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Internazionali
Bollettino
bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi
Numero
speciale "11 settembre"
Afghanistan
- Se
del Kosovo si sapeva poco, dell’Afghanistan non si sa praticamente nulla -
perlomeno sino a ora - e nella stampa internazionale non si trova molto.
Perciò raccogliamo alcune informazioni generali, nell’ingenua convinzione
che si debba sapere qualcosa del paese contro cui si fa una guerra.
Anzitutto, toglietevi dalla testa l’impressione che l’Afghanistan sia un
piccolo paese; con i suoi 650.000 km quadrati circa è due volte l’Italia
e poco più della Francia. Le sue frontiere corrono per 5.500 km; il paese
misura 970 km in altezza (da nord a sud) e 1.300 in larghezza (da est a
ovest). Se volete avere un’idea del territorio che dovrebbe essere
percorso da truppe di terra, pensate alla catena dell’Hindu Kuch, che
occupa il centro e l’est del paese e che arriva sino a cime di 7.500 m, e
alla catena himalayana del
Pamir nel nordest, con cime sino a 6.000 m. Più della metà del territorio
è montagnoso, con una sorta di base sui 3.000 m. Al sud, nella parte che
confina con l’Iran, sta il deserto del Dash-i-Margo e del Rigestan,
percorso dal grande fiume Helmand; altri fiumi - Hannun, Heridul, Siripul ed
altri - sono tutti interni e spesso finiscono in terreni paludosi o nelle
sabbie del deserto.
- Al
nord, sopra la città di Mazaar-i-Sharif, al confine con il Turkmenistan e
l’Uzbekistan, sta la maggior parte delle terre fertili, su un’altezza
media di 600 m., terre attraversate dall’Amu Daya, dove si coltivano
frumento, riso, cotone, frutta, legumi. Specialmente in quelle terre si
trovano minerali come il carbone e il gas, e altri minerali che pare non
siano molto sfruttati; sempre al nord si trovano, sin dai tempi antichi,
delle pietre preziose come i lapislazuli e gli smeraldi. Nel 1979 le terre
coltivate venivano valutate a 2,6 milioni di ettari su 65 milioni
complessivi; ma poi la guerra coi sovietici e le guerre intestine successive
“ebbero un effetto disastroso sull’agricoltura. Un terzo delle fattorie
sono state abbandonate, due terzi dei villaggi sono stati distrutti e larga
parte della popolazione rurale è stata costretta dalla miseria, dagli
spostamenti e dalla siccità a cercare rifugio in città, a Kabul e a
Kandahar”. Una vecchia enciclopedia, che
data dal 1928, calcolava gli abitanti a 4,5 milioni; oggi si calcola che
stiano sui 23-25 milioni (l’ultimo censimento è stato fatto dall’ Onu
nel 1979), e sino ad almeno alcuni anni fa l’85% viveva nelle campagne. Se
si vuole parlare in termini statistici “nostri”, si può dire che la
durata media di vita sta sui 43 anni e che il tasso di mortalità infantile
viene valutato al 147 per mille; il tasso di analfabetismo si aggira sul 75%
e il Pil è sceso a circa 700 dollari l’anno a testa.
La maggior parte dei centri
cittadini maggiori non supera i 100.000 abitanti; soltanto Kabul ne conta (o
contava) tra 800.000 e un milione; Kandahar ne ha 230.000, Mazaar-i-Sharif
230.000; Salalabad 58.000. Le temperature vanno dai 35/40 gradi d’estate
ai -15/-20 d’inverno.
- È
noto che gli afghani sono tutti musulmani, ma divisi tra sciiti (20%) e
sunniti. Le lingue ufficiali sono il pashto, di origine indoeuropea, e il
dari (di tronco persiano). È noto anche che la popolazione si suddivide in
diverse etnie. L’etnia principale, sugli 8,5 milioni, pari al 38%
dell’intera popolazione, è quella pashtun, che si estende anche al
Pakistan dove conta almeno 6 di milioni di persone. I pashtun sono sunniti,
hanno praticamente dominato la vita politica del paese sin dall’inizio
della sua indipendenza e della sua monarchia, nel Settecento, sono il grosso
dei talebani e sia Zahir Shah che il mullah Omar sono pashtun. La seconda
etnia è tagika, con oltre 5 milioni di persone, pari al 25% della
popolazione; la lingua è il dari, la religione è sunnita. Viene poi
l’etnia Hazara (circa 4 milioni, pari al 19% della popolazione); gli
hazari sono concentrati specialmente nelle montagne del centro, ma esistono
comunità hazari anche a Kabul e Mazaar-i-Sharif; sono sciiti, probabilmente
discendono da antiche tribù mongole - e sono considerati dei paria eretici.
Gli uzbeki, calcolati su oltre un milione, (6% della popolazione) discendono
da popolazioni turche che si stabilirono nell’attuale Afghanistan nel XVI
secolo - e infatti parlano lo stesso turco della popolazione uzbeka. Sono
sunniti. Turcofoni sono anche i kirghisi e i turkmeni; si calcola che siano
poco più di un milione. Infine,
delle etnie minori come gli Aimak, i Baluchi, i Braui e i Nuristani. che
contano ciascuna alcune centinaia di migliaia di persone.
-
- La storia recente dell’Afghanistan inizia nell’agosto del 1919
quando, attraverso vicende che non conosciamo, l’Afghanistan (che sino ad
allora era una regione contesa tra l’impero britannico e quello russo),
divenne stato indipendente; poi, la storia che lo ha visto passare da guerra
e guerra, è cominciata nel luglio 1973, quando la monarchia venne
rovesciata da un colpo di Stato. La riassumiamo per date:
- 1973
Il 17 luglio,
il principe Daud rovescia la monarchia e proclama la repubblica;
1978
Il 27 aprile, degli ufficiali filosovietici uccidono Daud e abbattono
il suo regime;
1979
il 24 dicembre inizia l’invasione delle truppe sovietiche che
installano un regime filosovietico diretto da Babrak Karmal;
1986
il 4 maggio, Mohammed Najibullah sostituisce Babrak Karmal;
1988
in maggio l’armata sovietica comincia a ritirarsi dopo nove anni di
guerra contro dei mudjaheddin sostenuti da Stati Uniti, Pakistan, Cina e
Arabia saudita;
1992
con il crollo del regime sovietico, il 16 aprile Mohammed Najibullah
dà le dimissioni ed è subito sostituito da Burhanuddin Rabbani, che è
alla testa di una coalizione di mudjaheddin;
1992-1996
delle fazioni rivali si combattono per conquistare il potere; Kabul
è bombardata a più riprese;
1996
il 24 settembre, i talebani, sostenuti dal Pakistan, occupano Kabul e
installano un regime islamista diretto dal mullah Omar; Mohammed Najibullah
è impiccato;
1998
l’8 agosto i talebani conquistano Mazaar-i-Sharif, l’ultima
grande città tenuta dai mudjaheddin che si ritirano nella vallata del
Panshir, al confine con l’Uzbekistan e il Tagikistan e da lì continuano a
resistere;
il 20 agosto l’aviazione americana bombarda dei campi di addestramento di Osama bin Laden accusato degli
attentati contro le ambasciate americane in Tanzania e in Kenia;
1999
il 6 luglio vengono imposte le sanzioni americane contro il regime
talebano e il 19 dicembre 2000 anche l’Onu decreta delle sanzioni contro
Kabul;
2001
il 9 settembre, due giorni prima degli attentati negli Stati Uniti,
il comandante dell’Alleanza del Nord, Massud, è ucciso in un attentato.
-
- Per
dare un’idea molto sommaria dello stato del paese e della sua popolazione
ci limitiamo a due argomenti che vengono di solito ignorati. Il primo è trattato in un articolo su Le Monde
- e dice che “l’Afghanistan è probabilmente il paese più minato del
pianeta. Le terre coltivate, i pascoli, i canali d’irrigazione, le zone
abitative e rurali, le strade e i sentieri, sono infestati da mine”, di
cui è impossibile valutare il numero e la localizzazione. Pare che
l’armata sovietica abbia seminato “diverse decine di milioni di mine”,
che sono poi rimaste anche dopo la sua ritirata; e le fazioni che poi si
sono combattute dopo il 1989, compresi i talebani e i mudjaheddin
dell’Alleanza del Nord, hanno continuato a seminare mine.
- Secondo
un progetto americano, per localizzare i campi di mine - spesso buttate da
aerei sovietici, quindi sparse in giro - occorrerebbero sui 13 anni, nonché
le necessarie condizioni di pace. Però, informa il quotidiano, delle
operazioni di sminamento sono iniziate subito dopo il ritiro delle truppe
sovietiche e vi sono impegnate “una quindicina e passa di paesi, ong e
soprattutto l’Unione europea. Perciò nel corso del 2000 sono stati
distrutte 13.542 mine antipersonale, 636 mine anticarro e 298.828 proiettili
non esplosi. A questo ritmo, e a condizione che cessino le ostilità, si
calcola che occorre una quindicina d’anni per poter dichiarare che
l’Afghanistan è stato sgomberato dalle mine”. E invece è probabile che
se ne aggiungano delle altre.
- Il
secondo argomento lo troviamo in un articolo dell’Economist,
e parla della coltivazione e dello smercio di oppio. Si sa che, tenendo
conto del suo prodotto originale, l’oppio, l’Afghanistan ha coperto
sinora il 70% della produzione mondiale di eroina; un altro 23,4% viene dal
Myanmar, un 3,6% dal Laos, l’1,9% dalla Colombia e lo 0,7% da altre
regioni. Anche lo sviluppo di questa produzione è dovuto alla guerra che
tormenta il paese da oltre venti anni - ed è fortemente aumentato nel corso
degli anni Novanta. “Nel 1989, il paese produceva 1.200 tonnellate di
oppio. Dieci anni più tardi, il raccolto si era quadruplicato sino a un
totale valutato sulle 4.600 tonnellate”. Pare che nei primi anni del
loro potere, cioè dal 1996, i talebani abbiano incoraggiato questa
produzione - per motivi finanziari evidenti e forse come mezzo indiretto di
colpire l’occidente. Ma dal giugno 2000, il regime aveva iniziato a
cooperare con l’Odccp dell’Onu (Office of drug control and crime
prevention) e aveva bandito la coltivazione dell’oppio - che nel 2001
veniva calcolata a non più di 185 tonnellate, con un calo del 95%. I fatti
dell’11 settembre e il loro seguito non hanno eliminato il bando, ma lo
hanno reso inefficace.
- Adesso,
scrive il settimanale, il prezzo a chilo sul mercato pakistano, che stava a
700 dollari, è sceso a 100 dollari - e questo fa temere una fiumana. La
guerra rende certamente difficile la coltivazione dell’oppio (e di altri
prodotti agricoli), ma pare che il regime talebano disponga di riserve per
2.800 tonnellate di oppio, pari a 280 tonnellate di eroina; buttato sul
mercato pakistano, quell’oppio potrebbe rendere 1,4 miliardi di dollari -
convertibili in armi e altre cose indispensabili alla guerra. L’Economist aggiunge che, secondo i
calcoli dell’Onu e dell’Interpol, a Milano o a Londra l’eroina
derivata potrebbe rendere tra i 20 e i 40 miliardi di dollari. Cifre che
bastano a suggerire il giro di malavita interessata e il pericolo relativo -
in questo “mercato” occidentale. Bisognerebbe poi parlare dei rifugiati
afghani, un fenomeno spaventoso. “Ventidue anni di guerra e tre anni di
siccità - scrive Le Monde - hanno già costretto all’esilio
3,7 milioni di afghani, di cui più di 2 milioni vivono in Pakistan e 1,5
milioni circa in Iran. L’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Hcr)
si prepara a un possibile nuovo afflusso di un milione di rifugiati in
Pakistan, 400.000 in Iran, 50.000 in Tagikistan, e altrettanti in
Turkmenistan”. E, considerate queste cifre, c’è soltanto da chiedersi
perché i nostri media non ne parlino quasi mai. Ma sono discorsi troppo
ampi e noi volevamo soltanto darvi un’idea della situazione.
-
- La
strategia militare in Afghanistan è, come abbiamo visto, dominata dal
problema del regime politico
con cui sostituire i talebani - e qua riprendiamo il tema perché ovviamente
esso riguarda il futuro della popolazione afghana. Scriveva il Financial Times
che tre problemi condizionano i tentativi di formare un nuovo governo in
attesa. Il primo riguarda la necessità, da un lato, di appoggiarsi alle
forze dell’Alleanza per un’azione su terra e, dall’altro, di
distinguere tra l’appoggio militare e il ruolo politico che i capi
dell’Alleanza possono avere domani a Kabul. Cioè il meno possibile.
Questo perché le etnie maggiormente rappresentate nell’Alleanza, tagiki e
uzbeki, sono invise all’etnia dominante, i pashtun, e non sono esattamente
gradite al governo pakistano - per non parlare dei brutti ricordi lasciati
dagli uomini che oggi compongono l’Alleanza e delle rivalità tra loro. Il
secondo problema è che anche i pashtun sono sì un’etnia dominante ma
divisa anch’essa tra tribù e
personalità locali; e “se anche i pashtun si unissero, resterebbe la
questione di come unire a essi gli altri gruppi etnici afghani”. Infine,
bisogna decidere che cosa fare dei talebani: escluderli totalmente, o
includere in un nuovo regime i talebani “moderati”? Il problema è
contemporaneamente esterno e interno. Esterno perché perlomeno il Pakistan
non vuole perdere del tutto un punto di influenza che si è creato
appoggiando i talebani nella loro conquista del potere; interno perché
“la sconfitta del regime talebano presenterebbe una grave minaccia per la
stabilità di qualsiasi governo posttalebano, in Afghanistan e anche in
Pakistan. ‘Non può esserci pace nella regione, dice un alto dirigente
pakistano, se i talebani sono esclusi da una soluzione politica. E poiché
non possiamo cancellarli, il buon senso consiglia di dare ai talebani
moderati una via d’uscita’”. E pare che, nei suoi colloqui con il
presidente Pervez Musharraf, anche Colin Powellabbia riconosciuto questa
necessità.
- La
soluzione di questi dilemmi è stata (e probabilmente lo è tuttora) cercata
nella figura di Mohammed Zahir Shah, 86 anni, re dell’Afganistan dal 1933
al 1973 e ultimo rappresentante della dinastia Durani, che si era installata
a Kabul nel 1761. L’idea era non di rimetterlo sul trono ma piuttosto di
farne il perno di una convergenza delle varie etnie e tribù su una
soluzione concordata e funzionale - cioè sulla formazione di un “grande
consiglio, una sorta di Parlamento, se capiamo bene, la tradizionale Loya Jirga, che fu convocata
l’ultima volta nel lontano 1964 e che dovrebbe essere formata di nuovo.
La Loya Jirga, formata da anziani
delle tribù e da altri notabili, dovrebbe poi scegliere un governo e un
capo dello Stato; e secondo un primo accordo raggiunto a Roma ai primi di
ottobre (ma solo con oppositori del regime talebano, compresi del
rappresentanti dell’Alleanza), essa dovrebbe essere composta da 120
membri. Il problema sta nella ripartizione dei posti - e nell’effettiva
autorità di Zahir Shah, tutt’altro che sicura.
- “Il
re non è accettato da tutti gli aghani. Né, cosa ancor più preoccupante,
i suoi sostenitori si accettano gli uni gli altri” - scriveva l’Economist.
Ad esempio, pare che la stessa tribù Popalzai, da cui proviene Zahir Shah,
appartenente all’etnia pashtun, sia decisa a sostenere i talebani sino in
fondo; inoltre, “il sostegno all’ex re potrebbe svanire se gli afghani
dovessero considerarlo come uno strumento in mano agli americani”.
Insomma, “aprire un vuoto in Afghanistan sarebbe anche troppo facile, ma i
suoi risultati sarebbero terribili. Quando il governo sostenuto dai
sovietici cadde a Kabul, dei potentati senza legge colmarono il vuoto e
agirono in modo tale da rendere benvenuto anche il rigido regime talebano,
perlomeno all’inizio”; ma rappattumare una soluzione, per rispondere
alle impellenti esigenze della situazione militare, non apre prospettive
brillanti. Specialmente per la popolazione afghana - e popolazioni dei
dintorni.
-
- A Peshawar - città pakistana al
confine con l’Afghanistan - si è tenuta una Jirga con un migliaio di
personalità e di capi tribù afghani, presieduta da Pyr Syed Ahmed Gilani,
che a suo tempo diresse la resistenza contro i sovietici. Pare che dopo
alcuni giorni di dibattito, l’assemblea si sia pronunciata per il ritorno
dell’ex re Zahir, la convocazione di una Loya Jirga che decida il nuovo
regime e il nuovo governo e la cessazione dei bombardamenti americani che
colpiscono la popolazione molto più dei talebani.
Le nostre informazioni si fermano qua - e resta da vedere se queste
raccomandazioni possono tradursi in atto politico concreto. Il Financial Times
riferiva l’opinione di alto dirigente pakistano secondo cui i capi tribali
non hanno forse più l’autorità di cui hanno storicamente goduto perché
“la loro influenza è stata erosa dall’apparizione di signori della
guerra regionali e da gruppi criminali che prosperano sul narcotraffico e il
contrabbando” - per cause che non è difficile immaginare. Aggiungeva Le Figaro: “Il problema di questa
conferenza di uomini di buona volontà è che non includeva nessuno dei
signori della guerra, nessuno dei comandanti locali che tengono le redini
oggi. E, che lo si deplori o no, sono loro che oggi costituiscono la realtà
della politica afghana”.
- Vista la difficoltà di creare un nuovo governo afghano in tempi
rapidi, verso la fine di ottobre si è delineata un’iniziativa europea
mirata “a stabilire a Kabul un ‘governatorato’ dell’Onu, affiancato
da un governo afghano provvisorio, sostenuto da una forza internazionale di
sicurezza, di cui resta da precisare la natura. Lo scenario era il seguente:
aiutata militarmente dagli Stati Uniti, l’Alleanza del Nord
s’impadronisce di Kabul prima dell’inverno. In pochi giorni, il
presidente Rabbani trasferisce la sua autorità a un governo provvisorio che
dovrebbe essere composto da 9 a 12 membri, rappresentativi dei partiti e
delle etnie afghane, con una presidenza a turno che cambia ogni mese. Però
il potere reale sarebbe esercitato dall’Onu, attraverso un ‘proconsole’,
o ‘governatore’, o anche ‘vicerè’ (nella persona di) Lakhdar
Brahimi, ex capo della diplomazia algerina” e rappresentante personale di
Kofi Annan per l’Afghanistan dal 1997 al 2000. “Il mandato dell’Onu
sarebbe di amministrare il paese per un anno, sino alla convocazione di una
Loya Jirga”, che completerebbe la riforma.
- Non possiamo, naturalmente, né giudicare la funzionalità di
questa proposta, né dire se avanza o no. Lo stesso Lakdar Brahimi ha detto
che l’Onu non aveva ancora deciso niente, perché “l’avvenire
l’Afghanistan non si decide a Manhattan” - e a Kabul è impossibile.
L’impressione è che, per ora, si tratti specialmente di trovare una
formula accettata da almeno una larga parte di paesi musulmani per colmare
“il largo vuoto tra la strategia militare tesa ad abbattere il regime
talebano e la strategia politica mirata a sostituire quel regime con
qualcosa di locale e duraturo”.
Per il resto, sostituzione dell’Alleanza del Nord con un governo
provvisorio, composizione di questo governo per soddisfare tutti, capacità
funzionale del “governatorato” Onu, composizione della forza Onu e sua
durata, sono tutti punti dubbiosi; per non parlare del fatto che impiantare
un nuovo governo non vuol dire che tutto sia risolto. Come hanno imparato i
sovietici - che avevano occupato Kabul e instaurato un nuovo governo, e
videro poi le fazioni che lo componevano farsi la guerra per quattro anni.
-
- Another
powder trail, "Economist", 20 ottobre 2001.
- John
Thornihill, Things fall apart, "Financial Times", 30
settembre 2001.
- Riprendiamo le date da "Le
Monde" 30 settembre 2001.
- Laurent
Zecchini, L’Afghanistan, le pays le plus miné du monde,
"Le Monde", 18 ottobre 2001.
- "Economist" del 20 ottobre
2001, già citato.
- F.C., Ils
sont pris au piège dans leur pays, déplore le FCR, "Le
Monde", 28 settembre 2001.
- Edward
Luce, The Afghan altenative, "Financial Times", 24
ottobre 2001.
- Françoise
Chipaux, En Afghanistan, les scénarios politiques de l’après-talibans
tournent au casse-tête ethnique, "Le Monde", 23 oottobre
2001.
- After
the Taliban, "Economist", 6 ottobre 2001.
- Brian
Kowlton, Afghan exiles call for bombing halt, "International
Herald Tribune", 26 ottobre 2001.
- John
Thornhill, Traditional leaders call for peace jihad, "Financial
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- Renaud Girard,
Les Afghans en quête de l’homme providentiel, "Le
Figaro", 26 ottobre 2001.
- Serge Michel,
L’ONU se prépare à administrer l’Afghanistan, "Le
Figaro", 25 ottobre 2001.
- Les
Nations unies tentent à leur tour d’organiser un après-talibans,
"Le Monde", 27 ottobre 2001.
- Steven
Erlanger, Europe leads drive to form Afghanistan’s next regime,
"International Herald Tribune", 26 ottobre 2001.