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Internazionali
Bollettino
bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi
Numero
speciale "11 settembre"
Dollari
- La domanda da un milione di dollari è: come hanno potuto, gli
attentati, provocare la crisi economica? e, in parole povere, la risposta è:
non l’hanno provocata, grazie, la crisi c’era già.
Però è vero che a un’economia già incerta gli attentati hanno inferto
colpi: il primo riguarda l’andamento dei consumi, l’altro riguarda la
capitalizzazione borsistica. All’indomani degli attentati, l’Economist scriveva: “In breve,
quando sorse l’11 settembre sia l’America che il mondo erano già
pericolosamente vicini a una recessione (e) il Credit Suisse First Boston
calcola che l’effetto diretto degli attacchi sarà di ridurre la crescita
del pil americano nel terzo e nel quarto trimestre per uno 0,8% - cioè un
3% su base annua”. Questo è l’effetto sulla produzione, ma “ancor più
importante di questo effetto diretto è l’impatto sul business e specialmente sulla fiducia
dei consumatori, perciò sulla loro spesa”. Va precisato che per
“consumi” non si devono intendere quelli necessari, ma quelli che si
possono definire di “spreco organico”, che nell’economia capitalista
odierna costituiscono l’ossatura del consumo. Prima degli attentati,
“molti economisti erano convinti che l’America potesse evitare una
recessione perché la spesa ai consumi sarebbe rimasta robusta. La settimana
scorsa (cioè poco prima degli attentati, ndr) la caduta dei prezzi
azionari e la notizia che la disoccupazione era aumentata più rapidamente
di quanto ci si attendesse avevano inciso su questa convinzione. Adesso, gli
attacchi alla sicurezza stessa dell’America possono provocare altri danni.
Durante la guerra nel Golfo, quando l’economia era, anche allora,
sull’orlo della recessione, la spesa ai consumi calò per sei mesi
consecutivi, a un tasso annuo del 2,6%. Questa volta, con la carneficina in
casa e non all’estero, l’impatto può essere anche maggiore. Le famiglie
in tutto il mondo sono colpite da una caduta dei valori delle loro azioni.
Se si include il calo di questa settimana, il valore spazzato via dai prezzi
azionari mondiali dal picco dell’anno scorso equivale a 12.000 miliardi di
dollari, cioè ad un terzo del pil mondiale (e) se la fiducia del
consumatore crolla, anche l’azione della Federal reserve e di altre banche
non basterà a evitare una recessione. All’inizio di questa settimana la
maggior parte degli economisti delle banche di investimento prevedevano che
l’America avrebbe evitato la recessione. Dopo gli attacchi terroristici,
molti di loro ritengono che la recessione sia inevitabile”.
- Anche il Financial Times
poneva in quegli stessi giorni l’accento sulla fiducia del consumatore
come questione decisiva. E’ vero, esso scriveva, che “la ricostruzione e
un sostanziale aumento della spesa militare dovrebbero sostenere
l’economia”; ma i danni arrecati ai “servizi finanziari”, al settore
aeronautico e al turismo rientrano nel giro dei consumi e della fiducia che
li sorregge. “Negli ultimi cinque anni, l’economia americana ha contato
per circa due quinti della crescita economica globale (a prezzi di mercato).
Adesso soltanto i consumi tengono gli Usa fuori dalla recessione” - e
tutto già in quei giorni suggeriva che il loro livello sarebbe calato. Un
fatto, riferito da Le Monde,
dà il senso dell’importanza dei consumi. Il 25 ottobre, il Tesoro
americano ha deciso di emettere dei war
bonds, quei buoni di guerra che nella seconda guerra mondiale aiutarono
l’economia americana sino a divenire simbolo di patriottismo. Oggi si
chiamano Liberty bonds e il Tesoro si è piegato a delle pressioni
parlamentari, restando però convinto “che l’ultima cosa di cui abbia
bisogno l’economia americana è di incitare al risparmio anziché ai
consumi”. Ed è il consumo, oggi, il simbolo del patriottismo. “Comprate
una vettura o un altro frigorifero, per fare davvero ripartire
l’economia”, ha detto un alto dirigente; Pensate ai “regali di Natale
e per le vacanze, per gli onomastici e le lauree”, ha raccontato un altro.
Cioè, spendete.
- E sprecate. Il Financial
Times
esaminava la punta avanzata dello spreco, quella dei beni di lusso,
osservando che “negli anni Novanta il settore dei beni di lusso fu
favorito da un mondo che faceva quattrini ed era deciso a goderseli” - se
avere un orologio Patek per 17.500 dollari significa godersi la vita. Prima
dell’11 settembre si era già notato un calo, ma non significativo; adesso
l’incertezza è sovrana - non
perché manchino i quattrini, fra gli appassionati, ma perché vengono a
mancare la voglia, le occasioni - tra cui l’incremento del turismo - e,
ancora una volta, il reddito borsistico. “Il quarto più ricco della
popolazione americana ricava i due terzi del suo reddito, direttamente o
indirettamente, dal mercato azionario” - e il resto lo capite. Non
sappiamo quanto conti la spesa di lusso - che del resto citiamo qua solo
come esempio; ma anzitutto tenete conto che “le vendite di oggetti di
lusso sono fatte per quattro quinti negli Stati Uniti, nell’Unione europea
e in Giappone” e, in secondo luogo, che se il raggio di diffusione è
limitato in termini di persone, quello in termini di capitale è molto più
ampio. Pensate alla moda italiana e alle sue griffes e avrete un’idea della sua
importanza - persino in termini culturali, se così si può dire. Il resto,
ciò che rientra ormai nel consumo quotidiano come aggiunta o come rinnovo,
segue la corrente ed è l’elemento economico centrale.
- Vediamo più da vicino l’altro pilastro: la capitalizzazione
borsistica. Il Financial Times
osservava che prima degli attacchi “i mercati azionari erano
sopravvalutati, secondo gli standard storici. Rispetto al pil americano
il tasso di capitalizzazione borsistica è salito dal 20% nel 1980 al 40%
nel 1991 ed è arrivato al 155% nel 2000 - e anche dopo la sua caduta
restava al 100% al 17 settembre”; e Le
Figaro
aggiungeva che “fondamentalmente, la crisi americana è anzitutto
una crisi borsistica (che) ha colpito in particolare le imprese della nuova
economia, la cui crescita esterna e l’approvvigionamento in fondi
si fondavano su una continua progressione dei corsi, poi si è allargata
progressivamente ai settori delle telecomunicazioni, dell’informazione e
dei produttori di attrezzature. Questo fenomeno si è quindi rivolto
all’economia tradizionale e agli indici che riflettevano l’evoluzione
dei corsi azionari in Europa e in Giappone” - provocando lo scoppio della
“bolla tecnologica” e altri effetti negativi. La ricaduta è generale,
ma può particolarmente pesare sui “paesi emergenti”, Turchia e
Argentina in primo piano - con effetti di trascinamento, a loro volta. Insomma: la logica borsistica
fondata sull’assioma che tutto avrebbe continuato a crescere già non
reggeva più; era perciò già in crisi la capitalizzazione delle imprese
della new economy e anche quelle
“tradizionali” che su quella capitalizzazione speculativa si fondavano.
Quanto, e specialmente come, gli attentati abbiano inciso su questa economia
traballante è un tema di dibattito interessante ma non decisivo.
-
- Che
cosa si prospetta oggi? Scriveva
il settimanale Time
che “una guerra dovrebbe gettare un salvagente a un’economia che annega,
non affondarla. E invece, come gli americani cominciano a capire, questa non
è una guerra tipica. Questa volta non ci saranno un massiccio aumento degli
armamenti e una totale mobilitazione delle risorse. Per combattere dei
terroristi armati di taglierini non vareremo delle navi liberty, né
lanceremo delle flotte di bombardieri. In effetti, con un fronte interno
minacciato, una fiducia del consumatore che svanisce, e con il business che si affloscia, gli Stati
Uniti vivono gli aspetti peggiori dell’economia di guerra, con ben pochi
dei suoi benefici. Molti osservatori ritengono che il tasso di
disoccupazione del 4,9% raggiunto in agosto, che già era di un pieno punto
percentuale superiore a quello degli 11 mesi precedenti, può adesso toccare
il 5-6% all’inizio del prossimo anno. Gli investitori stranieri, che erano
arrivati a gettare 500 miliardi di dollari l’anno nell’economia
americana, non considerano più il dollaro come il rifugio che era prima. E
l’edilizia, uno degli ultimi settori a mostrare una certa solidità,
sembra che ormai trascini i piedi. Dopo gli attacchi terroristici, i
consumatori e di dirigenti d’affari sono in lutto. ‘Giriamo tutti col
cuore pesante e quando a un cuore pesante aggiungete un portafoglio vuoto,
la cosa è devastante’”, dice un pezzo grosso del business.
- Non
intendiamo entrare nel complesso discorso dei provvedimenti del governo
americano, ma un accenno basta a indicare quanto potrebbe mutare anche la
linea economica che Bush aveva avviato alcuni mesi fa. “Il forte attivo di
bilancio federale - scriveva l'Herald
Tribune
- sta probabilmente lasciando il posto a un deficit nell’anno fiscale
iniziato lunedì scorso, un dietrofront sbalorditivo provocato
dall’indebolimento dell’economia e dai costi della campagna contro il
terrorismo, dicono gli analisti dentro e fuori del governo”. Stando ai
calcoli del Congressional budget office, nell’anno fiscale appena
terminato il governo ha gestito un attivo di 121 miliardi di dollari, contro
i 236 dell’anno precedente; sarà grasso che cola se il governo chiuderà
in pareggio l’anno fiscale appena iniziato - “dopo aver pagato per
l’azione militare, per i sussidi e la ricostruzione e per stimoli
economici, probabilmente il governo si troverà ad aver speso decine di
miliardi più di quanto abbia incassato con le imposte”. Queste cifre
danno un’idea non soltanto della possibile spesa ma anche del
rovesciamento delle condizioni in cui Bush intendeva portare avanti la sua
politica economica. “Anche se il governo riuscisse a terminare l’anno
fiscale senza un passivo (e pare invece che nel 2002 il bilancio registrerà
un passivo dello 0,5% - contro l’attivo del 3% di alcuni mesi fa - nota
nostra), è improbabile che possa tornare presto alla situazione che
esisteva soltanto un mese fa, quando entrambi i partiti ritenevano di poter
contare su attivi importanti e crescenti per una serie di iniziative”.
-
- Lasciamo
da parte dei temi come l’andamento dell’economia mondiale o quello dei
mercati azionari, che richiederebbero informazioni e analisi che non siamo
in grado di dare; del resto, le nostre sono considerazioni d’ordine
generale, non studi specifici, che non ci appartengono. Ci interessano
invece le ripercussioni sociali della crisi. Osservava l’Economist
che “su entrambe le sponde dell’Atlantico, i licenziamenti stanno
aumentando rapidamente. I settori tecnologico e manifatturiero erano già
depressi l’anno scorso e, dopo gli attacchi, la tetraggine si è estesa al
settore dei servizi. Negli Stati Uniti, quest’anno sono già stati
annunciati licenziamenti doppi rispetto a quelli del 1999 e del 2000 insieme
e sui 200.000 posti lavoro sono svaniti nel solo mese di settembre”.
- In
effetti, stando a un grafico del settimanale, nei due anni precedenti si
sono avuti all’incirca 1,3 milioni di licenziati, per il 2001 se ne
prevedevano a ottobre 1,4 milioni; in passato il licenziamento faceva parte
di un continuo rinnovo di manodopera, oggi esso si accoppia al fatto che
trovare un altro posto di lavoro è più difficile. “Sino a poco tempo fa,
perdere il posto di lavoro non era un gran guaio. Nella Silicon Valley, 18
mesi fa, trovare un nuovo posto lavoro spesso voleva dire soltanto lasciare
l’auto in un nuovo parcheggio. Anche quest’anno, il tempo medio di
ricerca di un nuovo posto è sceso da 2,27 mesi nel primo trimestre a 2,07
mesi nel secondo trimestre. Nel terzo trimestre esso è salito a 3,04 mesi.
Adesso, la caccia al posto di lavoro significa essere meno schizzinosi,
magari anche cercare di tornare in quella solida e noiosa impresa che uno
aveva lasciato due anni fa per trovare di meglio”. Non è un gran che,
come informazione, ma il senso è chiaro. Lo rendono ancor più chiaro
alcune cifre fornite da Le Monde.
“Gli attentati dell’11 settembre - scrive il quotidiano - hanno avviato
una spirale di licenziamenti negli Stati Uniti. Le cifre ufficiali
pubblicate l’11 ottobre indicano che la disoccupazione ha toccato il più
alto livello da dieci anni a questa parte”: 3,48 milioni a fine settembre,
cioè vicino ai 3,55 milioni del 1991; 468.000 nuovi disoccupati nella
settimana finita il 6 ottobre, contro 535.000 nella settimana precedente”.
E ancora Le Monde:
“Alla fine di settembre c’erano 7 milioni di disoccupati, contro 5,5
milioni un anno prima. Secondo gli economisti, questo totale aumenterà
ancora di almeno 1,5 milioni da ora (fine ottobre, nota nostra) alla
metà dell’anno prossimo. Secondo l’Afl/Cio, dall’11 settembre in poi
sono stati soppressi 574.000 posti lavoro”. E “la maggior parte degli
economisti vedono il tasso di disoccupazione salire al 6% all’inizio del
2002”.
-
- Diceva
Gérard Mestrallet, presidente della società francese Suez, in
un’intervista a Le Figaro:
“Sono stato anch’io sorpreso dai massicci piani di licenziamento nel
trasporto aereo e nella costruzione aeronautica americane. È sorprendente
che si prendano decisioni così strutturali come la soppressione di migliaia
di posti lavoro solo una settimana dopo eventi di cui nessuno può ancora
valutare la portata sul breve termine” - ed è un’osservazione
interessante da due punti di vista: il fatto che, nel bel mezzo di un
appello al patriottismo le grandi imprese americane facciano valere la più
rigida logica di profitto; e che questa logica si scontri oggi con grossi
problemi di solidarietà nazionale, anziché continuare a essere
l’imperativo per tutti. Questo e il futuro della globalizzazione
neoliberista sono due problemi ancora avvolti nella nebbia, ma che emergono
chiaramente - e noi ci limitiamo a segnalarli spulciando la stampa
internazionale.
- Sempre
Mestrallet li pone in termini cauti ma chiari. “È evidente che gli
avvenimenti mettono sul tavolo i rapporti tra paesi sviluppati e paesi in
sviluppo. Per l’equilibrio a lungo termine del pianeta, essi esigono un
riesame dei rapporti Nord-Sud e un maggior sforzo dei paesi ricchi verso i
paesi in sviluppo. Globalizzazione e sviluppo duraturo non potranno combinarsi
a meno che non si blocchi la ‘deriva dei continenti’ che allarga in modo
eccessivo il divario tra Nord e Sud. (...) Gli eventi delle ultime tre
settimane cambieranno molto nel quadro mondiale. Finora, la globalizzazione
è stata essenzialmente concepita nella sua sola dimensione economica e
finanziaria e non abbastanza nella sua dimensione sociale o politica” - e
non parla il rappresentante di una ong, ma di una multinazionale. Sul
problema sociale negli Stati Uniti, Mestrallet aggiunge: “È probabile che
assisteremo a un diverso equilibrio delle forze del mercato, a un ritorno
del politico sull’economico, e più in generale a un ritorno dello
Stato”.
- Vediamo
anzitutto questo secondo punto. Osservava l'Herald Tribune che “per decenni la
ricetta economica americana rivolta ad amici e nemici è stata un assioma:
lasciate fare al mercato” - e adesso invece non turba l’idea che “gli
Stati Uniti tornino alla ricetta di John Maynard Keynes, che auspicava una
politica di forti investimenti pubblici e di spesa pubblica a deficit come
mezzo per assicurare la stabilità economica in tempi difficili”.
Aggiungeva Business Week
che “con i consumatori e gli investitori che si tirano indietro, resta
solo uno strumento affidabile di stimolazione economica - la spesa
governativa. (...) Si può cominciare revocando la riduzione fiscale
prospettata per il 2004, che avrebbe favorito le fasce alte, e investire
invece 300 miliardi di quel denaro già quest’anno e nell’anno prossimo,
oltre alla spesa militare e di difesa. Ci vuole anche una spesa
supplementare per il welfare, come
pure un’infusione federale a favore di sostegni statali alla
disoccupazione e per migliorare i benefits
sociali”; poi occorrono miliardi per dare efficienza al trasporto
ferroviario delle merci, tirare su un “sistema di sanità pubblica che è
stato lasciato a deteriorarsi sino ad un livello di efficienza
pericolosamente basso” e bisognerebbe anche “vaccinare tutti i bambini
contro le malattie dell’infanzia”. Voci, per adesso, che magari
rimarranno tali, ma che nessuno avrebbe sentito prima dell’11 settembre.
- Sinora,
scrive ancora Business Week,
la spesa prevista - a carico di un attivo di bilancio di 173 miliardi di
dollari nel 2002 - si riassume in queste cifre: 40 miliardi in fondi di
emergenza, 17,5 miliardi in aiuti alle compagnie aeree, 8,3 miliardi per lo
scudo spaziale, 18,4 miliardi in spesa militare prevista, per un totale di
84,2 miliardi - di cui solo la prima voce è definitiva. Per un’economia
valutata a 10.000 miliardi di dollari non è la fine del mondo. Però
“l’amministrazione chiede 190 miliardi per un piano su otto anni che
potenzi il Medicare e fornisca medicine gratuite agli anziani, a cominciare
dal 2004 - e i rappresentanti democratici vogliono quasi raddoppiare
l’importo. L’amministrazione vuole anche aumentare la spesa militare di
198 miliardi in dieci anni”, cominciando con i 18,4 miliardi già indicati
per il 2002. Poi vuole che il Congresso autorizzi un piano di sostegno
agricolo per 70 miliardi su dieci anni. Ciò che impressiona non sono queste
cifre, ma il fatto che la mossa è nuova - e va in senso contrario a quanto
Bush aveva indicato come linea di politica economica ancor più liberista.
Cioè senza stato.
- Sono
tutti sviluppi potenziali, tutt’altro che certi sia nell’adozione che
nei loro intenti reali. Ma ciò che sorprende è una sorta di unanimità nel
sottolineare la tendenza e la sua necessità. Insomma, dopo anni di inni al
libero mercato, di quel “pensiero unico” che si proponeva come sola
medicina per tutti i mali del mondo, a scuotere il capo sono proprio coloro
che non l’avevano mai messo in discussione. Osservava il Financial Times
che, all’indomani dell’11 settembre, molti si sono affrettati a dire che
il mondo era cambiato e che in particolare era finita la convinzione della
sicurezza totale; “ma da come Bush e il Congresso rispondono alla crisi più
acuta che gli Stati Uniti abbiano mai affrontato dalla fine della Seconda
guerra mondiale, è chiaro che è cambiato anche qualcos’altro. La
struttura politica e legale degli Stati Uniti, che ha magnificato il libero
mercato e ridotto il governo, sta venendo rimaneggiata. (...) Benché alcuni
dei provvedimenti già adottati e altri in esame siano temporanei, è molto
probabile che ciò che la televisione chiama la "nuova guerra
americana", produca una profonda revisione del ruolo del governo” - e
mentre il democratico Clinton dichiarava nel 1995 che “l’era del big government è finita”, a
rimetterla in piedi potrebbe essere il repubblicano Bush.
- Così
dice la stampa, ma è davvero così? Sì, se si pensa in termini di
problematica; no se si pensa in termini di cambiamenti immediati. Scriveva Newsweek: “Ricordate il
clamore della new economy? Adesso
l’idea di Silicon Valley?, questa celebrazione dell’individualismo
e di una profonda ostilità alle intromissioni del governo, è svanita dalla
scena americana”; al suo posto si profila una fila di settori economici
che si rivolgono sì al governo, ma solo per avere anche loro quegli
“aiuti” di cui hanno goduto le imprese dell’ aeronautica. Quanto al
resto, “Bush mantiene l’antica ostilità repubblicana all’idea di
nazionalizzare alcunché. Il suo piano di stimolazione economica è pieno di
tradizionali tagli fiscali, cioè l’esatto contrario del big government. Bush non cambierà la
spinta a privatizzare e a deregolare che fu avviata due decenni fa dalla
rivoluzione reaganiana” - e che fu poi continuata da Clinton. Resta il
problema di come stimolare un’economia ormai dichiaratamente in recessione
- e qua pare che i democratici vogliano procedere “alzando i salari
minimi, estendendo i sostegni al welfare
e adottando altri provvedimenti che, quelli sì, rappresentano un ritorno al
big government”.
-
- Insomma,
l’economia americana è in recessione. Si tratta adesso di impedire che
essa si prolunghi - ed è sintomatico che vengano sollevate questioni di
indirizzo che sino a poco tempo fa sembravano appartenere a un lontano
passato. Ma, come indicano numerosi commenti, questi problemi si collocano
in un contesto ancor più vasto: la globalizzazione economica. Scriveva Business Week che “ciò che davvero
spaventa il business è
l’incertezza. Quando si tratti di rischi convenzionali, i mercati sanno
come proteggersi da possibili perdite, o sbalzi di valute, o cambi di
governo. Ma non sanno come navigare nella nebbia. Tra i fattori
imponderabili: la guerra di Bush al terrorismo si limiterà a bin Laden e al
governo talebano, o sarà un conflitto senza limiti che risucchia il mondo
islamico? Dove colpiranno di nuovo gli estremisti? Mentre la polizia ferma
dei sospetti in tutto il mondo, è chiaro che gli obiettivi non si limitano
al territorio americano, ma includono le cittadelle del capitalismo da
Parigi a Tokyo”. E questa minaccia diffusa, reale o no ma comunque temuta,
diviene un fattore economico globale - cioè colpisce la logica della
globalizzazione economica.
- “In
effetti, molti degli aspetti promettenti della globalizzazione sono adesso
rimessi in questione. Per i mercati emergenti, i mercati finanziari
spalancati, sviluppati negli anni Novanta, appaiono adesso come rischi a
lunga durata, dato che, di nuovo, gli investitori si precipitano a portar
via i loro fondi da paesi come il Brasile, la Corea, e altri a migliaia di
miglia dal cuore di Manhattan. L’esplosione di viaggi internazionali,
grazie a confini più aperti, rende difficile se non impossibile seguire le
tracce di criminali e terroristi. E salta fuori che anche l’afflusso di
manodopera e di studenti, salutato dagli Stati Uniti, ha facilitato il compito
di coloro che hanno attaccato il World trade center”. Non dite che sono
problemi banali; il loro significato più profondo sta proprio nella loro
apparente banalità.
- Sempre
Business Week
allarga questo discorso notando che anche Alan Greenspan ha “parlato a
lungo con i dirigenti del G7 dei costi economici delle ansietà del mondo
del business, sollevate dalla
minaccia terroristica”; e aggiunge: “Certo, la globalizzazione non
sparirà, i mercati mondiali sono troppo integrati per ricascare
all’indietro adesso. Ma la globalizzazione potrebbe benissimo divenire più
lenta e più costosa, deformando il modello ad alta produttività e bassa
inflazione proprio degli anni Novanta. Le società vorranno probabilmente
spendere di più per la sicurezza del loro staff
e le loro proprietà all’estero. Maggiori controlli alle frontiere
rallenteranno il traffico delle merci, costringendo le società ad
accumulare le scorte. Una più severa politica dell’immigrazione ridurrà
il libero afflusso di manodopera specializzata e non che ha permesso alle
imprese di espandersi senza aumentare i salari. Nello stesso tempo, una più
forte ossessione per i rischi politici spinge le società a limitare il loro
orizzonte in fatto di investimenti. ‘A spingere la rapida espansione dei
flussi commerciali e finanziari è stata l’idea che il mondo stava
diventando un tutto continuo, un posto senza frizioni’, dice Steven S.
Roach, alto dirigente della Morgan Stanley. ‘Adesso c’è della sabbia
nei meccanismi di connessione transconfinale. È un enorme cambiamento
tettonico nel panorama globale’”. Ci si può stupire di quella fiducia -
nonché della cecità nei confronti di altri aspetti e fattori della
globalizzazione; ma anche chi di quell’aspetto economico dominante aveva
fatto un credo, deve ora ammettere che esso era in conflitto con altri
aspetti, ignorati o combattuti - e che quel conflitto sta alle radici degli
avvenimenti.
- Insomma,
da molti punti di vista il mondo è più che mai “globale”; ma se per
globalizzazione s’intende soltanto quella economica, nella sua logica
attuale, la globalizzazione è in ballo. Il colpo inferto dai terroristi
all’ideologia occidentale, scriveva l’Economist,
impone forse un riesame di quella stessa ideologia. “C’è chi in
occidente sostiene che è così. John Gray, docente alla London School of
Economics e autore molto citato su questo genere di cose, ha praticamente
parlato a nome di molti altri quando, la settimana scorsa, ha dichiarato che
la globalizzazione è finita. ‘Tutta la visione del mondo che ha sostenuto
la fede dei mercati nella globalizzazione si è dissolta. (...) Seguendo gli
Stati Uniti, i paesi più ricchi hanno agito in base al presupposto che
tutta la gente dappertutto vuole vivere come loro. Il risultato è stato che
essi non hanno riconosciuto la mortale mistura di emozioni - il risentimento
culturale, il senso di ingiustizia e il rifiuto genuino della modernità
occidentale - che sta dietro agli attacchi a New York e Washington. (...)
L’ideale di una civiltà universale è una ricetta di conflitti senza fine
ed è ora di abbandonarlo”. L’Economist
non è d’accordo - e noi non intendiamo entrare in un discorso che non ci
appartiene. Ma che sia in ballo la natura della globalizzazione questo ci
sembra vero - e comunque questo è il chiodo su cui battere.
-
- Sullo stato
dell’economia americana e mondiale vedi: La bolla, N.I. n. 66,
marzo 2000; New economy, N.I. n. 70, febbraio 2001; Economia,
N.I. n. 72, giugno 2001.
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economy held its breath, "Economist", 15 settembre 2001.
- Martin
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- Eric Leser, Les
‘war bonds’ soutien à l’effort de guerre sont de retour,
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Aux Etats-Unis la législation sur les licenciements offre une grande
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- E.L., Les
élans patriotiques n’enrayent pas les vagues de suppressions d’emploi,
"Le Monde", 2 novembre 2001.
- Eric Leser, L’économie
américaine n’échappera pas à la récession, "Le
Monde", 2 novembre 2001.
- Chtristine
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politique, "Le Figaro", 1 ottobre 2001.
- Alan
Cowell, ole reversal: U.S.forsakes market gospel, "International
Herald Tribune", 26 ottobre 2001.
- Robert
Kuttner, The economy needs more big government - now,
"Business Week", 15 ottobre 2001.
- Paul
Magnusson, Suddenly, Washington’s wallet is open,
"Business Week", 1 ottobre 2001.
- Gerard
Baker, Bigger government, "Financial Times", 26
settembre 2001.
- Karen
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2001.
- Pete
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- Pete
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- Is
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