fautore della legge in casa propria è stato pronto a gettarla al vento
all’estero, invadendo Grenada o minando il Nicaragua. Esso ha sostenuto
dei caudillos in America latina,
appoggiato dei tiranni in Africa e in Asia, favorito dei colpi di Stato in
Medio Oriente. Recentemente, esso ha buttato fuori dal Kuwait i suoi
invasori, ha colpito stati spietati come la Libia e l’Iraq e, inoltre, ha
continuato a frenarli con sanzioni e, nel caso dell’Iraq, lo ha fatto con
bombardamenti quasi incessanti. Queste azioni erano scriteriate? Forse.
Hanno provocato del risentimento? Sì. Ma questo risentimento può
giustificare anche uno solo degli attacchi suicidi della settimana scorsa?
No”.
-
- Le Figaro [5]
- Domanda: “Perché gli americani
inspirano tanto odio?”
Risposta: “A causa del conflitto israelo-palestinese. Diciamola
tutta: l’opinione del mondo arabo musulmano non sopporta più che, in
questo conflitto, gli americani applichino due pesi e due misure. I popoli
del Medio Oriente simpatizzano con la causa palestinese e tutto ciò che
chiedono è che l’America sostenga una soluzione equa. Gli americani
devono anche capire che le loro pose da superpotenza irritano anche aldilà
del Medio Oriente. Quando nel dibattito diplomatico la loro posizione è
contestata fanno troppo presto a esprimere un veto. Come a Durban, al
vertice sul razzismo. Veto, veto, queste fa imbestialire la gente”.
- D.
“La continuazione dei bombardamenti sull’Iraq, dieci anni dopo la guerra
nel Golfo, è anch’essa una spiegazione dell’antiamericanismo in Medio
Oriente?”
R. “Sì, certo. L’America è
criticata perché questi bombardamenti uccidono degli innocenti. Ma non
bisogna neanche dimenticare che, dovunque, la miseria è il brodo di cultura
del fanatismo. I paesi ricchi devono finalmente preoccuparsi di risolvere il
problema del sottosviluppo; la mondializzazione non deve soltanto favorire
alcuni interessi egoistici. Detto questo, la questione centrale resta il
conflitto israelo-palestinese”.
-
- Financial Times [6]
- I
terroristi “odiano l’Occidente e ciò che esso rappresenta per due
motivi. Primo, l’Occiente ha impedito i cambiamenti necessari nei paesi da
cui essi provengono, appoggiando dei regimi corrotti e dittatoriali,
dall’Arabia Saudita all’Algeria. Secondo, per quanto chiuse, le società
di questi paesi sono state permeate dalla way of life occidentale, se non
proprio dai suoi valori. I vantaggi diplomatici a breve che l’Occidente ha
ottenuto sostenendo questi regimi, per non parlare dei concreti vantaggi
economici che ne ha ottenuto, l’anno spinto a trascurare il tremendo
risentimento che esso così creava. Questo risentimento è largamente diffuso,
persino nella élite dominante.
(...) La globalizzazione, che ha aggravato l’ineguaglianza, e la escalation del conflitto
israelo-palestinese hanno alimentato quell’odio, nonché il desiderio di
martirio”.
-
- Le Monde [7]
- Domanda: “Che cosa spinge i
terroristi sino a questo punto?”
Risposta: “Si possono certamente trovare delle motivazioni religiose
o etniche per molte azioni terroristiche. Ma per quelle accadute negli Stati
Uniti non sono sicuro che la motivazione sia unicamente religiosa. Credo che
questi terroristi abbiano specialmente una diversa concezione della politica
e dell’ordine sociale. Sto lavorando a un libro collettivo sulla pace e la
democrazia in Medio Oriente e mi accorgo che la democratizzazione di stile
occidentale, i sistemi politici, economici e sociali dell’Occidente non
possono essere trasferiti in qualsiasi paese nel mondo. È ingenuo pensarlo.
Tentando di imporre i valori occidentali come valori universali si provocano
delle reazioni di rigetto. Questo non vuol dire che la democratizzazione non
sia compatibile con i sistemi sociali o la religione di questi paesi. Ma
essi aspirano a un diverso tipo di democratizzazione. Anche l’apertura dei
sistemi politici ed economici, la mondializzazione, deve essere perseguita
in modo graduale. La terapia d’urto usata sinora non ha fatto altro che
radicalizzare le opposizioni. Al contrario, bisogna aiutare questi paesi ad
avviare un proprio processo di apertura. Ci vorrà probabilmente del tempo
per avere dei risultati, ma l’Occidente non ha nulla da guadagnare nel
voler imporre le proprie norme in modo impaziente. Questa impazienza è
vista come arroganza, una pressione di tipo coloniale”.
- D. “Concretamente, come
vedrebbe lei un nuovo approccio ai problemi che stanno all’origine delle
violenze?”.
R. “(...) Il solo modo concreto
di stroncare il terrorismo è di affrontare i mali che lo suscitano,
tagliando il sostegno popolare che esso riceve con una politica di
assistenza e soprattutto di meno interventi nelle questioni interne di
questi paesi. Una pressione su Israele perché rilanci il processo di pace
sarebbe anch’essa auspicabile”.
-
- Time [8]
- “È
certo che nel mondo arabo il principale motivo di scontento verso gli Stati
Uniti è il risoluto sostegno americano a Israele: sostegno politico
(specialmente presso l’Onu), economico (840 milioni di dollari di aiuti
annui) e militare (3 miliardi di dollari più la disponibilità di armi
americane avanzate). Per la maggioranza degli arabi, Israele, come Stato
ebraico, è un’entità sgradita e straniera. Anche per coloro che ne
accettano l’esistenza, Israele opprime i diritti arabi; a dispetto del
processo di pace avviato a Oslo, Israele continua a occupare la maggior
parte del territorio palestinese - e particolarmente irritante per i musulmani
è il controllo israeliano sui santuari islamici a Gerusalemme, la terza
città sacra dell’Islam. (....) I detrattori degli Stati Uniti lamentano
che l’America sia indifferente non soltanto ai diritti ma anche alle
sofferenze degli arabi. Se i palestinesi sono il capo d’accusa A, l’Iraq
è il capo d’accusa B. Molti arabi detestano Saddam per la sua brutalità
e arroganza, ma non capiscono perché, dieci anni dopo che gli iracheni sono
stati cacciati dal Kuwait, gli Stati Uniti continuino a insistere su delle
sanzioni mondiali che stanno devastando la popolazione irachena. Secondo
l’Onu, ogni mese muoiono per malnutrizione e malattie 5.000 bambini, e la
causa sono le sanzioni. ‘Saremmo disposti a tollerare questo tipo di
boicottaggio se facesse morire di fame dei cechi, ad esempio?’, chiede A.
Kevin Reinhart, docente di religione a Dartmouth. ‘No. Abbiamo fatto cose
che vengono considerate come un riflesso di indifferenza o di ostilità nei
confronti dei musulmani’”.
- “Il
colonialismo e lo sviluppo della modernità occidentale hanno alimentato la
versione moderna del fondamentalismo islamico; se l’Islam è perfetto e
malgrado ciò il suo regno si restringe, vuol dire che chi pratica la
religione islamica si è allontanato dai canoni fondamentali della fede.
Questo concetto si è diffuso dopo il 1979, quando una rivolta popolare
rovesciò lo scià d’Iran, corrotto, occidentalizzato e sostenuto dagli
Stati Uniti, e permise all’ayatollah Khomeini di lanciare la rivoluzione
islamica in Iran e oltre. Khomeini chiamò i musulmani alla violenza per
conquistare ‘la terra degli infedeli’”. Anche il messaggio di bin
Laden, che invoca il ritorno del Saladino, “è un potente messaggio per
molti arabi che altrimenti vedono un futuro senza orgoglio. ‘L’Islam è
la Soluzione’, questo è lo slogan del
movimento islamico e a molti questo appare anche meglio del nazionalismo
arabo che li ha portati alla miseria, a governi corrotti e magari ad
entrambe le cose. Anche se gli Stati Uniti riuscissero a sconfiggere bin
Laden e la sua rete, questo messaggio continuerebbe a vibrare,
particolarmente sull’onda del risentimento provocato dall’azione
militare americana”.
-
- Herald Tribune [9]
- “Ci
sono oggi 50 paesi classificati dalle Nazioni Unite come ‘meno
sviluppati’ - il doppio di 30 anni fa. Mentre cresce la miseria del Terzo
mondo, la generosità dei paesi industrializzati è calata. Il taglio più
grosso l’ha fatto l’America. Una cifra che parla per interi volumi di
analisi riguarda gli aiuti ufficiali allo sviluppo rispetto al pil del paese
donatore. Gli Stati Uniti sono all’ultimo posto, con soltanto lo 0,1% del
loro prodotto dato in assistenza ai paesi poveri. Dopo gli attacchi
dell’11 settembre da parte di fanatici sanguinari l’emozione è ancora
così forte che è difficile considerare dei fatti sgradevoli. Eppure è
importante moderare il desiderio di vendetta con delle idee chiare su come
migliorare la sicurezza dell’America e dei suoi alleati. Dichiarare un
nuovo inizio della guerra alla miseria nel mondo deve essere il primo
passo”.
-
- Newsweek [10]
- Il
Piano Marshall, scrive il settimanale, richiese 13 miliardi di dollari di
allora (pari a 88 di oggi) e richiese anche un notevole mutamento di linea e
abitudini politiche da parte degli Stati Uniti. “Fu una soluzione
totalmente nuova a un problema totalmente nuovo. E richiese un potente
miscuglio di immaginazione, volontà e necessità geopolitica. Una sfida
analoga ci sta davanti oggi - e ancora una volta non è il caso di
cincischiare sulla validità economica degli aiuti allo sviluppo. Questo
tipo di critica ha imperato a Washington per un decennio circa e ha fatto un
sacco di danni. Anziché presentare un’attenta diagnosi dei problemi
degli aiuti, il senatore Jesse Helms e la sua banda (posse) di isolazionisti ha semplicemente ammazzato il malato. Essi
hanno tagliato il bilancio degli aiuti allo 0,1% del pil, contro il 3,1% del
1949, ponendo così l’America all’ultimo posto di 22 paesi importanti.
Essi hanno praticamente mandato in bancarotta l’Onu; il divario tra
nazioni ricche e nazioni povere si è allargato. Risultato: il paese più
potente nella storia mondiale è considerato oggi come Shrek the Ogre. (...)
Nell’ultimo decennio, mentre buttavamo miliardi in aiuti all’ex blocco
sovietico, predicando la democrazia e spingendo la Cina al rispetto dei
diritti umani, Washington ha concesso ai regimi arabi un salvacondotto
enorme. Abbiamo conferito all’Egitto 2 miliardi di dollari l’anno per
sostenere il suo regime repressivo, insieme a 3,5 miliardi di dollari a
Israele, quasi tutti per aiuti militari. Molto poco di queste somme era
inteso come spesa per lo sviluppo, per problemi attinenti alla condizione
femminile e familiare (a parte la proibizione del diritto di aborto) e per
programmi tipo il microcredito. Abbiamo lasciato che l’Afghanistan calasse
nel caos e nella miseria dopo esserci sbarazzati dei sovietici; non fu preso
in considerazione nemmeno un mini Piano Marshall. Abbiamo disinvoltamente
tradito i nostri ideali nazionali lasciando in piedi Saddam Hussein, alzando
le spalle quando gli sciiti e i curdi erano massacrati a causa di ribellioni
fomentate dagli Stati Uniti; abbiamo ristabilito una monarchia kuwaitiana
corrotta senza altra richiesta se non dei contratti petroliferi; e abbiamo
coccolato il regime saudita, non meno corrotto. (...) Dire che gli americani
comprano più prodotti del terzo mondo di chiunque altro non è una
risposta; essere l’acquirente mondiale in caso estremo non genera una
buona disposizione, anzi, serve solo ad accentuare l’immagine
dell’America come paese egoista e interessato. I liberi mercati non sono
una politica estera, ma soltanto una pratica. E la way of war americana, oltre che la
sua diplomazia, sono una pratica di eccessi e stravaganza, non di
efficienza. Abbiamo combattuto e vinto la seconda guerra mondiale con molti
rappezzamenti (boondoggle). La
forza della nostra economia è tale, rispetto al resto del mondo, che
possiamo permetterci degli altri rappezzamenti se possono procurare
all’America un po’ di buona disposizione”.
-
- Le Monde [11]
- “E’
impossibile prevenire i conflitti e instaurare la pace senza strategie di
promozione della coesione sociale e dell’integrazione. Far posto a ognuno
vuol dire fare in modo che tutti possano accedere a un impiego remunerato e
che le società evitino un allargamento delle ineguaglianze di reddito che
minacciano la stabilità sociale. Ma l’inclusione sociale va molto aldilà
di un reddito. Essa significa anche: fare in modo che i più poveri abbiano
servizi d’istruzione, di sanità, servizi essenziali come l’acqua
potabile, le bonifiche e l’elettricità. È questo che intendiamo per
inserzione”. Negli ultimi anni molte situazioni sono migliorate, ma
“non si devono sottovalutare i problemi che restano. La metà degli
abitanti dei paesi in via di sviluppo (circa 2 miliardi) vivono in paesi che
negli ultimi venti anni hanno avuto uno sviluppo molto limitato. D’altra
parte, anche nei paesi con risultati relativamente soddisfacenti, centinaia
di milioni di individui restano ai margini dello sviluppo. Per questo
motivo, molto più di un miliardo di persone, cioè circa il 20% della
popolazione mondiale, vivono con meno di un dollaro al giorno. Ora, questo
problema, già immenso, continua ad aggravarsi. Nei prossimi 30 anni la
popolazione mondiale passerà da 6 a 8 miliardi di persone e questo
aumento sarà quasi tutto nei paesi poveri. Dopo la tragedia dell’11
settembre è più importante che mai affrontare queste sfide e condurre
un’azione multilaterale in questa direzione. (...) Insomma, è essenziale
cercare una soluzione internazionale ai problemi mondiali. Questo vuol dire
lotta contro il terrorismo, la criminalità internazionale, il riciclaggio
di denaro, ma anche lotta contro malattie trasmissibili come l’aids e il
paludismo”.
-
- Herald Tribune [12]
- “‘Questa guerra al terrorismo può riuscire a eliminare alcuni
terroristi, ma senza riforme di base è come uccidere alcune zanzare e
lasciare intatta la palude’, dice Mohammed Zarea, attivista per i diritti
umani al Cairo. (Sì) ma ci sono dei problemi. (In Arabia saudita e in
Egitto) i gruppi dirigenti sono delle élites
trincerate, che cercano di affrontare una crescente frustrazione popolare,
che ha le sue radici in economie stagnanti e scarsità di posti lavoro, e
cercano di gestire un cambio generazionale al vertice. L’anno scorso, essi
hanno cercato di controllare una tempesta di tensioni antiamericane, che
veniva dalla convinzione che gli Stati Uniti sostengono Israele contro i
palestinesi. E adesso, l’elenco di terroristi più ricercati, pieno di
nomi egiziani e sauditi, ha reso anche troppo evidente che l’odio per gli
Stati Uniti e i suoi amici è cresciuto su questo terreno”. L’Egitto fu,
con Anwar Sadat, il primo paese arabo a firmare un trattato di pace con
Israele, ma “per molti egiziani, quel trattato non ha arrecato i vantaggi
che si attendevano come ricompensa per l’isolamento dell’Egitto nel
mondo arabo. Il grosso degli aiuti americani, più di 2 miliardi di dollari
l’anno, va all’esercito. Dei grandi edifici abitativi pubblici,
costruiti lontano dai centri cittadini, nel deserto, restano vuoti. La
disoccupazione, specialmente tra diplomati e laureati, è aumentata. La
riforma di un’economia pianificata non è mai decollata. Una terzo della
forza lavoro occupa sempre posti governativi pagati così male - circa 300 sterline egiziane
al mese, pari a 71 dollari - che molti dipendenti cercano anche uno o due
lavori aggiuntivi. (....) L’Egitto è pieno di giovani. Più del 55% della
popolazione è sotto i 25 anni. In Arabia saudita, circa il 60% della
popolazione è sotto i 25 anni. La disoccupazione è alta. La ricchezza
petrolifera che negli anni Ottanta sembrava illimitata si è dimostrata
insufficiente a sovvenzionare i giovani di oggi, come invece aveva fatto con
i loro padri. (...) ‘È facile per l’egiziano medio dire: abbiamo
provato la modernizzazione, ma non ci ha portati da nessuna parte e non
siamo diventati un’Europa, abbiamo provato il panarabismo, ma non ha
funzionato’ - dice Tarek Heggy, uomo d’affari e analista politico
cairota. ‘E se è una persona semplice, egli può dire che modernizzazione
e panarabismo non hanno funzionato perché Dio non era con noi’”.
-
-
- Islam
-
- Quali
che siano le radici ideologiche del terrorismo islamista, gli attentati
dell’11 settembre ci impongo una realtà: il mondo dell’Islam esiste, è
diverso dal nostro, bisogna conoscerlo, per dialogare. Non potremmo, nemmeno
volendo, affrontare un tema così vasto - che tuttavia rientra tra i
problemi maggiori sollevati dalla guerra in Afghanistan. Perciò ci
limitiamo a un paio di commenti, che danno un’idea dell’importanza e
complessità del tema.
-
- Le
Figaro [13]
- “Abbiamo da tempo espresso la nostra convinzione che, molto più
che ipotetica ‘ripresa del religioso’, la matrice dell’islamismo era
soltanto una riformulazione della vecchia dinamica nazionalista e
antimperialista araba. L’apporto del passaggio al linguaggio religioso è
stato anzitutto di esprimere la condanna etica di un Occidente visto molto
meno come cristiano che come decristianizzato e materialista. (...) Non
sorprende che una larga parte dei leaders islamisti siano dei vecchi nazionalisti ‘nasseriani’ o
‘baasisti’. (...) Nel rapporto tra il Nord ‘giudeo-cristiano’ e il
Sud musulmano, la retorica islamista serve oggi a denunciare il vicolo cieco
in cui si trovano le relazioni dell’Occidente in generale, e degli Stati
Uniti in particolare, con una larga parte del mondo musulmano. Dopo la
guerra del Golfo, l’unico ‘gendarme del mondo’ non è riuscito a
rendere credibile la sua funzione di arbitro. L’appoggio dato a tutti
questi regimi discreditati, appoggio così lontano dal rispettare l’etica
che l’arrogante America dice di difendere, ha scavato ancor più il
fossato delle incomprensioni di ogni genere”. (...) “Se si accetta di
tener conto di questa essenza dell’islamismo, anzitutto nazionalista e
antimperialista, all’analista come pure allo stratega s’impone tutta una
serie di conseguenze metodologiche. Ricordiamo anzitutto quella espressa in
termini profetici dal filosofo Michel Foucault poco prima della sua morte:
‘La questione dell’Islam come forza politica è essenziale per la nostra
epoca e questo varrà per molti anni ancora. La prima condizione per
trattarla con un minimo di intelligenza è di non cominciare a metterci
dell’odio’”.
- (...) “È evidente che il lessico religioso può in taluni casi
servire a giustificare la violenza, ma non ne è affatto all’origine. In
Medio Oriente, l’uso della violenza è stato di tutte le religioni e di
tutte le ideologie. La più materialista di queste, il marxismo, non è
stato da meno. Ma che dire dell’America liberale, per la quale la morte di
un mezzo milione di bambini iracheni è stata certo ‘una scelta
difficile’, come ha detto l’ex capo della diplomazia americana,
Madeleine Albright, ma una scelta che... ‘ne valeva la pena’. Questa
violenza anche gli islamisti l’hanno utilizzata, non si può negarlo. Ma
il più sovente fu per far fronte a delle dittature militari che, con
l’approvazione dell’Occidente, avevano sbarrato le aperture pluraliste
proclamate dal fondo di impasses repressive.
(...) Altra conseguenza, se ammettiamo il carattere funzionale
dell’interpretazione in termini antimperialisti: un approccio soltanto
socio-economico del fenomeno islamista è del tutto incapace di metterne a
nudo le molle essenziali. Esso è infatti condannato a ‘rivelare’
soltanto il carattere evolutivo e, al tempo stesso, diversificato della sua
base sociale: i giovani, un giorno, i diseredati, gli intellettuali, o i
borghesi, il giorno dopo, anche i militari e persino le militanti
femministe. Il profilo, ‘sorprendente’, dell’ultima generazione di kamikaze, il cui avvenire economico
era tutt’altro che chiuso, viene ancora una volta come conferma”.
- “Infine, si è spesso considerato che qualsiasi discorso che usi
il lessico musulmano è incompatibile con ciò che la modernità occidentale
ha di universale, (ma) l’alchimia islamista è molto più complessa. I
valori della modernità sono indubbiamente meno ripudiati che riscritti con
la terminologia del sistema simbolico musulmano, e questo contribuisce a estendere
il campo della modernità più che non ad interromperne o a perturbarne la
progressione. (...) L’uso del solo prisma di ‘pericolo integrista’
continua tuttavia a monopolizzare l’interpretazione della guerra civile
algerina, o del conflitto israelo-palestinese. Questa lettura, che nasconde
le patenti contraddizioni della politica straniera dell’Occidente (e la
responsabilità dei suoi alleati arabi) impedisce qualsiasi interpretazione
più profana e perciò più realista della reale origine della violenza e
dei mezzi per riassorbirla”.
-
- Le
Figaro[14]
- “Una cosa è strana, parlando di bin Laden: dietro all’estrema
violenza dell’azione, non c’è alcun programma politico, alcun progetto
di società e...nessuna rivendicazione. Ancor più curioso: molti dei suoi
fedeli in Afghanistan, quadri di movimenti radicali sino a ora ben
impiantati nel mondo arabo, gente come Ayman al-Zawahiri, capo della Djihad
islamica egiziana, sembrano agire oggi vicino a lui a titolo individuale,
senza rappresentare i loro partiti. Dall’Afghanistan a New York, bin Laden
si colloca fuori dalla problematica del Medio Oriente, anche se vi gode di
un’aura di giustiziere presso un’opinione pubblica spesso frustrata
dalla politica americana. In effetti, il Medio Oriente ‘classico’ non è
più il terreno del radicalismo islamico. La violenza islamista è in
regressione in tutti i paesi musulmani. (In Egitto, in Algeria e altrove gli
ultimi fatti sanguinosi sono di alcuni anni fa e) in Egitto, gli
intellettuali laici e islamisti tengono oggi un discorso antisraeliano,
antiamericano, ma più nazionalista egiziano che panislamista o panarabo. I
fratelli musulmani della Giordania, di Bahrein o di Kuwait si presentano
alle elezioni, e lì si dimostrano conservatori e nazionalisti su tutti i
grandi temi della società. Insomma, gli islamisti, che occupavano la scena
medio-orientale dall’indomani della rivoluzione iraniana, si sono
rinsaviti, ‘nazionalizzati’ e banalizzati. Soprattutto, essi hanno
fallito su un punto essenziale del loro programma: avere il monopolio
dell’espressione politica dell’Islam”.
- (...) “In effetti si assiste a uno scollegamento tra i grandi
movimenti islamisti che prevalevano negli anni Ottanta, ma che poi si sono
inseriti nel gioco politico nazionale, per non dire nazionalista, e una
nuova forma di radicalismo che respinge violentemente non soltanto ogni
nazionalismo, ma anche l’idea stessa di costruire uno Stato islamico, in
un solo paese. Si assiste a un disaccoppiamento tra un islamo nazionalismo
divenuto presentabile e un islam globalizzato e deterrorializzato che non si
riesce più a collocare in uno spazio strategico classico, perché non ha
obiettivi di guerra ma si muove in un universo immaginario, quello della ummah, la comunità dei musulmani
(questo immaginario, d’altronde, è condiviso da movimenti che non sono
terroristici, come la Tabligh). Ciò non significa che la reislamizzazione delle società
del mondo musulmano sia bloccata - essa si vede in tutto, dai vestiti, dai
costumi, nelle strade. Ma essa si afferma molto più come ricerca e scelta
individuali, su dei modi di religiosità che non sono molto lontani da ciò
che si vede nel ritorno alla religione in paesi cristiani. (...)
L’individualizzazione delle fedi e dei comportamenti ha raggiunto il mondo
musulmano. Sopravvalutando l’idea di rivoluzione islamica, gli islamisti
hanno inferto un colpo alla legittimità dell’islam tradizionale”
- (...) “I giovani musulmani che (da Parigi) tornano all’Islam,
lo fanno come rottura sia nei confronti dell’Islam dei loro genitori che
con la società francese. Anzi, questi nuovi radicali criticano le culture
tradizionali del mondo musulmano, si scagliano contro la sua musica, la sua
poesia, i suoi costumi. Essi impongono modi rigorosi di vestire e di
comportamento che non hanno niente a che vedere con la cultura. In realtà,
anziché incarnare la resistenza di un’autenticità musulmana davanti
all’occidentalizzazione, tutti questi neo fondamentalisti sono al tempo
stesso dei prodotti e degli attori di deculturizzazione in un mondo
globalizzato. I giovani che si uniscono a bin Laden non si sono mai
radicalizzati nel contesto familiare della loro società d’origine; al
contrario, è sempre nello sradicamento e nell’acculturazione che essi
compiono un ritorno individuale a un Islam in definitiva astratto e tagliato
fuori da ogni realtà sociale, nell’ambito di piccole moschee radicali”.
- (...) “In una parola, bin Laden non è una reazione dell’Islam
tradizionale ma una variazione aberrante della globalizzazione, sia negli
strumenti della sua efficacia (tecnica, competenza, organizzazione) che
nella sconnessione tra la sua azione e le società reali. Ricordiamo che
negli obiettivi prescelti e nell’antiamericanismo virulento, bin Laden
riprende una tradizione molto occidentale del terrorismo simbolista, propria
della banda di Baader o di Action directe, ma ripensato in termini di giochi
video e di film catastrofici di Hollywood. Bin Laden è davvero parte del
nostro mondo”.
-
- [1] Stanley
Hoffmann, On the wear, "New York Review of Books",
novembre 2001. (Lo
scritto è datato 3 ottobre 2001).
- [2]
Claire Tréan, Si le gouvernement pakistanais devait tomber, nous
entrerions en terrain inconnu, intervista a François Heisbourg,
presidente dell’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss),
"Le Monde", 13 ottobre 2001.
- [3] Seumas
Milne, They can’t see why they are hated, "The Guardian",
13 settembre 2001.
- [4] The
roots of hatred, "Economist", 22 settembre 2001.
- [5]
Charles Lambroschini, Hosni Moubarak: Les Américains doivent retenir
leurs coups, intervista a Hosni Mubarak, "Le Figaro", 23
settembre 2001.
- [6]
Dominique Moisi, vice direttore dell’Institut français des relations
internationales, Tragedy that exposed a groundswell of hatred,
"Financial Times", 24 settembre 2001.
- [7]
Philippe Pons, L’Occident n’a rien à gagner à vouloir
impatiemment imposer ses normes, intervista ad Albrecht Schnabel,
studioso di movimenti insurrezionali, "Le Monde", 25 settembre
2001.
- [8] M.
Calabresi, Rootsa of rage, "Time", 1 ottobre 2001.
- [9]
Giles Merritt, direttore del Forum Europe, segretario generale di
Friends of Europe e direttore del trimestrale "Humanitarian Affairs
Review", Wake up to the cost of the wealth gap, "International
Herald Tribune", 3 ottobre 2001.
- [10] Brad Stone,
Give more U.S. aid, "Newsweek", 8 ottobre 2001.
- [11] James D.
Wolfensohn, presidente della Banca mondiale, Une coalition mondiale
contre la pauvreté, "Le Monde", 9 ottobre 2001.
- [12] Susan
Sachs, Behind the extremism: poverty and frustration, "International
Herald Tribune", 15 ottobre 2001.
- [13]
François Burgat, Les eislamistes ne sont pas seulement des ‘fousa
de Dieu’, "Le Figaro", 27 settembre 2001. L’autore è politologo al Cnrs e
autore di diversi libri sull’Islam.
-
- [14] Olivier
Roy, direttore di ricerche al Cnrs, specialista dell’Asia centrale e
autore di alcuni libri, Bin Laden: le terrorisme postislamiste,
"Le Figaro", 2 ottobre 2001.