Notizie Internazionali
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi

Numero speciale "11 settembre"

Dollari

La domanda da un milione di dollari è: come hanno potuto, gli attentati, provocare la crisi economica? e, in parole povere, la risposta è: non l’hanno provocata, grazie, la crisi c’era già[1]. Però è vero che a un’economia già incerta gli attentati hanno inferto colpi: il primo riguarda l’andamento dei consumi, l’altro riguarda la capitalizzazione borsistica. All’indomani degli attentati, l’Economist[2] scriveva: “In breve, quando sorse l’11 settembre sia l’America che il mondo erano già pericolosamente vicini a una recessione (e) il Credit Suisse First Boston calcola che l’effetto diretto degli attacchi sarà di ridurre la crescita del pil americano nel terzo e nel quarto trimestre per uno 0,8% - cioè un 3% su base annua”. Questo è l’effetto sulla produzione, ma “ancor più importante di questo effetto diretto è l’impatto sul business e specialmente sulla fiducia dei consumatori, perciò sulla loro spesa”. Va precisato che per “consumi” non si devono intendere quelli necessari, ma quelli che si possono definire di “spreco organico”, che nell’economia capitalista odierna costituiscono l’ossatura del consumo. Prima degli attentati, “molti economisti erano convinti che l’America potesse evitare una recessione perché la spesa ai consumi sarebbe rimasta robusta. La settimana scorsa (cioè poco prima degli attentati, ndr) la caduta dei prezzi azionari e la notizia che la disoccupazione era aumentata più rapidamente di quanto ci si attendesse avevano inciso su questa convinzione. Adesso, gli attacchi alla sicurezza stessa dell’America possono provocare altri danni. Durante la guerra nel Golfo, quando l’economia era, anche allora, sull’orlo della recessione, la spesa ai consumi calò per sei mesi consecutivi, a un tasso annuo del 2,6%. Questa volta, con la carneficina in casa e non all’estero, l’impatto può essere anche maggiore. Le famiglie in tutto il mondo sono colpite da una caduta dei valori delle loro azioni. Se si include il calo di questa settimana, il valore spazzato via dai prezzi azionari mondiali dal picco dell’anno scorso equivale a 12.000 miliardi di dollari, cioè ad un terzo del pil mondiale (e) se la fiducia del consumatore crolla, anche l’azione della Federal reserve e di altre banche non basterà a evitare una recessione. All’inizio di questa settimana la maggior parte degli economisti delle banche di investimento prevedevano che l’America avrebbe evitato la recessione. Dopo gli attacchi terroristici, molti di loro ritengono che la recessione sia inevitabile”.
Anche il Financial Times[3] poneva in quegli stessi giorni l’accento sulla fiducia del consumatore come questione decisiva. E’ vero, esso scriveva, che “la ricostruzione e un sostanziale aumento della spesa militare dovrebbero sostenere l’economia”; ma i danni arrecati ai “servizi finanziari”, al settore aeronautico e al turismo rientrano nel giro dei consumi e della fiducia che li sorregge. “Negli ultimi cinque anni, l’economia americana ha contato per circa due quinti della crescita economica globale (a prezzi di mercato). Adesso soltanto i consumi tengono gli Usa fuori dalla recessione” - e tutto già in quei gior­ni suggeriva che il loro livello sarebbe calato. Un fatto, riferito da Le Monde[4], dà il senso dell’importanza dei consumi. Il 25 ottobre, il Tesoro americano ha deciso di emettere dei war bonds, quei buoni di guerra che nella seconda guerra mondiale aiutarono l’economia americana sino a divenire simbolo di patriottismo. Oggi si chiamano Liberty bonds e il Tesoro si è piegato a delle pressioni parlamentari, restando però convinto “che l’ultima cosa di cui abbia bisogno l’economia americana è di incitare al risparmio anziché ai consumi”. Ed è il consumo, oggi, il simbolo del patriottismo. “Comprate una vettura o un altro frigorifero, per fare davvero ripartire l’economia”, ha detto un alto dirigente; Pensate ai “regali di Natale e per le vacanze, per gli onomastici e le lauree”, ha raccontato un altro. Cioè, spendete.
E sprecate. Il Financial Times[5] esaminava la punta avanzata dello spreco, quella dei beni di lusso, osservando che “negli anni Novanta il settore dei beni di lusso fu favorito da un mondo che faceva quattrini ed era deciso a goderseli” - se avere un orologio Patek per 17.500 dollari significa godersi la vita. Prima dell’11 settembre si era già notato un calo, ma non significativo; adesso l’incertezza  è sovrana - non perché manchino i quattrini, fra gli appassionati, ma perché vengono a mancare la voglia, le occasioni - tra cui l’incremento del turismo - e, ancora una volta, il reddito borsistico. “Il quarto più ricco della popolazione americana ricava i due terzi del suo reddito, direttamente o indirettamente, dal mercato azionario” - e il resto lo capite. Non sappiamo quanto conti la spesa di lusso - che del resto citiamo qua solo come esempio; ma anzitutto tenete conto che “le vendite di oggetti di lusso sono fatte per quattro quinti negli Stati Uniti, nell’Unione europea e in Giappone” e, in secondo luogo, che se il raggio di diffusione è limitato in termini di persone, quello in termini di capitale è molto più ampio. Pensate alla moda italiana e alle sue griffes e avrete un’idea della sua importanza - persino in termini culturali, se così si può dire. Il resto, ciò che rientra ormai nel consumo quotidiano come aggiunta o come rinnovo, segue la corrente ed è l’elemento economico centrale.
Vediamo più da vicino l’altro pilastro: la capitalizzazione borsistica. Il Fi­nancial Times[6] osservava che prima degli attacchi “i mercati azionari erano sopravvalutati, secondo gli standard storici. Rispetto al pil americano il tasso di capitalizzazione borsistica è salito dal 20% nel 1980 al 40% nel 1991 ed è arrivato al 155% nel 2000 - e anche dopo la sua caduta restava al 100% al 17 settembre”; e Le Figaro[7] aggiungeva che “fon­da­men­tal­mente, la crisi americana è anzitutto una crisi borsistica (che) ha colpito in particolare le imprese della nuova economia, la cui crescita esterna e l’approv­vi­gio­na­men­to in fondi si fondavano su una continua progressione dei corsi, poi si è allargata progressivamente ai settori delle telecomunicazioni, dell’informazione e dei produttori di attrezzature. Questo fenomeno si è quindi rivolto all’economia tradizionale e agli indici che riflettevano l’evoluzione dei corsi azionari in Europa e in Giappone” - provocando lo scoppio della “bolla tecnologica” e altri effetti negativi. La ricaduta è generale, ma può particolarmente pesare sui “paesi emergenti”, Turchia e Argentina in primo piano - con effetti di trascinamento, a loro volta.  Insomma: la logica borsistica fondata sull’assioma che tutto avrebbe continuato a crescere già non reggeva più; era perciò già in crisi la capitalizzazione delle imprese della new economy e anche quelle “tradizionali” che su quella capitalizzazione speculativa si fondavano. Quanto, e specialmente come, gli attentati abbiano inciso su questa economia traballante è un tema di dibattito interessante ma non decisivo.
 
Che cosa si prospetta oggi?  Scriveva il settimanale Time[8] che “una guerra dovrebbe gettare un salvagente a un’economia che annega, non affondarla. E invece, come gli americani cominciano a capire, questa non è una guerra tipica. Questa volta non ci saranno un massiccio aumento degli armamenti e una totale mobilitazione delle risorse. Per combattere dei terroristi armati di taglierini non vareremo delle navi liberty, né lanceremo delle flotte di bombardieri. In effetti, con un fronte interno minacciato, una fiducia del con­sumatore che svanisce, e con il business che si affloscia, gli Stati Uniti vivono gli aspetti peggiori dell’economia di guerra, con ben pochi dei suoi benefici. Molti osservatori ritengono che il tasso di disoccupazione del 4,9% raggiunto in agosto, che già era di un pieno punto percentuale superiore a quello degli 11 mesi precedenti, può adesso toccare il 5-6% all’inizio del prossimo anno. Gli investitori stranieri, che erano arrivati a gettare 500 miliardi di dollari l’anno nell’economia americana, non considerano più il dollaro come il rifugio che era prima. E l’edilizia, uno degli ultimi settori a mostrare una certa solidità, sembra che ormai trascini i piedi. Dopo gli attacchi terroristici, i consumatori e di dirigenti d’affari sono in lutto. ‘Giriamo tutti col cuore pesante e quando a un cuore pesante aggiungete un portafoglio vuoto, la cosa è devastante’”, dice un pezzo grosso del business.
Non intendiamo entrare nel complesso discorso dei provvedimenti del governo americano, ma un accenno basta a indicare quanto potrebbe mutare anche la linea economica che Bush aveva avviato alcuni mesi fa. “Il forte attivo di bilancio federale - scriveva l'Herald Tribune[9] - sta probabilmente lasciando il posto a un deficit nell’anno fiscale iniziato lunedì scorso, un dietrofront sbalorditivo provocato dall’indebolimento dell’economia e dai costi della campagna contro il terrorismo, dicono gli analisti dentro e fuori del governo”. Stando ai calcoli del Congressional budget office, nell’anno fiscale appena terminato il governo ha gestito un attivo di 121 miliardi di dollari, contro i 236 dell’anno precedente; sarà grasso che cola se il governo chiuderà in pareggio l’anno fiscale appena iniziato - “dopo aver pagato per l’azione militare, per i sussidi e la ricostruzione e per stimoli economici, probabilmente il governo si troverà ad aver speso decine di miliardi più di quanto abbia incassato con le imposte”. Queste cifre danno un’idea non soltanto della possibile spesa ma anche del rovesciamento delle condizioni in cui Bush in­tendeva portare avanti la sua politica economica. “Anche se il governo riuscisse a terminare l’anno fiscale senza un passivo (e pare invece che nel 2002 il bilancio registrerà un passivo dello 0,5% - contro l’attivo del 3% di alcuni mesi fa - nota nostra), è improbabile che possa tornare presto alla situazione che esisteva soltanto un mese fa, quando entrambi i partiti ritenevano di poter contare su attivi importanti e crescenti per una serie di iniziative”.
 
Lasciamo da parte dei temi come l’andamento dell’economia mondiale o quello dei mercati azionari, che richiederebbero informazioni e analisi che non siamo in grado di dare; del resto, le nostre sono considerazioni d’ordine generale, non studi specifici, che non ci appartengono. Ci interessano invece le ripercussioni sociali della crisi. Osservava l’Economist[10] che “su entrambe le sponde dell’Atlantico, i licenziamenti stanno aumentando rapidamente. I settori tecnologico e manifatturiero erano già depressi l’anno scorso e, dopo gli attacchi, la tetraggine si è estesa al settore dei servizi. Negli Stati Uniti, quest’anno sono già stati annunciati licenziamenti doppi rispetto a quelli del 1999 e del 2000 insieme e sui 200.000 posti lavoro sono svaniti nel solo mese di settembre”.
In effetti, stando a un grafico del settimanale, nei due anni precedenti si sono avuti all’incirca 1,3 milioni di licenziati, per il 2001 se ne prevedevano a ottobre 1,4 milioni; in passato il licenziamento faceva parte di un continuo rinnovo di manodopera, oggi esso si accoppia al fatto che trovare un altro posto di lavoro è più difficile. “Sino a poco tempo fa, perdere il posto di lavoro non era un gran guaio. Nella Silicon Valley, 18 mesi fa, trovare un nuovo posto lavoro spesso voleva dire soltanto lasciare l’auto in un nuovo parcheggio. Anche quest’anno, il tempo medio di ricerca di un nuovo posto è sceso da 2,27 mesi nel primo trimestre a 2,07 mesi nel secondo trimestre. Nel terzo trimestre esso è salito a 3,04 mesi. Adesso, la caccia al posto di lavoro significa essere meno schizzinosi, magari anche cercare di tornare in quella solida e noiosa impresa che uno aveva lasciato due anni fa per trovare di meglio”. Non è un gran che, come informazione, ma il senso è chiaro. Lo rendono ancor più chiaro alcune cifre fornite da Le Monde[11]. “Gli attentati dell’11 settembre - scrive il quotidiano - hanno avviato una spirale di licenziamenti negli Stati Uniti. Le cifre ufficiali pubblicate l’11 ottobre indicano che la disoccupazione ha toccato il più alto livello da dieci anni a questa parte”: 3,48 milioni a fine settembre, cioè vicino ai 3,55 milioni del 1991; 468.000 nuovi disoccupati nella settimana finita il 6 ottobre, contro 535.000 nella settimana precedente”. E ancora Le Monde[12]: “Alla fine di settembre c’erano 7 milioni di disoccupati, contro 5,5 milioni un anno prima. Secondo gli economisti, questo totale aumenterà ancora di almeno 1,5 milioni da ora (fine ottobre, nota nostra) alla metà dell’anno prossimo. Secondo l’Afl/Cio, dall’11 settembre in poi sono stati soppressi 574.000 posti lavoro”. E “la maggior parte degli economisti vedono il tasso di disoccupazione salire al 6% all’inizio del 2002”.[13]
 
Diceva Gérard Mestrallet, presidente della società francese Suez, in un’intervista a Le Figaro[14]: “Sono stato anch’io sorpreso dai massicci piani di licenziamento nel trasporto aereo e nella costruzione aeronautica americane. È sorprendente che si prendano decisioni così strutturali come la soppressione di migliaia di posti lavoro solo una settimana dopo eventi di cui nessuno può ancora valutare la portata sul breve termine” - ed è un’osservazione interessante da due punti di vista: il fatto che, nel bel mezzo di un appello al patriottismo le grandi imprese americane facciano valere la più rigida logica di profitto; e che questa logica si scontri oggi con grossi problemi di solidarietà nazionale, anziché continuare a essere l’imperativo per tutti. Que­sto e il futuro della globalizzazione neoliberista sono due problemi ancora avvolti nella nebbia, ma che emergono chiaramente - e noi ci limitiamo a segnalarli spulciando la stampa internazionale.
Sempre Mestrallet li pone in termini cauti ma chiari. “È evidente che gli avvenimenti mettono sul tavolo i rapporti tra paesi sviluppati e paesi in sviluppo. Per l’equilibrio a lungo termine del pianeta, essi esigono un riesame dei rapporti Nord-Sud e un maggior sforzo dei paesi ricchi verso i paesi in sviluppo. Globalizzazione e sviluppo duraturo non potranno combinarsi a meno che non si blocchi la ‘deriva dei continenti’ che allarga in modo eccessivo il divario tra Nord e Sud. (...) Gli eventi delle ultime tre settimane cambieranno molto nel quadro mondiale. Finora, la globalizzazione è stata essenzialmente concepita nella sua sola dimensione economica e finanziaria e non abbastanza nella sua dimensione sociale o politica” - e non parla il rappresentante di una ong, ma di una multinazionale. Sul problema sociale negli Stati Uniti, Mestrallet aggiunge: “È probabile che assisteremo a un diverso equilibrio delle forze del mercato, a un ritorno del politico sull’economico, e più in generale a un ritorno dello Stato”.
Vediamo anzitutto questo secondo punto. Osservava l'Herald Tribune[15] che “per decenni la ricetta economica americana rivolta ad amici e nemici è stata un assioma: lasciate fare al mercato” - e adesso invece non turba l’idea che “gli Stati Uniti tornino alla ricetta di John Maynard Keynes, che auspicava una politica di forti investimenti pubblici e di spesa pubblica a deficit come mezzo per assicurare la stabilità economica in tempi difficili”. Aggiungeva Business Week[16] che “con i consumatori e gli investitori che si tirano indietro, resta solo uno strumento affidabile di stimolazione economica - la spesa governativa. (...) Si può co­min­ciare revocando la riduzione fiscale prospettata per il 2004, che avrebbe favorito le fasce alte, e investire invece 300 miliardi di quel denaro già quest’anno e nell’anno prossimo, oltre alla spesa militare e di difesa. Ci vuole anche una spesa supplementare per il welfare, come pure un’infusione federale a favore di sostegni statali alla disoccupazione e per migliorare i benefits sociali”; poi occorrono miliardi per dare efficienza al trasporto ferroviario delle merci, tirare su un “sistema di sanità pubblica che è stato lasciato a deteriorarsi sino ad un livello di efficienza pericolosamente basso” e bisognerebbe anche “vaccinare tutti i bambini contro le malattie dell’infanzia”. Voci, per adesso, che magari rimarranno tali, ma che nessuno avrebbe sentito prima dell’11 settembre. 
Sinora, scrive ancora Business Week[17], la spesa prevista - a carico di un attivo di bilancio di 173 miliardi di dollari nel 2002 - si riassume in queste cifre: 40 miliardi in fondi di emergenza, 17,5 miliardi in aiuti alle compagnie aeree, 8,3 miliardi per lo scudo spaziale, 18,4 miliardi in spesa militare prevista, per un totale di 84,2 miliardi - di cui solo la prima voce è definitiva. Per un’economia valutata a 10.000 miliardi di dollari non è la fine del mondo. Però “l’amministrazione chiede 190 miliardi per un piano su otto anni che potenzi il Medicare e fornisca medicine gratuite agli anziani, a cominciare dal 2004 - e i rappresentanti democratici vogliono quasi raddoppiare l’importo. L’amministrazione vuole anche aumentare la spesa militare di 198 miliardi in dieci anni”, cominciando con i 18,4 miliardi già indicati per il 2002. Poi vuole che il Congresso autorizzi un piano di sostegno agricolo per 70 miliardi su dieci anni. Ciò che impressiona non sono queste cifre, ma il fatto che la mossa è nuova - e va in senso contrario a quanto Bush aveva indicato come linea di politica economica ancor più liberista. Cioè senza stato.
Sono tutti sviluppi potenziali, tutt’altro che certi sia nell’adozione che nei loro intenti reali. Ma ciò che sorprende è una sorta di unanimità nel sottolineare la tendenza e la sua necessità. Insomma, dopo anni di inni al libero mercato, di quel “pensiero unico” che si proponeva come sola medicina per tutti i mali del mondo, a scuotere il capo sono proprio coloro che non l’avevano mai messo in discussione. Osservava il Financial Times[18] che, all’indomani dell’11 settembre, molti si sono affrettati a dire che il mondo era cambiato e che in particolare era finita la convinzione della sicurezza totale; “ma da come Bush e il Congresso rispondono alla crisi più acuta che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato dalla fine della Seconda guerra mondiale, è chiaro che è cambiato anche qualcos’altro. La struttura politica e legale degli Stati Uniti, che ha magnificato il libero mercato e ridotto il governo, sta venendo rimaneggiata. (...) Benché alcuni dei provvedimenti già adottati e altri in esame siano temporanei, è molto probabile che ciò che la televisione chiama la "nuova guerra americana", produca una profonda revisione del ruolo del governo” - e mentre il democratico Clinton dichiarava nel 1995 che “l’era del big government è finita”, a rimetterla in piedi potrebbe essere il repubblicano Bush.
Così dice la stampa, ma è davvero così? Sì, se si pensa in termini di problematica; no se si pensa in termini di cambiamenti immediati. Scriveva Newsweek[19]: “Ricor­da­te il clamore della new economy? Adesso l’idea di Silicon Valley?, questa celebrazione del­l’indi­vi­dua­li­smo e di una profonda ostilità alle intromissioni del governo, è svanita dalla scena americana”; al suo posto si profila una fila di settori economici che si rivolgono sì al governo, ma solo per avere anche loro quegli “aiuti” di cui hanno goduto le imprese dell’ aeronautica. Quanto al resto, “Bush mantiene l’antica ostilità repubblicana all’idea di nazionalizzare alcunché. Il suo piano di stimolazione economica è pieno di tradizionali tagli fiscali, cioè l’esatto contrario del big government. Bush non cambierà la spinta a privatizzare e a deregolare che fu avviata due decenni fa dalla rivoluzione reaganiana” - e che fu poi continuata da Clinton. Resta il problema di come stimolare un’economia ormai dichiaratamente in recessione - e qua pare che i democratici vogliano procedere “alzando i salari minimi, estendendo i sostegni al welfare e adottando altri provvedimenti che, quelli sì, rappresentano un ritorno al big government”.
 
Insomma, l’economia americana è in recessione. Si tratta adesso di impedire che essa si prolunghi - ed è sintomatico che vengano sollevate questioni di indirizzo che sino a poco tempo fa sembravano appartenere a un lontano passato. Ma, come indicano numerosi commenti, questi problemi si collocano in un contesto ancor più vasto: la globalizzazione economica. Scriveva Business Week[20] che “ciò che davvero spaventa il business è l’incertezza. Quando si tratti di rischi convenzionali, i mercati sanno come proteggersi da possibili perdite, o sbalzi di valute, o cambi di governo. Ma non sanno come navigare nella nebbia. Tra i fattori imponderabili: la guerra di Bush al terrorismo si limiterà a bin Laden e al governo talebano, o sarà un conflitto senza limiti che risucchia il mondo islamico? Dove colpiranno di nuovo gli estremisti? Mentre la polizia ferma dei sospetti in tutto il mondo, è chiaro che gli obiettivi non si limitano al territorio americano, ma includono le cittadelle del capitalismo da Parigi a Tokyo”. E questa minaccia diffusa, reale o no ma comunque temuta, diviene un fattore economico globale - cioè colpisce la logica della globalizzazione economica.
“In effetti, molti degli aspetti promettenti della globalizzazione sono adesso rimessi in questione. Per i mercati emergenti, i mercati finanziari spalancati, sviluppati negli anni Novanta, appaiono adesso come rischi a lunga durata, dato che, di nuovo, gli investitori si precipitano a portar via i loro fondi da paesi come il Brasile, la Corea, e altri a migliaia di miglia dal cuore di Manhattan. L’esplosione di viaggi internazionali, grazie a confini più aperti, rende difficile se non impossibile seguire le tracce di criminali e terroristi. E salta fuori che anche l’afflusso di manodopera e di studenti, salutato dagli Stati Uniti, ha facilitato il compito di coloro che hanno attaccato il World trade center”. Non dite che sono problemi banali; il loro significato più profondo sta proprio nella loro apparente banalità. 
Sempre Business Week[21] allarga questo discorso notando che anche Alan Greenspan ha “parlato a lungo con i dirigenti del G7 dei costi economici delle ansietà del mondo del business, sollevate dalla minaccia terroristica”; e aggiunge: “Certo, la globalizzazione non sparirà, i mercati mondiali sono troppo integrati per ricascare all’indietro adesso. Ma la globalizzazione potrebbe benissimo divenire più lenta e più costosa, deformando il modello ad alta produttività e bassa inflazione proprio degli anni Novanta. Le società vorranno probabilmente spendere di più per la sicurezza del loro staff  e le loro proprietà all’estero. Maggiori controlli alle frontiere rallenteranno il traffico delle merci, costringendo le società ad accumulare le scorte. Una più severa politica dell’immigrazione ridurrà il libero afflusso di manodopera specializzata e non che ha permesso alle imprese di espandersi senza aumentare i salari. Nello stesso tempo, una più forte ossessione per i rischi politici spinge le società a limitare il loro orizzonte in fatto di investimenti. ‘A spingere la rapida espansione dei flussi commerciali e finanziari è stata l’idea che il mondo stava diventando un tutto continuo, un posto senza frizioni’, dice Steven S. Roach, alto dirigente della Morgan Stanley. ‘Adesso c’è della sabbia nei meccanismi di connessione transconfinale. È un enorme cambiamento tettonico nel panorama globale’”. Ci si può stupire di quella fiducia - nonché della cecità nei confronti di altri aspetti e fattori della globalizzazione; ma anche chi di quell’aspetto economico dominante aveva fatto un credo, deve ora ammettere che esso era in conflitto con altri aspetti, ignorati o combattuti - e che quel conflitto sta alle radici degli avvenimenti.
Insomma, da molti punti di vista il mondo è più che mai “globale”; ma se per globalizzazione s’intende soltanto quella economica, nella sua logica attuale, la globalizzazione è in ballo. Il colpo inferto dai terroristi all’ideologia occidentale, scriveva l’Economist[22], impone forse un riesame di quella stessa ideologia. “C’è chi in occidente sostiene che è così. John Gray, docente alla London School of Economics e autore molto citato su questo genere di cose, ha praticamente parlato a nome di molti altri quando, la settimana scorsa, ha dichiarato che la globalizzazione è finita. ‘Tutta la visione del mondo che ha sostenuto la fede dei mercati nella globalizzazione si è dissolta. (...) Seguendo gli Stati Uniti, i paesi più ricchi hanno agito in base al presupposto che tutta la gente dappertutto vuole vivere come loro. Il risultato è stato che essi non hanno riconosciuto la mortale mistura di emozioni - il risentimento culturale, il senso di ingiustizia e il rifiuto genuino della modernità occidentale - che sta dietro agli attacchi a New York e Washington. (...) L’ideale di una civiltà universale è una ricetta di conflitti senza fine ed è ora di abbandonarlo”. L’Econo­mist non è d’accordo - e noi non intendiamo entrare in un discorso che non ci appartiene. Ma che sia in ballo la natura della globalizzazione questo ci sembra vero - e comunque questo è il chiodo su cui battere.    
                                                                

[1] Sullo stato dell’economia americana e mondiale vedi: La bolla, N.I. n. 66, marzo 2000; New economy, N.I. n. 70, febbraio 2001; Economia, N.I. n. 72, giugno 2001.
[2] When economy held its breath, "Economist", 15 settembre 2001.
[3] Martin Wolf, Guarding the home front, "Financial Times", 17 settembre 2001.
[4] Eric Leser, Les ‘war bonds’ soutien à l’effort de guerre sont de retour, "Le Monde", 27 ottobre 2001.
[5] Susanna Voyle, Top names lose lustre as wealth takes tumble, "Financial Times", 24 ottobre 2001.
[6] Martin Wolf, Time for action, "Financial Times", 19 settembre 2001.
[7] Paul Mentré, La crise qui vient aggraver la crise, "Le Figaro", 19 settembre 2001.
[8] Daniel Eisenberg, Wartime recession?, "Time", 1 ottobre 2001.
[9] Richard W. Stevenson, U.S. returning to deficits as costs of attack mount, "International Herald Tribune", 2 ottobre 2001.
[10] Snip, snio, oops!, "Economist", 13 ottobre 2001.
[11] Alain Beuve-Méry, Aux Etats-Unis la législation sur les licenciements offre une grande flexibilité aux entreprises, "Le Monde", 23 ottobre 2001.
[12] E.L., Les élans patriotiques n’enrayent pas les vagues de suppressions d’emploi, "Le Monde", 2 novembre 2001.
[13] Eric Leser, L’économie américaine n’échappera pas à la récession, "Le Monde", 2 novembre 2001.
[14] Chtristine Lagoutte, Gérard Mestrallet: Nous allons assister à un retour du politique, "Le Figaro", 1 ottobre 2001.
[15] Alan Cowell, ole reversal: U.S.forsakes market gospel, "International Herald Tribune", 26 ottobre 2001.
[16] Robert Kuttner, The economy needs more big government - now, "Business Week", 15 ottobre 2001.
[17] Paul Magnusson, Suddenly, Washington’s wallet is open, "Business Week", 1 ottobre 2001.
[18] Gerard Baker, Bigger government, "Financial Times", 26 settembre 2001.
[19] Karen Lowry, Where the power lies, "Newsweek", 5 novembre 2001.
[20] Pete Engardio, A new world, "Business Week", 8 ottobre 2001.
[21] Pete Engardio, What’s at stake, "Business Week", 22 ottobre 2001.
[22] Is globalisation doomed?, "Economist", 29 settembre 2001.