Notizie Internazionali
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi

Numero speciale "11 settembre"

Guerra

L’inizio
Due informazioni danno chiaramente il senso delle tendenze e dello stato d’animo all’indomani degli attacchi terroristici. Il settimanale Time[1] riportava i risultati di un sondaggio condotto all’indomani degli attacchi - e pur non potendone certificare l’esattezza, le risposte erano molto significative. Il 78% dei soldati riteneva che all’origine stesse bin Laden; il 78% riteneva “molto probabile” o “abbastanza probabile” che dietro ci stesse Saddam Hussein. Il 62% riteneva che gli Stati Uniti dovessero dichiarare guerra, anche se il 61% non sapeva indicare contro chi; il 65% riteneva probabile che un attacco contro bin Laden avrebbe portato ad allargare il conflitto ad altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia; l’85% era per degli attacchi aerei contro obiettivi militari isolati, l’81% era per l’assassinio di dirigenti responsabili degli attacchi terroristici, il 55% era per un’invasione da terra e il 48% era per bombardamenti massicci “che possono uccidere anche dei civili”.
Questa reazione psicologica comprensibile, era corroborata da un articolo sul serissimo e solitamente equilibrato Herald Tribune[2]. “Il conflitto tra civiltà che sembra aver portato al mostruoso attacco terroristico negli Stati Uniti non lascia alcun angolo neutrale in cui possano rifugiarsi dei paesi o degli individui per evitare delle nuove scelte in quello che improvvisamente è un mondo diverso. L’attacco terroristico, come atto di guerra contro l’America sul suo stesso suolo, esige una risposta impegnata della comunità mondiale, ma mo­difica il mo­do in cui gli americani possono considerare questioni come il conflitto israelo palestinese, la difesa missilistica, la globalizzazione e lo stesso terrorismo”.  Dunque “conflitto di civiltà”, quindi anche rafforzamento della linea Sharon, accantonamento delle esitazioni del Congresso circa lo scudo missilistico - per non parlare del fatto che “la demonizzazione degli Stati Uniti e delle organizzazioni mondiali per il commercio, in un contesto di violenza, ha di colpo assunto i contorni di un’iniziativa possibilmente sanguinaria”.
Questo contesto di tensione si rifletté anche nella riunione che Bush tenne a Camp David subito dopo gli attacchi. Riferisce il The Observer[3] che là si scontrarono Wolfowitz e Powell, che non si erano mai amati. “Wolfowitz disse che era a favore di attacchi militari imme­diati e ad ampio raggio contro obiettivi terroristici in Medio Oriente e in Asia.È il momento, egli disse, di attaccare non soltanto il terrorismo ma anche i regimi che lo alimentano, le sue radici, i suoi campi di addestramento, le sue cellule e le sue basi operative. Wolfowitz disse che gli Stati Uniti dovevano attaccare la valle della Beqaa, dalla quale i militanti del ‘partito di Dio’ Hizbollah attaccano la parte settentrionale di Israele. Egli suggerì anche di punire l’Iraq, dicendo che nessuna campagna anti terroristica poteva dirsi seria sinché Saddam Hussein rimanesse al potere”. La risposta di Powell: “In questo modo si affossano le alleanze”. Obiezione di Bush a Powell: “Gli Stati Uniti hanno il diritto di di­fendersi”.
Sul piano strettamente militare le possibili opzioni che si presentavano in quel momento erano: a) un attacco con missili cruise, allo stesso modo in cui aveva reagito Clinton dopo gli attacchi terroristici alle ambasciate americane nel 1998 - ma questa reazione vistosa e senza perdite americane non avrebbe dato risultati reali; b) attacchi aerei estesi, con apparecchi in partenza da un’ampia rete di portaerei e basi terrestri - ma questo attacco, mirato a neutralizzare lo scarso armamento antiaereo talebano, di per sé non poteva colpire la rete terroristica, che non dispone di installazioni militari consistenti; c) invasione da terra con supporto aereo - con un esteso impianto logistico e avendo prima stabilito degli o­biet­tivi specifici per non cadere in un’occupazione estesa simile a quella sovietica; d) opera­zioni con forze speciali, dirette a catturare bin Laden, senza farsi coinvolgere in una guer­riglia diffusa.
La prima opzione venne subito scartata; le altre due richiedevano delle forze speciali e tutto un complesso piano d’impiego; occorrevano quindi delle basi sicure; e fu chiaro che senza l’appoggio o perlomeno la neutralità di tutta una serie di stati musulmani si rischiava la catastrofe politica e militare. Di lì partì tutto il lavoro diplomatico teso a garantire essenzialmente due cose: stabilità e cooperazione col mondo musulmano e una rete di basi aeree e terrestri attorno a un solo obiettivo, l’Afghanistan: perciò anche Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan - quindi un accordo persino con la Russia. Anche perché diveniva sempre più evidente che non ci si poteva appoggiare sul solo Pakistan. C’era poi un altro fatto fondamentale. Se la lotta è contro tutta la rete internazionale del terrorismo, bisogna tener conto che “secondo dirigenti dell’intelligence americana bin Laden ha degli operatori in più di 50 paesi”[4] - ed è stato spesso ripetuto che alcuni di questi “operatori” possono so­stituirlo qualora egli fosse catturato o ucciso. Quindi l’azione militare deve rientrare in una lotta molto più ampia. Il 15 settembre, Bush parlò alla televisione caratterizzando chiaramente la situazione: “Questo conflitto è di natura diversa, contro un nemico che è anch’esso di natura diversa. È un conflitto senza campi di battaglia e senza posti avanzati, un conflitto con nemici che si credono invisibili. (...) Non vinceremo il terrorismo con una sola battaglia ma con una serie di azioni contro le organizzazioni terroristiche e coloro che le ospitano e le proteggono. Noi progettiamo una campagna massiccia e duratura per porre il nostro paese al riparo e sradicare il demone del terrorismo e siamo decisi a condurre il combattimento sino alla fine”. Abbiamo già citato questo discorso; qua dovrebbe essere più chiaro il suo significato.
L’interrogativo decisivo era: portare l’azione contro il solo Afghanistan, come perno evidente della rete terroristica, o estenderla ad altri paesi? Non era infatti ancora esclusa una qualche azione contro paesi giudicati sostenitori del terrorismo - come l’Iraq, l’Iran, lo Yemen, il Sudan, persino il Pakistan. In parole povere: soltanto l’Afghanistan, o anche l’Iraq? Un’intervista con James R. Schlesinger, ex direttore della Cia e segretario alla Difesa dal 1973 al 1975, con Nixon e Ford, aiuta a capire il dilemma[5]. “Resta da vedere se Bush saprà mostrarsi ragionevole e saprà valutare le conseguenze che le nostre azioni potrebbero avere nel mondo arabo. Perché se attacchiamo l’Iraq o la Siria, come alcuni suggeriscono a Washington, temo che si provochino delle reazioni a catena (e) oggi la politica estera americana rischia grosso di alimentare la collera nel mondo arabo (e) la collera nel mondo arabo contro gli Stati Uniti è reale, perché essi hanno sostenuto Israele in modo incondizionato, specialmente equipaggiandolo militarmente”. Ma gli rispondeva James Woolsey, anch’egli ex direttore della Cia: “Il problema degli Stati Uniti non è di aver ignorato la rete di Osama bin Laden, ma di aver respinto l’idea che delle azioni terroristiche sofisticate possano essere originate da Stati e dai loro servizi segreti. Io credo che l’Iraq sia il candidato più evidente e credo anche che l’attacco dell’11 settembre lo confermi in modo indiretto. (...) Bisognerebbe liquidare il regime di Saddam Hussein con tutti i mezzi necessari. Noi sappiamo che l’Iraq lavora alla produzione di armi biologiche, chimiche e nucleari. Sappiamo che fabbrica dei missili. Sono anche convinto che Saddam Hussein sia implicato in numerosi operazioni terroristiche”.[6].
 
Insomma, in guerra l’azione militare si è sempre accoppiata all’azione politico diplomatica, ma in questo caso si direbbe che da un lato l’azione diplomatica decide i termini e anche i limiti dell’azione militare e, dall’altro, che l’azione militare stessa è davanti a condizioni e quesiti che esorbitano dalla sua tradizione; in questo sta probabilmente uno degli impulsi a porre tutto sul piano militare e darci dentro. In altre parole: non è la prima volta che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare un avversario che non risponde a caratteristiche militare tradizionali - basterebbe ricordare il Vietnam, dove gli Stati Uniti non hanno perso una sola battaglia, ma non hanno potuto vincere la guerra; ma oggi sono la natura e la dimensione davvero globale dell’avversario a sollevare interrogativi circa l’efficacia degli strumenti militari convenzionali. Bush, osservava un commento del Financial Times[7], “deve ordinare una risposta militare decisiva. Ma gli esperti vedono soltanto dei modi limitati in cui delle forze armate possono essere impiegate contro i terroristi - gruppi e individui ampiamente dispersi”. Infatti, l’azione militare non è essenzialmente contro un paese, ma contro una rete terroristica, e almeno all’inizio l’attacco all’Afghanistan era mirato soltanto a ciò che si giudica come il perno della rete, quindi non contro un paese come tale - e nemmeno contro tutta la rete terroristica. Perciò “non è una guerra in stretto senso militare. Non c’è una linea di fronte, non c’è territorio da occupare, non si può combattere soltanto con armi moderne tirate da lontano”. E, come ha detto lo stesso Bush, la guerra non può risolversi con “una sola battaglia”. Giudicavano gli esperti che l’azione in Afghanistan “può includere dei bombardamenti, degli attacchi con missili cruise, e l’impiego di truppe speciali per distruggere i campi di addestramento e i nascondigli dei terroristi. Ciò che va evitato, diceva sempre questo commento, è di “ripetere l’errore dell’ Unione sovietica e tentare di combattere una guerra convenzionale contro un nemico non convenzionale”. Né si poteva “bom­bardarlo sino a farlo regredire all’età della pietra, perché già non è lontano dall’età della pietra”.
Sulla carta, lo spiegamento di forze angloamericane era - ed è - impressionante. Secondo dati pubblicati dall’Observer[8] sono disponibili queste basi: Stati Uniti, base di Whiteman, con aerei B-2 (Stealth) capaci di volare senza scalo sino all’Afghanistan, con 162.000 bombe di precisione e 5.000 bombe antirifugio; Turchia, base di Incirlik, con caccia-bombardieri e aerei Awacs; Cipro, con oltre 3.000 uomini; Arabia saudita, la base di King Khalid e la base di di Prince Sultan, con flotte aeree e personale di terra americano e britannico; Kuwait, la base di Al Salem, inglese e la base di Al Jaber, americana, entrambe con flotte aeree; Oman, forze britanniche per 20.000 uomini una trentina di aerei, elicotteri, Awacs  aerei da trasporto; Qatar, la base di Doha come deposito di materiale americano; Bahrain, come base aerea britannica; l’isola di Diego Garcia, britannica, nell’oceano Indiano, come base aerea per dei B-52. A queste forze aeree bisogna aggiungere quelle navali e cioè: la portaerei americana Carl Vinson, posizionata nel Golfo Persico con 75 aerei, una flotta di 12 navi e 6.000 uomini; nel mare Rosso la portaerei americana Entreprise con 50 aerei, una flotta di 24 fregate e sottomarini, e la portaerei Theodore Roosevelt con 80 aerei, una flot­ta di  14 navi, 15.000 uomini tra cui 2.000 marines; la portaerei britannica Ocean, con una flotta di 17 navi e 23.000 uomini; nell’oceano Indiano sta la portaerei Kitty Hawk, con 75 aerei, una flotta di una quindicina di navi e un 20.000 uomini. Altre basi sono disponibili in Uzbekistan e Tagikistan.
Contro queste forze, l’Afghanistan può schierare 50.000 uomini con armi portatili, 650 carri armati di origine sovietica e altri veicoli militari, dei cannoni da 76 mm, 107 mm, dei lanciarazzi da 122 mm e dei mortai da 80 e 120 mm; un centinaio di cannoni antiaerei e una ventina di mitragliere antiaeree; 10 cacciabombardieri e 21 caccia anch’essi di origine sovietica. Davanti ai talebani, sul terreno, sta l’Alleanza del nord con un massimo di 15.000 uomini, una sessantina di carri armati sovietici, un numero imprecisato di cannoni, praticamente nessuna difesa antiaerea, 8 elicotteri da trasporto e una trentina di missili. Cioè praticamente niente. 
Il problema era come passare da questa vasta disponibilità tattica, che permetteva di colpire altri stati oltre all’Afghanistan, a una linea strategica - e questo problema si articolava in due punti essenziali: come procedere in Afghanistan; limitarsi all’Afghanistan o attaccare anche altri Stati. Di ritorno da Washington, il ministro degli Esteri francese Hubert Védrine diceva in un’intervista a Le Monde[9] che non si potevano escludere degli attacchi ad altri Stati, oltre che all’Afghanistan, ma che “oggi non ci sono indicazioni in questo senso”. E, suggerendo una posizione non soltanto francese, aggiungeva che “il solo fatto che un’organizzazione terroristica transnazionale abbia raggiunto questo terrificante livello di efficienza non per­mette di concludere che le stia dietro uno stato. È importante che gli americani diano al mondo il massimo di indicazioni e di precisioni” su questo punto.
A fine settembre, l’Observer[10] scriveva che stando alle sue informazioni il segretario alla Difesa Rumsfeld sarebbe tornato alla carica presentando a Bush “due proposte dettagliate di guerra senza limiti (che) sono state accantonate temporaneamente ma restano in sospeso. (Esse) propongono una guerra senza limiti di tempo o di geografia e potenzialmente estesa a tutto il Medio oriente e all’Asia centrale. (...) I piani proposti al presidente nei giorni scorsi prevedono di espandere la guerra aldilà dell’Afghanistan per includere delle analoghe incursioni di forze speciali, seguite da attacchi aerei, in Iraq, Siria, valle della Beqaa in Libano”. La risposta di Colin Powell, sostenuto a quanto pare da Condoleeza Rice, è stata che “una campagna di questo genere sarebbe disastrosa, perché isolerebbe gli Stati Uniti e spezzerebbe la coalizione che essi hanno attentamente costruito” - e pare che anche i pezzi grossi militari del Pentagono fossero ostili alle proposte di Rumsfeld, osservando che “i GI americani non sono delle pedine su un qualche scacchiere globale”. Ci si può interrogare sulla logica di queste proposte ma, scartando il puro riflesso psicologico, si direbbe che esse esprimevano la tentazione di accantonare le difficoltà della azione politica, per permettere agli Stati Uniti di decidere da soli.
In altre parole, verso la fine di settembre esisteva un potente dispositivo aeronavale, con forze da sbarco notevoli ma di cui non si poteva valutare la capacità di impiego specifico; questo dispositivo era chiaramente mirato all’Afghanistan, ma non aveva ancora una strategia dichiarata - nel senso del tipo di attacco all’Afghanistan e in quello di estensione dell’attacco. Inoltre, non era (e non è) ancora chiaro il rapporto tra l’azione militare e l’azione an­titerroristica a lungo termine; perciò non era definito nemmeno il ruolo dei singoli paesi alleati, amici o disposti a cooperare - se come basi per un’azione militare che gli Stati Uniti riservano a se stessi, o se come membri di una coalizione mirata alla lotta alla rete terroristica internazionale. Diceva Hubert Védrine in risposta a una domanda che riguardava il rapporto con gli alleati in fatto di definizione degli obiettivi militari e del metodo di campagna: “Sul piano militare propriamente detto non ho l’impressione che siamo a questo pun­to (di associare gli alleati alle decisioni, nota nostra). In compenso, sono stato sorpreso dal fatto che Geor­ge Bush e Colin Powell non parlassero affatto, o non parlassero più, in modo unilateralista; parlavano di coalizione, di scambio di informazioni, di discussione con i soci occidentali, con la Russia, la Cina, l’India, la maggior parte dei governi arabi. È un approccio multilate­rale alla linea da seguire a lungo termine per lottare contro il terrorismo e sradicarlo”. L’osservazione è interessante - e riflette una realtà; ma non è ancora chiaro quale sia la distinzione tra discorso “unilateralista” e discorso “multilaterale”.
 
La guerra “in” Afghanistan - che pretendeva di non essere “contro” l’Afghanistan - è quindi iniziata lasciando senza risposta, perlomeno non apparente, i due interrogativi iniziali: con quale tattica condurla? e si allargherà ad altri paesi? Questa seconda domanda dipende anch’essa da due fattori potenziali: le decisioni che possono essere prese a Washington, le reazioni nei paesi musulmani - le cui dirigenze non sembrano disposte ad andare oltre una protesta, ma che potrebbero essere sommerse dal movimento popolare. Quanto agli obiettivi da colpire in Afghanistan le informazioni erano perlomeno scarse. Le Monde[11] scriveva a fine settembre che “i talebani controllano gli aeroporti di Kabul, militare e civile, di Kandahar, Jalalabad, Herat, Mazar-e-charife Shindad”, tutti obiettivi evidenti; pare che i talebani avessero anche dei missili scud con una portata di 300 km., altro obiettivo prioritario; poi c’era una fila di obiettivi come le caserme, i carri armati, i camion lanciarazzi, le antenne di telecomunicazione e le sedi dei servizi segreti, due centrali elettriche. Obiettivi di questo genere possono essere facilmente individuati e distrutti, ma il loro valore militare è perlomeno limitato - ed è tutta roba da “danni collaterali”.
Restava, ovviamente, bin Laden, l’obiettivo principale. Scriveva sempre Le Monde che “secondo il generale Ruslan Aushev, veterano dell’invasione sovietica 1979-1989, per trovare Osama bin Laden gli Stati Uniti dovranno passare a pettine fine 520.000 km quadrati di territorio” - e il quotidiano aggiungeva: “Gli esperti sicuramente conoscono i luoghi più utilizzati da bin Laden e dai suoi fedeli, ma non è facile raggiungerne alcuni con dei mezzi classici. La provincia orientale di Kunar, ad esempio, nasconde nella montagna una rete di caverne collegate le une alle altre, alle quali si arriva dopo diverse ore di marcia. Questa rete sarebbe attrezzata con un sistema di comunicazioni molto moderno”. I campi di addestramento dovrebbero invece essere più facilmente raggiungibili. Si sa che ne esistono tre nella sola provincia di Nangahar.
Pare insomma che la tattica della campagna “libertà duratura” consistesse di bombardamenti per colpire gli obiettivi fissi e poi di forze speciali per individuare e distruggere gli obiettivi nascosti - e ovviamente catturare bin Laden e i suoi. Questa seconda parte dell’azione, che resta ancor oggi segreta, deve fondarsi su due elementi indispensabili: anzitutto l’intelligence per individuare in anticipo i punti da colpire; in secondo luogo il sostegno di forze di terra che permetta di stabilire dei punti di sostegno abbastanza vicini per i gruppi di forze speciali impegnati in azione. All’inizio parve probabile che le forze dell’Alleanza del nord venissero usate in questo senso, con una loro avanzata verso Kabul. Meno chiaro, invece, era la funzione delle basi in Uzbekistan, dove gli Stati Uniti hanno installato un migliaio di uomini della Decima divisione di montagna: base di partenza per degli attacchi, oppure semplice base di appoggio logistico, come suggeriva il presidente uzbeko Islam Karimov, dicendo a una conferenza stampa tenuta insieme a Donald Rumsfeld, che “la base aerea concessa può essere utilizzata dagli Stati Uniti per aerei da trasporto, elicotteri e truppe. Ma gli Stati Uniti non possono usarla per lanciare attacchi aerei e da terra partendo dall’Uzbekistan”. [12]   
 
L’attacco
La storia della guerra è ancora tutta da fare e gli attacchi aerei iniziati il 7 ottobre sono soltanto il suo inizio; possiamo però parlarne proprio per que­sto. Anzitutto, l’attacco è stato sferrato con dei bombardieri B-2 (Stealth) e B-52, da 25 cacciabombardieri e da u­na cinquantina di missili Tomahawk lanciati da sottomarini americani e britannici. A botta calda, le previsioni erano che gli attacchi aerei sarebbero durati soltanto alcuni giorni, data la scarsità degli obiettivi da colpire; nel suo discorso alla nazione, Bush aveva parlato di due fasi: la prima mirata a distruggere le installazioni e le comunicazioni della rete al-Qaida - e beninteso quelle afghane; la seconda mirata a individuare i terroristi e “consegnarli alla giustizia” - quindi un’azione su terra, probabilmente prolungata.
Tre aspetti sembrano caratterizzare questa prima fase. Commentava Le Monde[13] che  “le risorse mobilitate dall’11 settembre sono certo importanti; ma per dei motivi che riguardano in parte la cattiva volontà di alcuni alleati che rifiutano l’impiego delle loro basi, e che riguardano anche le particolarità dell’avversario e dell’Afghanistan, il vantaggio numerico e materiale non è, questa volta, decisivo. La vittoria dipenderà anche dalle scelte tattiche, dall’abilità delle forze impiegate a terra e dalla gestione politica della crisi”. Poi Le Figaro[14] osservava che, pur essendo la sola forza alleata intervenuta con gli americani, “la partecipazione britannica è delle più simboliche. ‘Gli americani fanno il 98% del lavoro, gli inglesi appena il 2%’, commenta un esperto militare francese”. I motivi stanno nel divario di sviluppo tecnologico tra le forze americane e quelle dei paesi della Nato e sta anche, pare, nel fatto che “Bush non ha alcuna voglia di contornarsi di alleati che chiedono voce in capitolo sugli obiettivi militari”, come avvenne durante la guerra in Kosovo. Infine, sempre Le Figaro precisava che i cacciabombardieri erano tutti partiti da portaerei, i B-2 erano partiti dalla base in Missouri e i B-52 dalla base di Diego Garcia; solo gli aerei da rifornimento avevano fatto scalo a Oman, la sola base aerea utilizzata in un paese del Medio Oriente.
Quanto alla guerra in sé, a una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza, il 7 ottobre, tramite il loro ambasciatore Negroponte gli Stati Uniti hanno spiegato la loro posizione sottolineando specialmente due punti: la durata della campagna, che veniva prospettata su diverse settimane; il diritto di condurre “altre azioni militari contro altre organizzazioni e altri Stati”, diritto che gli Stati Uniti riservano a se stessi e potrebbero esercitare in base ai risultati di un’indagine sulla rete terroristica che era soltanto agli inizi. Il Consiglio di sicurezza espresse all’unanimità il suo appoggio “senza riserve” all’azione degli Stati Uniti, i quali esercitano così “il loro diritto di difesa individuale e collettiva” conformemente all’art. 51 della Carta dell’Onu. Nessuno dei membri del Consiglio ha sollevato obiezioni, nemmeno sul secondo punto della posizione americana. Un silenzio che Kofi Annan avrebbe indirettamente paragonato al “silenzio assordante” dei paesi arabi davanti alle minacce di guerra santa profferite da bin Laden.    [15]
Quel silenzio è importante, ma non conclusivo. Più tardi si è tenuta a Doha una sessione plenaria dell’Organizzazione della conferenza islamica (Oci), che raggruppa 22 paesi arabi e 35 paesi musulmani non arabi ed è stata diramata una dichiarazione che non critica l’intervento americano in Afghanistan, ma avverte gli Stati Uniti di non estendere l’azione militare ad altri paesi arabi o musulmani, “col pretesto di combattere il terrorismo”; questa lotta deve invece essere condotta sotto l’egida dell’Onu “ed essere definita chiaramente in modo da escludere i combattenti palestinesi e libanesi” e anzi tener conto del “terrorismo di stato praticato dal governo israeliano”[16]. Senza clamori, ma la diversità, per non dire contrasto, tra le due posizioni è evidente. Appariva subito chiaro che la “coalizione” di oggi non è l’alleanza al tempo della guerra nel Golfo; anzi, osserva lo Herald Tribune[17], “la gestione della coalizione antiterrorista, attentamente formata dall’amministrazione Bush, sta diventando sempre più complicata e delicata. Le espressioni pubbliche di solidarietà internazionale arrivarono facilmente subito dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, ma benché non fosse affatto un segreto che l’amministrazione intendeva rispondere, la reazione davanti alla campagna di bombardamenti è andata dal silenzio ufficiale alla protesta pubblica in una fila di paesi, specialmente nel mondo islamico”; e, cominciando da Mubarak, diversi dirigenti politici musulmani hanno in sostanza chiesto che gli Stati Uniti bilancino l’azione con una politica di soluzione della questione palestinese. “Stiamo tutti camminando sulle uova. Sinora, con il loro enorme potere, gli americani sono stati saggi e hanno fatto un buon lavoro. Ma sentono i sassi sotto i piedi”.  E non c’è bisogno di sottolineare che la tenuta della coalizione non può che incidere sulle mosse militari - e viceversa. 
 
Sull’attacco, Le Figaro[18] si faceva delle domande che meritano di essere riprese. Qua­l è l’efficacia degli attacchi aerei? Col primo attacco sarebbero stati colpiti u­na trentina di obiettivi militari, “cioè pressappoco“il numero di obiettivi strategici degni di questo nome identificati dagli esperti militari americani in tutto l’Afghanistan” - mentre in Iraq e in Serbia ne erano stati indicati un migliaio. Anche se limitati nel numero di aerei impiegati - perlomeno rispetto alla guerra nel Golfo e in Kosovo - i bombardamenti hanno rapidamente messo fuori gioco tutta la difesa antiaerea fissa; resta però l’incognita dei lanciamissili portatili, calcolati sui 2-300 e specialmente dei Sam7 sovietici e degli Stinger - un 600 pezzi forniti a suo tempo dalla Cia - armi individuali che “potrebbero porre dei problemi seri ai caccia e agli elicotteri alleati” nella seconda fase dell’attacco.
Seconda domanda: che tattica possono adottare i talebani? La risposta è semplice: la guerriglia - e data la dimensione del paese e il terreno montagnoso, era sin dall’inizio (e resta) escluso che gli Stati Uniti procedano con un forte dispiego di forze di terra. Terza domanda: quale fase due? A questo proposito, il Financial Times[19] scriveva che gli esperti prevedevano l’impiego di “truppe convenzionali, altamente addestrate, piuttosto che l’esclusivo ricorso a forze speciali, che si dice siano già impegnate in compiti particolari all’in­terno dell’Afghanistan. Saranno necessarie delle truppe di fanteria di prim’ordine e fortemente armate, con elicotteri, come la 82a e la 101a divisione aviotrasportate, la 10a divisione di montagna, o la 3a brigata di commandos dei marines britannici”. Sinora, stando a informazioni di Le Figaro[20], sarebbero stati dispiegati “da qualche parte in Asia” un reggimento per operazioni speciali, il V gruppo di forze speciali e degli elementi della 101a divisione aviotrasportata; ma mentre si hanno oggi informazioni sulle forze speciali, non si sa nulla sulle forze di fanteria e sul loro eventuale impiego.
Erano invece (e sono tuttora) evidenti tre condizioni: anzitutto non impegnarsi “alla sovietica”, quindi affidare a queste truppe dei compiti specifici e avere la capacità di inserirle e ritirarle rapidamente; in secondo luogo l’appoggio più o meno esteso delle forze dell’Alleanza del nord; infine, terminare queste operazioni prima che l’inverno le renda impossibili. Insomma, l’attacco aereo è la parte “più facile” dell’azione militare. La “seconda fase”, invece, è ancora oscura sul piano militare - ed è condizionata da due fattori: la capacità di concluderla installando a Kabul un nuovo governo stabile; la tenuta della coalizione. Scriveva Le Figaro  già citato: “Sul fronte diplomatico tutta l’abilità consisterà nel garantire che la guerra dichiarata al terrorismo non si trasformi in guerra all’Islam, la trappola in cui Osama bin Laden vorrebbe far cadere George W. Bush. Questo rischio spiega perché la Casa bianca abbia imposto la sordina a quei consiglieri che vogliono portare l’azione anche in altri paesi musulmani sospettati di patrocinare il terrorismo, come l’Iraq, la Siria e perché no? l’Iran”. Il primo fattore incide sulla tattica immediata in Afghanistan. Il secondo determina la strategia generale.
 
E poi?
A fine ottobre - cioè al momento in cui chiudiamo la nostra rassegna - il quadro che si presenta può essere sommariamente descritto in questi termini: continuano i bombardamenti per indebolire la capacità di difesa delle forze talebane e per distruggere i campi di addestramento di al-Qaida; si parla di attacco da terra, ma pare che le forze dell’Alleanza del Nord non siano ancora pronte - e intanto si avvicina l’inverno, quindi si prospetta un rinvio alla primavera prossima; il prolungamento del conflitto rischia di incidere sulla stabilità della coalizione. Quanto alla formazione di un nuovo governo regna la nebbia. Eppure questo era (e resta) un punto decisivo, sia per lo sviluppo tattico dell’offensiva, sia per la stabilità dell’Afghanistan dopo la sconfitta dei talebani. “Gli scopi di guerra, suggeriti dagli Stati Uniti - scriveva l'Herald Tribune[21] - includono chiaramente un nuovo governo a Kabul forte abbastanza da garantire che il territorio afgano non cada di nuovo sotto il controllo di una rete terrorista in­ter­nazionale come il grup­po al-Qaida  diretto da Osama bin Laden”. Perciò occorre una coalizione “etnicamente bilanciata” - in un paese in cui i conflitti tribali sono endemici. Il problema non poteva essere rimandato a un lontano futuro perché la seconda fase dipende dall’impiego delle forze dell’Alleanza del Nord; ma è chiaro che l’impiego di forze formate specialmente da etnie uzbeke e tagike si scontra con l’etnia dominante, i pashtun, e con l’ ostilità di alcuni paesi, a cominciare dal regime pakistano. E del resto non si può dire che le forze dell’Alleanza abbiano lasciato nel paese dei buoni ricordi di quando era al potere.
C’era, a quanto pare, la speranza che il regime talebano si disgregasse dal suo interno e, benché le informazioni stampa siano vaghe in proposito, sembra che ci sia stata (e forse continua) un’attività segreta per disgregare il concorso di forze etniche e tribali che sorregge il governo talebano. Non si sa dove abbiano concretamente portato i tentativi di  soluzione politica imperniati sull’ex re Mohammed Zahir; ma, scriveva l'Herald Tribune[22] “se questi colloqui tra l’Alleanza del nord e i gruppi politici sostenuti dal Pakistan dovessero fallire, come tutto sta indicando, gli Stati Uniti potrebbero trovarsi davanti a una scelta decisiva: rompere col Pakistan e bombardare le difese talebane di Kabul, oppure continuare i bombardamenti e lasciare che i talebani restino a Kabul sino a che non arrivi il pesante inverno afghano”. Per ora tutto questo resta per aria - perché non ci sono prospettive immediate di governo alternativo, perché la preparazione delle forze dell’ Alleanza pare richiedere tempi lunghi - e perché è stato ufficialmente ammesso che i talebani sono un osso più duro del previsto.
Sarebbe tutta una questione tattica, se non restasse il rischio di allargamento del conflitto. Come abbiamo visto, questa possibilità è stata sinora accantonata. “Limitandosi ad attacchi militari sul solo Afghanistan, anziché lanciare una campagna contro parecchi paesi - scriveva l'Herald Tribune[23] - “l’amministrazione Bush ha evitato di cadere in una trappola strategica evidentemente tesa dalle mente direttiva della rete terroristica, bin Laden” - e ammettiamo francamente che temevamo il contrario; ma per quanto accantonato l’allar­ga­mento del conflitto non è affatto escluso. Continua il dis­sidio all’interno dell’amministrazione Bush sull’opportunità o meno di procedere in quel senso - e restano i rischi di svilup­pi politici interni a diversi paesi musulmani che potrebbero trascinare in quella direzione. 
Scriveva l'Herald Tribune[24] che “un gruppo ben organizzato di dirigenti del Pentagono e di esperti militari esterni al governo americano stanno cercando di mobilitare l’opinione a sostegno di un’operazione militare per sbarazzarsi di Saddam Hussein, come prossima fase della guerra contro il terrorismo” - e questo stando a informazioni che provenivano da “alti dirigenti dell’amministrazione Bush e da altri esperti militari”. Lo scontro tra Powell e Runsfeld, insomma, pare continuare sottobanco. Questo gruppo, di cui non è chiara la natura, riunito in conferenza per un paio di giorni, elenca nomi famosi: Henry Kissinger, James Woolsey, James Schlesinger, ex segretario alla Difesa, l’ammiraglio David Jaremiah, ex  vice presidente dei Joint Chiefs of Staff, oltre a Donald Rumsfeld e Wolfowitz - ma nessuno del Dipartimento di Stato, che anzi non sarebbe stato “informato sulla conferenza”:  “Il gruppo, che alcuni del Dipartimento di Stato e di Capitol Hill chiamano la ‘cabala Wolfowitz’, vuole gettare le basi per una strategia che preveda l’impiego della forza aerea e l’occupazione dell’Iraq meridionale con truppe americane per mettere il gruppo di opposizione irachena formato a Londra a capo di un nuovo governo” - nonché mettere le mani sui giacimenti petroliferi, a scopo umanitario, beninteso.   
La logica di questa strategia non è affatto chiara; tanto più che la motivazione ufficiale - Saddam sarebbe parte rilevante della rete terroristica - è stata smentita da fonti autorevoli. Scriveva l'Herald Tribune[25] che “i servizi segreti di diversi paesi, inclusi alcuni paesi desiderosi di sbarazzarsi di Saddam, hanno concluso che l’Iraq non è coinvolto negli attacchi terroristici, né ha fornito rifugio o aiuti ad al-Qaida. ‘Vorrei aver trovato una connessione, ma non ho potuto’, dice un alto dirigente giordano. L’intelligence israeliana ha detto a quel­la americana che non ha trovato prove di un ruolo iracheno negli attacchi. (...) Gli Stati Uniti hanno attentamente cercato del­le connessioni irachene con bin Laden sin dalla bomba al World trade center nel 1993, ma dice un ex alto funzionario dell’amministrazione Clinton: ‘Ci sarebbe piaciuto trovarla, ma anche l’Fbi ha detto chiaramente che la traccia non porta da quella parte’”. In altre parole, aggiunge il quotidiano, “pare che bin Laden non abbia bisogno del sostegno di uno Stato per condurre i suoi attacchi terroristici.
 
Quali erano, sempre a fine ottobre, i risultati della “prima fase” e le prospet­tive per la seconda? Torniamo su questa domanda per esaminare più da vicino gli elementi di risposta. L’Economist[26] osservava che il numero di aerei impiegati nei raids non andava oltre alcune decine, contro i 1.000 impiegati contro la Serbia e i 2.500 utilizzati contro l’Iraq; quanto alle truppe di terra, si contavano 2.000 uomini in basi dislocate “in Asia centrale”; e scriveva che “la riluttanza dei principali alleati arabi a fornire supporto tecnico agli attacchi aerei resta preoccupante”. Le implicazioni militari e diplomatiche sono evidenti. Ed è evidente anche che l’idea di concludere rapidamente questa prima fase, per passare alla seconda, si è rivelata infondata. Sempre l’Economist[27] riassumeva adeguatamente la situazione dicendo che anziché di “paziente accumulazione di successi”, come aveva detto Bush all’inizio degli attacchi aerei, il 7 ottobre, bisognerebbe parlare di “accumulazione di non insuccessi” - riferendosi anche al fatto che sinora è stata evitata la destabilizzazione in Pakistan e Arabia saudita, che però potrebbe essere provocata dal protrarsi dell’ azione militare americana. Le Monde[28] riferiva un passaggio di un discorso di Bush: “Stiamo preparando il terreno affinché delle truppe di terra amiche possano stringere lentamente ma sicuramente la morsa attorno al nemico, per poi consegnarlo alla giustizia”. Il discorso è del 17 ottobre - ma non sembra che nelle settimane successive la situazione sia cambiata. 
Lo sottolineava anche Le Figaro[29]: “Fase 1 o fase 2? Non si sa molto della guerra che si svolge a porte chiuse dietro le montagne afghane, e ci si chiede anche se gli americani abbiano una strategia. E in questo caso, in quale fase delle operazioni siano collocati ora”. I bombardamenti, osservava il quotidiano, sono incomparabilmente inferiori ai colpi inferti durante le due guerre precedenti - e sarebbero mirati specialmente “a disorganizzare e a favorire le scissioni e le defezioni. Cioè a preparare in qualche modo il terreno alle forze speciali, questa cavalleria leggera di cui si attende l’entrata in scena da settimane. Pare che sia cosa fatta. La fase terrestre sarebbe iniziata questa settimana, a piccoli passi. ‘Essa sarà sempre un insieme di piccole operazioni, insieme sempre più fitto’, spiega un esperto”. Solo questo? Sì, se si riesce a sconfiggere i talebani con un’operazione politica dall’interno; no, se il regime resiste e si deve allora passare a un’operazione più “muscolosa” - per la quale occorrerebbero delle basi di supporto logistico molto più estese.
Una guerra a “punture di spillo”? La similitudine non è nostra, ma dell’amm. Michael Boyce, il più alto in grado nelle forze militari britanniche. “L’ammiraglio ha detto che i commandos possono essere impiegati in modi diversi, a seconda dei dati dell’intelligence, delle condizioni atmosferiche e dei rischi a terra. Ma è possibile che le forze speciali operino per più giorni alla volta, anche per settimane, per cercare bin Laden e i capi talebani”[30]. Prospettiva del tutto logica, ma si tratta di vedere se riesce e in che cosa poi sbocca. È qua che torna l’interrogativo sul tipo di guerra che gli Stati Uniti intendono seguire. “Mentre le bombe e i missili americani piovono sull’Afghanistan per la terza settimana - scriveva l’Economist[31] a fine ottobre - a Washington, Londra e in altre capitali amiche, stanno venendo a galla due diverse visioni della guerra - o almeno due diverse presentazioni degli stessi fatti. I leaders politici, i diplomatici e coloro che sono più attenti alle reazioni di alleati tentennanti, sperano che la guerra aerea sia limitata, chirurgica e rapida e che gli sforzi militari lascino presto il posto a un altro compito: formare un nuovo regime in Afghanistan, largamente appoggiato nel paese e generosamente assistito dall’esterno. Invece, dei capi militari come il generale americano Richard Myers, presidente dei capi di Stato maggiore, nonché i politici più vicini ai militari, hanno avvertito che la campagna potrebbe essere lunga, complessa e confusa”. Anche Donald Rumsfeld ha detto - sempre a fine ottobre - che “i talebani sono un nemico molto più coriaceo di quanto il loro armamento rudimentale e la loro mancanza di disciplina facessero supporre. Sono ‘della gente molto dura, gente che ha fatto carriera in combattimento e che non cederà. La cattura di Osama bin Laden è difficile da realizzare e semplicemente non so se ci riusciremo’”[32].
La situazione veniva ben riassunta da due fonti diverse. La prima, Le Figaro[33], notava che l’uccisione di Abdul Haq, figura di rilievo della resistenza antisovietica e probabilmente inviato di Zahir Shah per ottenere delle adesioni tra i pashtun, confermava “l’impotenza del Pentagono a controllare ciò che realmente succede sul terreno, dopo venti giorni di offensiva. Essa sottolinea anche, crudelmente, che Washington non ha fatto molti passi avanti verso i due obiettivi di guerra indicati nel pomeriggio del 7 ottobre. Neutralizzare il cervello terrorista Osama bin Laden e destabilizzare il regime di Kabul si dimostra essere uno scopo molto più complicato, che richiede lungo tempo. (...) Il Pentagono afferma di aver distrutto i campi di addestramento di al-Qaida, come pure l’aviazione, le difese antiaeree e gli accantonamenti talebani. I bombardamenti hanno poi colpito delle concentrazioni di truppe e di materiale, dei depositi di munizioni e di carburante e, più recentemente, delle postazioni trincerate davanti ai ribelli dell’Alleanza del Nord. (Ma) dieci giorni fa un responsabile del Pentagono affermava che il regime di Kabul era ‘sbudellato’ dalle bombe. Giovedì, invece, uno degli strateghi americani, il contrammiraglio John Stufflebeem, si stupiva della resistenza ‘testarda’ dei talebani”.
La seconda fonte, il settimanale  Time[34] dice praticamente le stesse cose. La morte di Abdul Haq “è stata un’umiliante conclusione di una settimana umiliante. Sin dall’inizio della campagna, gli uomini del presidente hanno avvertito gli americani che questo ‘nuovo’ tipo di conflitto avrebbe potuto essere lungo quanto la guerra fredda. Eppure, per un po’ è sembrato che la guerra seguisse un copione più breve - delle bombe di precisione per preparare il terreno a una rapida operazione terrestre. Dopo meno di due settimane, il Pentagono sosteneva che le bombe avevano ‘sbudellato’ la capacità militare dei talebani. Ma la settimana scorsa questo ottimismo si è spento. Il sogno di una guerra a botta-e-scappa ha lasciato il posto alla realtà di una lunga lotta crepuscolare che sembra ormai certo si protrarrà all’inverno afghano. Dopo più di 3.000 bombe, i talebani restano vigorosi; le loro truppe hanno battuto un’offensiva dell’Alleanza del Nord verso Mazar-i-Sharif; le morti di civili aumentano; e molti partners della coalizione - a cominciare dal Pakistan - sono diventati impazienti. (...) I responsabili del Pentagono hanno detto che le operazioni di terra, mirate a schiacciare i talebani e al.Qaida, possono anche non cominciare prima dell’inizio dell’anno prossimo. ‘Non fissiamo delle date’, ha detto Rumsfeld giorni fa. Con una notevole franchezza, il contrammiraglio John Stufflebeem ha detto. ‘Sono piuttosto sorpreso della tenacia con cui i talebani si attaccano al potere. Decisamente, dobbiamo avere pazienza. Sarà una lunga, lunga campagna’”.
A fine ottobre, si possono citare due articoli che tirano le somme a quella data. Il primo è dell'Herald Tribune[35] e osservava che prima della morte di Abdul Hak - che ha inferto un duro colpo ai progetti di destabilizzazione del regime talebano  - aveva di fatto imposto una revisione della tattica militare. “Pri­ma, per motivi politici, gli Stati Uniti erano riluttanti a cooperare con l’Alleanza del Nord che non non gode di appoggi tra i pashtun. (Adesso) decidendo di unirsi alla Russia nel rifornire l’Alleanza di armi e munizioni, Washington sembra aver accantonato i suoi piani precedenti di tener in sospeso questa cooperazione in attesa di ottenere appoggi tra i pashtun. Sino a ora, ‘la pista militare aveva dovuto attendere dei progressi lungo la pista politica’, dice un aiutante di Bush. ‘Adesso abbiamo dovuto mollare l’idea, anzi l’illusione, di poter microgestire il futuro politico’ dell’Afghanistan postbellico”. Il secondo è un editoriale del New York Times[36], secondo cui “la mancanza di vittorie facili (nelle settimane passate, nota nostra) non dovrebbe sorprendere. In guerra degli attacchi aerei sono raramente decisivi. Quando si è fatto ricorso a bombe e missili, come in Jugoslavia, ci sono voluti diversi mesi di bombardamenti. Per sloggiare i talebani e smantellare la rete bin Laden in Afghanistan occorrerà uno sforzo sostenuto e delle vaste operazioni terrestri. Com’era prevedibile, la pazienza di alcuni partners della coalizione sta già calando (e malgrado ciò) la guerra aerea e terrestre dovrà continuare per mesi. (...) I talebani non sono invincibili, ma hanno dimostrato di essere tenaci e pieni di risorse. (Quanto alla rete di bin Laden) sarà ancor più difficile sconfiggerla dall’aria. A meno di una bomba o di un missili fortunati, per stanare i capi di al-Qaida dalle loro grotte ci vorrà tempo, delle infiltrazioni o dei commandos. E il clima invernale non faciliterà le cose. Gli americani devo prepararsi a un lungo conflitto militare contro il terrorismo e i suoi protettori talebani. Non bisogna attendersi alcuna vittoria rapida”.
Ciò che dà significato a questi commenti è che essi vengono come una scoperta, anziché come una previsione - e questo non soltanto per l’opinione pubblica ma anche, a quanto pare, per i comandi. Se la guerra in Afghanistan voleva essere il primo passo di quella, molto lunga, contro la rete terroristica, quel passo rischia di diventare una marcia.

[1] Declaration of war, "Time", 24 settembre 2001.
[2] John Vinocur, The new world order is a clash of civilisations, "International Herald Tribune", 13 settembre 2001.
[3] The march to the brink of battle, "The Observer", 23 settembre 2001.
[4] Michael Hirsh, How to strike back, "Newsweek", 24 settembre 2001. Anche le opzioni indicate più sopra vengono da questa fonte.
[5] Alice Sedar, Schlesinger: Je redoute des réactions en chaîne, "Le Figaro", 17 settembre 2001.
[6] Jean-Jacques Mérel, Il faut liquider le régime de Saddam Hussein, "Le Figaro", 1 ottobre 2001.
[7] Alexander Nicol, Unconventional warfare, "Financial Times", 19 settembre 2001.
[8] "The Observer", 30 settembre 2001.
[9] Claire Tréan, Les Américains ne cherchent pas à monter une coalition militaire stricto sensu, "Le Monde", 22 settembre 2001.
[10] Ed Vulliamy, Hawks and doves fight for control of campaign, "The Observer", 30 settembre 2001.
[11] Françoise Chipaux, Des aéroports aux maisons des combattants étrangers, l’Afghanistan offre une nuée de cibles, "Le Monde", 25 settembre 2001.
[12] U.S. troops sent to Uzbekistan, "International Herald Tribune", 6 ottobre 2001.
[13] Patrick Jarreau, Les dirigeants américains préparent leur opinion à une guerre longue, "Le Monde", 9 ottobre 2001.
[14] Arnaud de La Grande, Les Etats-Unis n’ont besoin de personne, "Le Figaro", 10 ottobre 2001.
[15] Afsané Bassir Pour, Au Conseil de sécurité, les Etats-Unis menacent ‘d’autres actions concernant d’au­tres Etats’, "Le Monde", 10 ottobre 2001.
[16] Danie Williams, Islamic conference accepts attacks on Taleban, "International Herald Tribune", 11 ottobre 2001.
[17] Karen De Young, U.S. strive to shore up coalition, "Internaitonal Herald Tribune", 11 ottobre 2001.
[18] Arnaud de La Grance, Questions après la frappe, "Le Figaro," 9 ottobre 2001.
[19] Alexander Nicoll, US unlikely to engage in long ground campaign, "Financial Times", 11 ottobre 2001.
[20] Jean-Jacques Mével, Washington prépare la phase 2 de la risposte, "Le Figaro", 11 ottobre 2001.
[21] Joseph Fitchett, Future shock: the war’s next phase and political combat, "International Herald Tribune", 10 ottobre 2001.
[22] John F. Burns, Afghan politics ensnare America’s military goals, "International Herald Tribune", 13 ottobre 2001.
[23] Joseph Fitchett, By limiting targets, U.S. may have foiled a bin Laden plot, "International Herald Tribune", 13 ottobre 2001.
[24] Elaine Sciolino, Team of defense expert maps ouster of Saddam, "International Herald Tribune", 13 ottobre 2001.
[25] Raymond Bonner, No evidence indicates Saddam link, "International Herald Tribune", 12 ottobre 2001.
[26] So far, so fairly good, "Economist," 13 ottobre 2001.
[27] The next phase, "Economist", 13 ottobre 2001.
[28] "Le Monde", 19 ottobre 2001.
[29] Arnaud de La Grange, La guerre entre dans sa phase terrestre, "Le Figaro", 21 ottobre 2001.
[30] Michael R. Gordon, Quick pinprick’ not enough?, "International Herald Tribune", 25 ottobre 2001.
[31] A uzzling kind of war, "Economist" 27 ottobre 2001.
[32] Jacques Isnard, Washington reconnaît que la résistance des talibans est plus forte que prévu, "Le Monde", 27 ottobre 2001.
[33] Jean-Jacques Mévelm, Le doute gagne les stratèges du Pentagone, "Le Figaro", 27 ottobre 2001.
[34] Romesh Ratnesar, The new rules of engagement, "Time", 5 novembre 2001.
[35] Joseph Fitchett, Major drive seen for Afghan cities, "International Herald Tribune", 31 ottobre 2001.
[36] No early victory, ripreso dall’"International Herald Tribune", 30 ottobre 2001.