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Internazionali
Bollettino
bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi
Numero
speciale "11 settembre"
Guerra
- L’inizio
- Due informazioni danno chiaramente il senso delle tendenze e dello
stato d’animo all’indomani degli attacchi terroristici. Il settimanale Time riportava i risultati
di un sondaggio condotto all’indomani degli attacchi - e pur non potendone
certificare l’esattezza, le risposte erano molto significative. Il 78% dei
soldati riteneva che all’origine stesse bin Laden; il 78% riteneva
“molto probabile” o “abbastanza probabile” che dietro ci stesse
Saddam Hussein. Il 62% riteneva che gli Stati Uniti dovessero dichiarare
guerra, anche se il 61% non sapeva indicare contro chi; il 65% riteneva
probabile che un attacco contro bin Laden avrebbe portato ad allargare il
conflitto ad altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia; l’85% era per
degli attacchi aerei contro obiettivi militari isolati, l’81% era per
l’assassinio di dirigenti responsabili degli attacchi terroristici, il 55%
era per un’invasione da terra e il 48% era per bombardamenti massicci
“che possono uccidere anche dei civili”.
- Questa reazione psicologica comprensibile, era corroborata da un
articolo sul serissimo e solitamente equilibrato Herald Tribune.
“Il conflitto tra civiltà che sembra aver portato al mostruoso attacco
terroristico negli Stati Uniti non lascia alcun angolo neutrale in cui
possano rifugiarsi dei paesi o degli individui per evitare delle nuove
scelte in quello che improvvisamente è un mondo diverso. L’attacco
terroristico, come atto di guerra contro l’America sul suo stesso suolo,
esige una risposta impegnata della comunità mondiale, ma modifica il modo
in cui gli americani possono considerare questioni come il conflitto israelo
palestinese, la difesa missilistica, la globalizzazione e lo stesso
terrorismo”. Dunque
“conflitto di civiltà”, quindi anche rafforzamento della linea Sharon,
accantonamento delle esitazioni del Congresso circa lo scudo missilistico -
per non parlare del fatto che “la demonizzazione degli Stati Uniti e delle
organizzazioni mondiali per il commercio, in un contesto di violenza, ha di
colpo assunto i contorni di un’iniziativa possibilmente sanguinaria”.
- Questo contesto di tensione si rifletté anche nella riunione che
Bush tenne a Camp David subito dopo gli attacchi. Riferisce il The Observer che là si scontrarono
Wolfowitz e Powell, che non si erano mai amati. “Wolfowitz disse che era a
favore di attacchi militari immediati e ad ampio raggio contro obiettivi
terroristici in Medio Oriente e in Asia.È il momento, egli disse, di
attaccare non soltanto il terrorismo ma anche i regimi che lo alimentano, le
sue radici, i suoi campi di addestramento, le sue cellule e le sue basi
operative. Wolfowitz disse che gli Stati Uniti dovevano attaccare la valle
della Beqaa, dalla quale i militanti del ‘partito di Dio’ Hizbollah
attaccano la parte settentrionale di Israele. Egli suggerì anche di punire
l’Iraq, dicendo che nessuna campagna anti terroristica poteva dirsi seria
sinché Saddam Hussein rimanesse al potere”. La risposta di Powell: “In
questo modo si affossano le alleanze”. Obiezione di Bush a Powell: “Gli
Stati Uniti hanno il diritto di difendersi”.
- Sul piano strettamente militare le possibili opzioni che si
presentavano in quel momento erano: a) un attacco con missili cruise, allo
stesso modo in cui aveva reagito Clinton dopo gli attacchi terroristici alle
ambasciate americane nel 1998 - ma questa reazione vistosa e senza perdite
americane non avrebbe dato risultati reali; b) attacchi aerei estesi, con
apparecchi in partenza da un’ampia rete di portaerei e basi terrestri - ma
questo attacco, mirato a neutralizzare lo scarso armamento antiaereo
talebano, di per sé non poteva colpire la rete terroristica, che non
dispone di installazioni militari consistenti; c) invasione da terra con
supporto aereo - con un esteso impianto logistico e avendo prima stabilito
degli obiettivi specifici per non cadere in un’occupazione estesa
simile a quella sovietica; d) operazioni con forze speciali, dirette a
catturare bin Laden, senza farsi coinvolgere in una guerriglia diffusa.
- La prima opzione venne subito scartata; le altre due richiedevano
delle forze speciali e tutto un complesso piano d’impiego; occorrevano
quindi delle basi sicure; e fu chiaro che senza l’appoggio o perlomeno la
neutralità di tutta una serie di stati musulmani si rischiava la catastrofe
politica e militare. Di lì partì tutto il lavoro diplomatico teso a
garantire essenzialmente due cose: stabilità e cooperazione col mondo
musulmano e una rete di basi aeree e terrestri attorno a un solo obiettivo,
l’Afghanistan: perciò anche Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan - quindi
un accordo persino con la Russia. Anche perché diveniva sempre più
evidente che non ci si poteva appoggiare sul solo Pakistan. C’era poi un
altro fatto fondamentale. Se la lotta è contro tutta la rete internazionale
del terrorismo, bisogna tener conto che “secondo dirigenti dell’intelligence americana bin Laden ha
degli operatori in più di 50 paesi”
- ed è stato spesso ripetuto che alcuni di questi “operatori” possono
sostituirlo qualora egli fosse catturato o ucciso. Quindi l’azione
militare deve rientrare in una lotta molto più ampia. Il 15 settembre, Bush
parlò alla televisione caratterizzando chiaramente la situazione: “Questo
conflitto è di natura diversa, contro un nemico che è anch’esso di
natura diversa. È un conflitto senza campi di battaglia e senza posti
avanzati, un conflitto con nemici che si credono invisibili. (...) Non
vinceremo il terrorismo con una sola battaglia ma con una serie di azioni
contro le organizzazioni terroristiche e coloro che le ospitano e le
proteggono. Noi progettiamo una campagna massiccia e duratura per porre il
nostro paese al riparo e sradicare il demone del terrorismo e siamo decisi a
condurre il combattimento sino alla fine”. Abbiamo già citato questo
discorso; qua dovrebbe essere più chiaro il suo significato.
- L’interrogativo decisivo era: portare l’azione contro il solo
Afghanistan, come perno evidente della rete terroristica, o estenderla ad
altri paesi? Non era infatti ancora esclusa una qualche azione contro paesi
giudicati sostenitori del terrorismo - come l’Iraq, l’Iran, lo Yemen, il
Sudan, persino il Pakistan. In parole povere: soltanto l’Afghanistan, o
anche l’Iraq? Un’intervista con James R. Schlesinger, ex direttore della
Cia e segretario alla Difesa dal 1973 al 1975, con Nixon e Ford, aiuta a
capire il dilemma. “Resta da vedere se Bush saprà
mostrarsi ragionevole e saprà valutare le conseguenze che le nostre azioni
potrebbero avere nel mondo arabo. Perché se attacchiamo l’Iraq o la
Siria, come alcuni suggeriscono a Washington, temo che si provochino delle
reazioni a catena (e) oggi la politica estera americana rischia grosso di
alimentare la collera nel mondo arabo (e) la collera nel mondo arabo contro
gli Stati Uniti è reale, perché essi hanno sostenuto Israele in modo
incondizionato, specialmente equipaggiandolo militarmente”. Ma gli
rispondeva James Woolsey, anch’egli ex direttore della Cia: “Il problema
degli Stati Uniti non è di aver ignorato la rete di Osama bin Laden, ma di
aver respinto l’idea che delle azioni terroristiche sofisticate possano
essere originate da Stati e dai loro servizi segreti. Io credo che l’Iraq
sia il candidato più evidente e credo anche che l’attacco dell’11
settembre lo confermi in modo indiretto. (...) Bisognerebbe liquidare il
regime di Saddam Hussein con tutti i mezzi necessari. Noi sappiamo che
l’Iraq lavora alla produzione di armi biologiche, chimiche e nucleari.
Sappiamo che fabbrica dei missili. Sono anche convinto che Saddam Hussein
sia implicato in numerosi operazioni terroristiche”..
-
- Insomma, in guerra l’azione militare si è sempre accoppiata
all’azione politico diplomatica, ma in questo caso si direbbe che da un
lato l’azione diplomatica decide i termini e anche i limiti dell’azione
militare e, dall’altro, che l’azione militare stessa è davanti a
condizioni e quesiti che esorbitano dalla sua tradizione; in questo sta
probabilmente uno degli impulsi a porre tutto sul piano militare e darci
dentro. In altre parole: non è la prima volta che gli Stati Uniti si
trovano ad affrontare un avversario che non risponde a caratteristiche
militare tradizionali - basterebbe ricordare il Vietnam, dove gli Stati
Uniti non hanno perso una sola battaglia, ma non hanno potuto vincere la
guerra; ma oggi sono la natura e la dimensione davvero globale
dell’avversario a sollevare interrogativi circa l’efficacia degli
strumenti militari convenzionali. Bush, osservava un commento del Financial Times,
“deve ordinare una risposta militare decisiva. Ma gli esperti vedono
soltanto dei modi limitati in cui delle forze armate possono essere
impiegate contro i terroristi - gruppi e individui ampiamente dispersi”.
Infatti, l’azione militare non è essenzialmente contro un paese, ma
contro una rete terroristica, e almeno all’inizio l’attacco
all’Afghanistan era mirato soltanto a ciò che si giudica come il perno
della rete, quindi non contro un paese come tale - e nemmeno contro tutta la
rete terroristica. Perciò “non è una guerra in stretto senso militare.
Non c’è una linea di fronte, non c’è territorio da occupare, non si può
combattere soltanto con armi moderne tirate da lontano”. E, come ha detto
lo stesso Bush, la guerra non può risolversi con “una sola battaglia”.
Giudicavano gli esperti che l’azione in Afghanistan “può includere dei
bombardamenti, degli attacchi con missili cruise, e l’impiego di truppe
speciali per distruggere i campi di addestramento e i nascondigli dei
terroristi. Ciò che va evitato, diceva sempre questo commento, è di
“ripetere l’errore dell’ Unione sovietica e tentare di combattere una
guerra convenzionale contro un nemico non convenzionale”. Né si poteva
“bombardarlo sino a farlo regredire all’età della pietra, perché già
non è lontano dall’età della pietra”.
- Sulla carta, lo spiegamento di forze angloamericane era - ed è -
impressionante. Secondo dati pubblicati dall’Observer
sono disponibili queste basi: Stati Uniti, base di Whiteman, con aerei
B-2 (Stealth) capaci di volare senza scalo sino all’Afghanistan, con
162.000 bombe di precisione e 5.000 bombe antirifugio; Turchia, base di
Incirlik, con caccia-bombardieri e aerei Awacs; Cipro, con oltre 3.000
uomini; Arabia saudita, la base di King Khalid e la base di di Prince Sultan,
con flotte aeree e personale di terra americano e britannico; Kuwait, la
base di Al Salem, inglese e la base di Al Jaber, americana, entrambe con
flotte aeree; Oman, forze britanniche per 20.000 uomini una trentina di
aerei, elicotteri, Awacs aerei
da trasporto; Qatar, la base di Doha come deposito di materiale americano;
Bahrain, come base aerea britannica; l’isola di Diego Garcia, britannica,
nell’oceano Indiano, come base aerea per dei B-52. A queste forze aeree
bisogna aggiungere quelle navali e cioè: la portaerei americana Carl Vinson,
posizionata nel Golfo Persico con 75 aerei, una flotta di 12 navi e 6.000
uomini; nel mare Rosso la portaerei americana Entreprise con 50 aerei, una
flotta di 24 fregate e sottomarini, e la portaerei Theodore Roosevelt con 80
aerei, una flotta di 14 navi, 15.000 uomini tra cui 2.000 marines; la portaerei britannica Ocean, con una flotta di 17 navi e
23.000 uomini; nell’oceano Indiano sta la portaerei Kitty Hawk, con 75
aerei, una flotta di una quindicina di navi e un 20.000 uomini. Altre basi
sono disponibili in Uzbekistan e Tagikistan.
- Contro queste forze, l’Afghanistan può schierare 50.000 uomini
con armi portatili, 650 carri armati di origine sovietica e altri veicoli
militari, dei cannoni da 76 mm, 107 mm, dei lanciarazzi da 122 mm e dei
mortai da 80 e 120 mm; un centinaio di cannoni antiaerei e una ventina di
mitragliere antiaeree; 10 cacciabombardieri e 21 caccia anch’essi di
origine sovietica. Davanti ai talebani, sul terreno, sta l’Alleanza del
nord con un massimo di 15.000 uomini, una sessantina di carri armati
sovietici, un numero imprecisato di cannoni, praticamente nessuna difesa
antiaerea, 8 elicotteri da trasporto e una trentina di missili. Cioè
praticamente niente.
- Il problema era come passare da questa vasta disponibilità
tattica, che permetteva di colpire altri stati oltre all’Afghanistan, a
una linea strategica - e questo problema si articolava in due punti
essenziali: come procedere in Afghanistan; limitarsi all’Afghanistan o
attaccare anche altri Stati. Di ritorno da Washington, il ministro degli
Esteri francese Hubert Védrine diceva in un’intervista a Le Monde
che non si potevano escludere degli attacchi ad altri Stati, oltre che
all’Afghanistan, ma che “oggi non ci sono indicazioni in questo
senso”. E, suggerendo una posizione non soltanto francese, aggiungeva che
“il solo fatto che un’organizzazione terroristica transnazionale abbia
raggiunto questo terrificante livello di efficienza non permette di
concludere che le stia dietro uno stato. È importante che gli americani
diano al mondo il massimo di indicazioni e di precisioni” su questo punto.
- A fine settembre, l’Observer
scriveva che stando alle sue informazioni il segretario alla Difesa
Rumsfeld sarebbe tornato alla carica presentando a Bush “due proposte dettagliate
di guerra senza limiti (che) sono state accantonate temporaneamente ma
restano in sospeso. (Esse) propongono una guerra senza limiti di tempo o di
geografia e potenzialmente estesa a tutto il Medio oriente e all’Asia
centrale. (...) I piani proposti al presidente nei giorni scorsi prevedono
di espandere la guerra aldilà dell’Afghanistan per includere delle
analoghe incursioni di forze speciali, seguite da attacchi aerei, in Iraq,
Siria, valle della Beqaa in Libano”. La risposta di Colin Powell,
sostenuto a quanto pare da Condoleeza Rice, è stata che “una campagna di
questo genere sarebbe disastrosa, perché isolerebbe gli Stati Uniti e
spezzerebbe la coalizione che essi hanno attentamente costruito” - e pare
che anche i pezzi grossi militari del Pentagono fossero ostili alle proposte
di Rumsfeld, osservando che “i GI americani non sono delle pedine su un
qualche scacchiere globale”. Ci si può interrogare sulla logica di queste
proposte ma, scartando il puro riflesso psicologico, si direbbe che esse
esprimevano la tentazione di accantonare le difficoltà della azione
politica, per permettere agli Stati Uniti di decidere da soli.
- In altre parole, verso la fine di settembre esisteva un potente
dispositivo aeronavale, con forze da sbarco notevoli ma di cui non si poteva
valutare la capacità di impiego specifico; questo dispositivo era
chiaramente mirato all’Afghanistan, ma non aveva ancora una strategia
dichiarata - nel senso del tipo di attacco all’Afghanistan e in quello di
estensione dell’attacco. Inoltre, non era (e non è) ancora chiaro il
rapporto tra l’azione militare e l’azione antiterroristica a lungo
termine; perciò non era definito nemmeno il ruolo dei singoli paesi
alleati, amici o disposti a cooperare - se come basi per un’azione
militare che gli Stati Uniti riservano a se stessi, o se come membri di una
coalizione mirata alla lotta alla rete terroristica internazionale. Diceva
Hubert Védrine in risposta a una domanda che riguardava il rapporto con gli
alleati in fatto di definizione degli obiettivi militari e del metodo di
campagna: “Sul piano militare propriamente detto non ho l’impressione
che siamo a questo punto (di associare gli alleati alle decisioni, nota
nostra). In compenso, sono stato sorpreso dal fatto che George Bush e
Colin Powell non parlassero affatto, o non parlassero più, in modo
unilateralista; parlavano di coalizione, di scambio di informazioni, di
discussione con i soci occidentali, con la Russia, la Cina, l’India, la
maggior parte dei governi arabi. È un approccio multilaterale alla linea
da seguire a lungo termine per lottare contro il terrorismo e sradicarlo”.
L’osservazione è interessante - e riflette una realtà; ma non è ancora
chiaro quale sia la distinzione tra discorso “unilateralista” e discorso
“multilaterale”.
-
- La guerra “in” Afghanistan - che pretendeva di non essere
“contro” l’Afghanistan - è quindi iniziata lasciando senza risposta,
perlomeno non apparente, i due interrogativi iniziali: con quale tattica
condurla? e si allargherà ad altri paesi? Questa seconda domanda dipende
anch’essa da due fattori potenziali: le decisioni che possono essere prese
a Washington, le reazioni nei paesi musulmani - le cui dirigenze non
sembrano disposte ad andare oltre una protesta, ma che potrebbero essere
sommerse dal movimento popolare. Quanto agli obiettivi da colpire in
Afghanistan le informazioni erano perlomeno scarse. Le Monde
scriveva a fine settembre che “i talebani controllano gli aeroporti di
Kabul, militare e civile, di Kandahar, Jalalabad, Herat, Mazar-e-charife
Shindad”, tutti obiettivi evidenti; pare che i talebani avessero anche dei
missili scud con una portata di 300 km., altro obiettivo prioritario;
poi c’era una fila di obiettivi come le caserme, i carri armati, i camion
lanciarazzi, le antenne di telecomunicazione e le sedi dei servizi segreti,
due centrali elettriche. Obiettivi di questo genere possono essere
facilmente individuati e distrutti, ma il loro valore militare è perlomeno
limitato - ed è tutta roba da “danni collaterali”.
- Restava, ovviamente, bin Laden, l’obiettivo principale. Scriveva
sempre Le Monde che “secondo il
generale Ruslan Aushev, veterano dell’invasione sovietica 1979-1989, per
trovare Osama bin Laden gli Stati Uniti dovranno passare a pettine fine
520.000 km quadrati di territorio” - e il quotidiano aggiungeva: “Gli
esperti sicuramente conoscono i luoghi più utilizzati da bin Laden e dai
suoi fedeli, ma non è facile raggiungerne alcuni con dei mezzi classici. La
provincia orientale di Kunar, ad esempio, nasconde nella montagna una rete
di caverne collegate le une alle altre, alle quali si arriva dopo diverse
ore di marcia. Questa rete sarebbe attrezzata con un sistema di
comunicazioni molto moderno”. I campi di addestramento dovrebbero invece
essere più facilmente raggiungibili. Si sa che ne esistono tre nella sola
provincia di Nangahar.
- Pare insomma che la tattica della campagna “libertà duratura”
consistesse di bombardamenti per colpire gli obiettivi fissi e poi di forze
speciali per individuare e distruggere gli obiettivi nascosti - e ovviamente
catturare bin Laden e i suoi. Questa seconda parte dell’azione, che resta
ancor oggi segreta, deve fondarsi su due elementi indispensabili: anzitutto
l’intelligence per individuare
in anticipo i punti da colpire; in secondo luogo il sostegno di forze di
terra che permetta di stabilire dei punti di sostegno abbastanza vicini per
i gruppi di forze speciali impegnati in azione. All’inizio parve probabile
che le forze dell’Alleanza del nord venissero usate in questo senso, con
una loro avanzata verso Kabul. Meno chiaro, invece, era la funzione delle
basi in Uzbekistan, dove gli Stati Uniti hanno installato un migliaio di
uomini della Decima divisione di montagna: base di partenza per degli
attacchi, oppure semplice base di appoggio logistico, come suggeriva il
presidente uzbeko Islam Karimov, dicendo a una conferenza stampa tenuta
insieme a Donald Rumsfeld, che “la base aerea concessa può essere
utilizzata dagli Stati Uniti per aerei da trasporto, elicotteri e truppe. Ma
gli Stati Uniti non possono usarla per lanciare attacchi aerei e da terra
partendo dall’Uzbekistan”.
-
- L’attacco
- La storia della guerra è ancora tutta da fare e gli attacchi aerei
iniziati il 7 ottobre sono soltanto il suo inizio; possiamo però parlarne
proprio per questo. Anzitutto, l’attacco è stato sferrato con dei
bombardieri B-2 (Stealth) e B-52, da 25 cacciabombardieri e da una
cinquantina di missili Tomahawk lanciati da sottomarini americani e
britannici. A botta calda, le previsioni erano che gli attacchi aerei
sarebbero durati soltanto alcuni giorni, data la scarsità degli obiettivi
da colpire; nel suo discorso alla nazione, Bush aveva parlato di due fasi:
la prima mirata a distruggere le installazioni e le comunicazioni della rete
al-Qaida - e beninteso quelle afghane; la seconda mirata a individuare i
terroristi e “consegnarli alla giustizia” - quindi un’azione su terra,
probabilmente prolungata.
- Tre aspetti sembrano caratterizzare questa prima fase. Commentava Le Monde
che “le risorse
mobilitate dall’11 settembre sono certo importanti; ma per dei motivi che
riguardano in parte la cattiva volontà di alcuni alleati che rifiutano
l’impiego delle loro basi, e che riguardano anche le particolarità
dell’avversario e dell’Afghanistan, il vantaggio numerico e materiale
non è, questa volta, decisivo. La vittoria dipenderà anche dalle scelte
tattiche, dall’abilità delle forze impiegate a terra e dalla gestione
politica della crisi”. Poi Le Figaro osservava che, pur essendo
la sola forza alleata intervenuta con gli americani, “la partecipazione
britannica è delle più simboliche. ‘Gli americani fanno il 98% del
lavoro, gli inglesi appena il 2%’, commenta un esperto militare
francese”. I motivi stanno nel divario di sviluppo tecnologico tra le
forze americane e quelle dei paesi della Nato e sta anche, pare, nel fatto
che “Bush non ha alcuna voglia di contornarsi di alleati che chiedono voce
in capitolo sugli obiettivi militari”, come avvenne durante la guerra in
Kosovo. Infine, sempre Le Figaro precisava
che i cacciabombardieri erano tutti partiti da portaerei, i B-2 erano
partiti dalla base in Missouri e i B-52 dalla base di Diego Garcia; solo gli
aerei da rifornimento avevano fatto scalo a Oman, la sola base aerea
utilizzata in un paese del Medio Oriente.
- Quanto alla guerra in sé, a una riunione straordinaria del
Consiglio di sicurezza, il 7 ottobre, tramite il loro ambasciatore
Negroponte gli Stati Uniti hanno spiegato la loro posizione sottolineando
specialmente due punti: la durata della campagna, che veniva prospettata su
diverse settimane; il diritto di condurre “altre azioni militari contro
altre organizzazioni e altri Stati”, diritto che gli Stati Uniti riservano
a se stessi e potrebbero esercitare in base ai risultati di un’indagine
sulla rete terroristica che era soltanto agli inizi. Il Consiglio di
sicurezza espresse all’unanimità il suo appoggio “senza riserve”
all’azione degli Stati Uniti, i quali esercitano così “il loro diritto
di difesa individuale e collettiva” conformemente all’art. 51 della
Carta dell’Onu. Nessuno dei membri del Consiglio ha sollevato obiezioni,
nemmeno sul secondo punto della posizione americana. Un silenzio che Kofi
Annan avrebbe indirettamente paragonato al “silenzio assordante” dei
paesi arabi davanti alle minacce di guerra santa profferite da bin Laden.
- Quel silenzio è importante, ma non conclusivo. Più tardi si è
tenuta a Doha una sessione plenaria dell’Organizzazione della conferenza
islamica (Oci), che raggruppa 22 paesi arabi e 35 paesi musulmani non arabi
ed è stata diramata una dichiarazione che non critica l’intervento
americano in Afghanistan, ma avverte gli Stati Uniti di non estendere
l’azione militare ad altri paesi arabi o musulmani, “col pretesto di
combattere il terrorismo”; questa lotta deve invece essere condotta sotto
l’egida dell’Onu “ed essere definita chiaramente in modo da escludere
i combattenti palestinesi e libanesi” e anzi tener conto del “terrorismo
di stato praticato dal governo israeliano”.
Senza clamori, ma la diversità, per non dire contrasto, tra le due
posizioni è evidente. Appariva subito chiaro che la “coalizione” di
oggi non è l’alleanza al tempo della guerra nel Golfo; anzi, osserva lo Herald Tribune, “la gestione della
coalizione antiterrorista, attentamente formata dall’amministrazione Bush,
sta diventando sempre più complicata e delicata. Le espressioni pubbliche
di solidarietà internazionale arrivarono facilmente subito dopo gli
attacchi terroristici dell’11 settembre, ma benché non fosse affatto un
segreto che l’amministrazione intendeva rispondere, la reazione davanti
alla campagna di bombardamenti è andata dal silenzio ufficiale alla
protesta pubblica in una fila di paesi, specialmente nel mondo islamico”;
e, cominciando da Mubarak, diversi dirigenti politici musulmani hanno in
sostanza chiesto che gli Stati Uniti bilancino l’azione con una politica
di soluzione della questione palestinese. “Stiamo tutti camminando sulle
uova. Sinora, con il loro enorme potere, gli americani sono stati saggi e
hanno fatto un buon lavoro. Ma sentono i sassi sotto i piedi”. E non c’è bisogno di sottolineare
che la tenuta della coalizione non può che incidere sulle mosse militari -
e viceversa.
-
- Sull’attacco, Le Figaro
si faceva delle domande che meritano di essere riprese. Qual è l’efficacia
degli attacchi aerei? Col primo attacco sarebbero stati colpiti una
trentina di obiettivi militari, “cioè pressappoco“il numero di obiettivi
strategici degni di questo nome identificati dagli esperti militari americani
in tutto l’Afghanistan” - mentre in Iraq e in Serbia ne erano stati
indicati un migliaio. Anche se limitati nel numero di aerei impiegati -
perlomeno rispetto alla guerra nel Golfo e in Kosovo - i bombardamenti hanno
rapidamente messo fuori gioco tutta la difesa antiaerea fissa; resta però
l’incognita dei lanciamissili portatili, calcolati sui 2-300 e
specialmente dei Sam7 sovietici e degli Stinger - un 600 pezzi forniti a suo
tempo dalla Cia - armi individuali che “potrebbero porre dei problemi seri
ai caccia e agli elicotteri alleati” nella seconda fase dell’attacco.
- Seconda domanda: che tattica possono adottare i talebani? La
risposta è semplice: la guerriglia - e data la dimensione del paese e il
terreno montagnoso, era sin dall’inizio (e resta) escluso che gli Stati
Uniti procedano con un forte dispiego di forze di terra. Terza domanda:
quale fase due? A questo proposito, il Financial Times
scriveva che gli esperti prevedevano l’impiego di “truppe convenzionali,
altamente addestrate, piuttosto che l’esclusivo ricorso a forze speciali,
che si dice siano già impegnate in compiti particolari all’interno
dell’Afghanistan. Saranno necessarie delle truppe di fanteria di
prim’ordine e fortemente armate, con elicotteri, come la 82a e
la 101a divisione aviotrasportate, la 10a divisione di
montagna, o la 3a brigata di commandos dei marines britannici”. Sinora, stando
a informazioni di Le Figaro,
sarebbero stati dispiegati “da qualche parte in Asia” un reggimento per
operazioni speciali, il V gruppo di forze speciali e degli elementi della
101a divisione aviotrasportata; ma mentre si hanno oggi
informazioni sulle forze speciali, non si sa nulla sulle forze di fanteria e
sul loro eventuale impiego.
- Erano invece (e sono tuttora) evidenti tre condizioni: anzitutto
non impegnarsi “alla sovietica”, quindi affidare a queste truppe dei
compiti specifici e avere la capacità di inserirle e ritirarle rapidamente;
in secondo luogo l’appoggio più o meno esteso delle forze dell’Alleanza
del nord; infine, terminare queste operazioni prima che l’inverno le renda
impossibili. Insomma, l’attacco aereo è la parte “più facile”
dell’azione militare. La “seconda fase”, invece, è ancora oscura sul
piano militare - ed è condizionata da due fattori: la capacità di
concluderla installando a Kabul un nuovo governo stabile; la tenuta della
coalizione. Scriveva Le Figaro già citato: “Sul fronte diplomatico tutta l’abilità
consisterà nel garantire che la guerra dichiarata al terrorismo non si
trasformi in guerra all’Islam, la trappola in cui Osama bin Laden vorrebbe
far cadere George W. Bush. Questo rischio spiega perché la Casa bianca
abbia imposto la sordina a quei consiglieri che vogliono portare l’azione
anche in altri paesi musulmani sospettati di patrocinare il terrorismo, come
l’Iraq, la Siria e perché no? l’Iran”. Il primo fattore incide sulla
tattica immediata in Afghanistan. Il secondo determina la strategia
generale.
-
- E poi?
- A fine ottobre - cioè al
momento in cui chiudiamo la nostra rassegna - il quadro che si presenta può
essere sommariamente descritto in questi termini: continuano i bombardamenti
per indebolire la capacità di difesa delle forze talebane e per distruggere
i campi di addestramento di al-Qaida; si parla di attacco da terra, ma pare
che le forze dell’Alleanza del Nord non siano ancora pronte - e intanto si
avvicina l’inverno, quindi si prospetta un rinvio alla primavera prossima;
il prolungamento del conflitto rischia di incidere sulla stabilità della
coalizione. Quanto alla formazione di un nuovo governo regna la nebbia.
Eppure questo era (e resta) un punto decisivo, sia per lo sviluppo tattico
dell’offensiva, sia per la stabilità dell’Afghanistan dopo la sconfitta
dei talebani. “Gli scopi di guerra, suggeriti dagli Stati Uniti - scriveva
l'Herald Tribune
- includono chiaramente un nuovo governo a Kabul forte abbastanza da
garantire che il territorio afgano non cada di nuovo sotto il controllo di
una rete terrorista internazionale come il gruppo al-Qaida diretto da Osama bin Laden”. Perciò occorre una coalizione
“etnicamente bilanciata” - in un paese in cui i conflitti tribali sono
endemici. Il problema non poteva essere rimandato a un lontano futuro perché
la seconda fase dipende dall’impiego delle forze dell’Alleanza del Nord;
ma è chiaro che l’impiego di forze formate specialmente da etnie uzbeke e
tagike si scontra con l’etnia dominante, i pashtun, e con l’ ostilità
di alcuni paesi, a cominciare dal regime pakistano. E del resto non si può
dire che le forze dell’Alleanza abbiano lasciato nel paese dei buoni
ricordi di quando era al potere.
- C’era, a quanto pare, la speranza che il regime talebano si
disgregasse dal suo interno e, benché le informazioni stampa siano vaghe in
proposito, sembra che ci sia stata (e forse continua) un’attività segreta
per disgregare il concorso di forze etniche e tribali che sorregge il
governo talebano. Non si sa dove abbiano concretamente portato i tentativi
di soluzione politica
imperniati sull’ex re Mohammed Zahir; ma, scriveva l'Herald Tribune
“se questi colloqui tra l’Alleanza del nord e i gruppi politici
sostenuti dal Pakistan dovessero fallire, come tutto sta indicando, gli
Stati Uniti potrebbero trovarsi davanti a una scelta decisiva: rompere col
Pakistan e bombardare le difese talebane di Kabul, oppure continuare i
bombardamenti e lasciare che i talebani restino a Kabul sino a che non
arrivi il pesante inverno afghano”. Per ora tutto questo resta per aria -
perché non ci sono prospettive immediate di governo alternativo, perché la
preparazione delle forze dell’ Alleanza pare richiedere tempi lunghi - e
perché è stato ufficialmente ammesso che i talebani sono un osso più duro
del previsto.
- Sarebbe tutta una questione tattica, se non restasse il rischio di
allargamento del conflitto. Come abbiamo visto, questa possibilità è stata
sinora accantonata. “Limitandosi ad attacchi militari sul solo
Afghanistan, anziché lanciare una campagna contro parecchi paesi - scriveva
l'Herald Tribune - “l’amministrazione
Bush ha evitato di cadere in una trappola strategica evidentemente tesa
dalle mente direttiva della rete terroristica, bin Laden” - e ammettiamo
francamente che temevamo il contrario; ma per quanto accantonato l’allargamento
del conflitto non è affatto escluso. Continua il dissidio all’interno
dell’amministrazione Bush sull’opportunità o meno di procedere in quel
senso - e restano i rischi di sviluppi politici interni a diversi paesi
musulmani che potrebbero trascinare in quella direzione.
- Scriveva l'Herald Tribune
che “un gruppo ben organizzato di dirigenti del Pentagono e di esperti
militari esterni al governo americano stanno cercando di mobilitare
l’opinione a sostegno di un’operazione militare per sbarazzarsi di
Saddam Hussein, come prossima fase della guerra contro il terrorismo” - e
questo stando a informazioni che provenivano da “alti dirigenti
dell’amministrazione Bush e da altri esperti militari”. Lo scontro tra
Powell e Runsfeld, insomma, pare continuare sottobanco. Questo gruppo, di
cui non è chiara la natura, riunito in conferenza per un paio di giorni,
elenca nomi famosi: Henry Kissinger, James Woolsey, James Schlesinger, ex
segretario alla Difesa, l’ammiraglio David Jaremiah, ex vice presidente dei Joint Chiefs of
Staff, oltre a Donald Rumsfeld e Wolfowitz - ma nessuno del Dipartimento di
Stato, che anzi non sarebbe stato “informato sulla conferenza”: “Il gruppo, che alcuni del
Dipartimento di Stato e di Capitol Hill chiamano la ‘cabala Wolfowitz’,
vuole gettare le basi per una strategia che preveda l’impiego della forza
aerea e l’occupazione dell’Iraq meridionale con truppe americane per
mettere il gruppo di opposizione irachena formato a Londra a capo di un
nuovo governo” - nonché mettere le mani sui giacimenti petroliferi, a
scopo umanitario, beninteso.
- La logica di questa strategia non è affatto chiara; tanto più che
la motivazione ufficiale - Saddam sarebbe parte rilevante della rete
terroristica - è stata smentita da fonti autorevoli. Scriveva l'Herald Tribune
che “i servizi segreti di diversi paesi, inclusi alcuni paesi desiderosi
di sbarazzarsi di Saddam, hanno concluso che l’Iraq non è coinvolto negli
attacchi terroristici, né ha fornito rifugio o aiuti ad al-Qaida. ‘Vorrei
aver trovato una connessione, ma non ho potuto’, dice un alto dirigente
giordano. L’intelligence israeliana
ha detto a quella americana che non ha trovato prove di un ruolo iracheno
negli attacchi. (...) Gli Stati Uniti hanno attentamente cercato delle
connessioni irachene con bin Laden sin dalla bomba al World trade center nel
1993, ma dice un ex alto funzionario dell’amministrazione Clinton: ‘Ci
sarebbe piaciuto trovarla, ma anche l’Fbi ha detto chiaramente che la
traccia non porta da quella parte’”. In altre parole, aggiunge il
quotidiano, “pare che bin Laden non abbia bisogno del sostegno di uno
Stato per condurre i suoi attacchi terroristici.
-
- Quali erano, sempre a fine ottobre, i risultati della “prima
fase” e le prospettive per la seconda? Torniamo su questa domanda per
esaminare più da vicino gli elementi di risposta. L’Economist
osservava che il numero di aerei impiegati nei raids non andava oltre alcune decine, contro i 1.000 impiegati
contro la Serbia e i 2.500 utilizzati contro l’Iraq; quanto alle truppe di
terra, si contavano 2.000 uomini in basi dislocate “in Asia centrale”; e
scriveva che “la riluttanza dei principali alleati arabi a fornire
supporto tecnico agli attacchi aerei resta preoccupante”. Le implicazioni
militari e diplomatiche sono evidenti. Ed è evidente anche che l’idea di
concludere rapidamente questa prima fase, per passare alla seconda, si è
rivelata infondata. Sempre l’Economist
riassumeva adeguatamente la situazione dicendo che anziché di “paziente
accumulazione di successi”, come aveva detto Bush all’inizio degli
attacchi aerei, il 7 ottobre, bisognerebbe parlare di “accumulazione di
non insuccessi” - riferendosi anche al fatto che sinora è stata evitata
la destabilizzazione in Pakistan e Arabia saudita, che però potrebbe essere
provocata dal protrarsi dell’ azione militare americana. Le Monde
riferiva un passaggio di un discorso di Bush: “Stiamo preparando il
terreno affinché delle truppe di terra amiche possano stringere lentamente
ma sicuramente la morsa attorno al nemico, per poi consegnarlo alla
giustizia”. Il discorso è del 17 ottobre - ma non sembra che nelle
settimane successive la situazione sia cambiata.
- Lo sottolineava anche Le
Figaro:
“Fase 1 o fase 2? Non si sa molto della guerra che si svolge a porte
chiuse dietro le montagne afghane, e ci si chiede anche se gli americani
abbiano una strategia. E in questo caso, in quale fase delle operazioni
siano collocati ora”. I bombardamenti, osservava il quotidiano, sono
incomparabilmente inferiori ai colpi inferti durante le due guerre
precedenti - e sarebbero mirati specialmente “a disorganizzare e a
favorire le scissioni e le defezioni. Cioè a preparare in qualche modo il
terreno alle forze speciali, questa cavalleria leggera di cui si attende
l’entrata in scena da settimane. Pare che sia cosa fatta. La fase
terrestre sarebbe iniziata questa settimana, a piccoli passi. ‘Essa sarà
sempre un insieme di piccole operazioni, insieme sempre più fitto’,
spiega un esperto”. Solo questo? Sì, se si riesce a sconfiggere i
talebani con un’operazione politica dall’interno; no, se il regime
resiste e si deve allora passare a un’operazione più “muscolosa” -
per la quale occorrerebbero delle basi di supporto logistico molto più
estese.
- Una guerra a “punture di spillo”? La similitudine non è
nostra, ma dell’amm. Michael Boyce, il più alto in grado nelle forze
militari britanniche. “L’ammiraglio ha detto che i commandos possono essere impiegati in
modi diversi, a seconda dei dati dell’intelligence, delle condizioni
atmosferiche e dei rischi a terra. Ma è possibile che le forze speciali
operino per più giorni alla volta, anche per settimane, per cercare bin
Laden e i capi talebani”. Prospettiva del tutto
logica, ma si tratta di vedere se riesce e in che cosa poi sbocca. È qua
che torna l’interrogativo sul tipo di guerra che gli Stati Uniti intendono
seguire. “Mentre le bombe e i missili americani piovono sull’Afghanistan
per la terza settimana - scriveva l’Economist
a fine ottobre - a Washington, Londra e in altre capitali amiche, stanno
venendo a galla due diverse visioni della guerra - o almeno due diverse
presentazioni degli stessi fatti. I leaders
politici, i diplomatici e coloro che sono più attenti alle reazioni di
alleati tentennanti, sperano che la guerra aerea sia limitata, chirurgica e
rapida e che gli sforzi militari lascino presto il posto a un altro compito:
formare un nuovo regime in Afghanistan, largamente appoggiato nel paese e
generosamente assistito dall’esterno. Invece, dei capi militari come il
generale americano Richard Myers, presidente dei capi di Stato maggiore,
nonché i politici più vicini ai militari, hanno avvertito che la campagna
potrebbe essere lunga, complessa e confusa”. Anche Donald Rumsfeld ha
detto - sempre a fine ottobre - che “i talebani sono un nemico molto più
coriaceo di quanto il loro armamento rudimentale e la loro mancanza di
disciplina facessero supporre. Sono ‘della gente molto dura, gente che ha
fatto carriera in combattimento e che non cederà. La cattura di Osama bin
Laden è difficile da realizzare e semplicemente non so se ci riusciremo’”.
- La situazione veniva ben riassunta da due fonti diverse. La prima, Le Figaro,
notava che l’uccisione di Abdul Haq, figura di rilievo della resistenza
antisovietica e probabilmente inviato di Zahir Shah per ottenere delle
adesioni tra i pashtun, confermava “l’impotenza del Pentagono a
controllare ciò che realmente succede sul terreno, dopo venti giorni di
offensiva. Essa sottolinea anche, crudelmente, che Washington non ha fatto
molti passi avanti verso i due obiettivi di guerra indicati nel pomeriggio
del 7 ottobre. Neutralizzare il cervello terrorista Osama bin Laden e
destabilizzare il regime di Kabul si dimostra essere uno scopo molto più
complicato, che richiede lungo tempo. (...) Il Pentagono afferma di aver
distrutto i campi di addestramento di al-Qaida, come pure l’aviazione, le
difese antiaeree e gli accantonamenti talebani. I bombardamenti hanno poi
colpito delle concentrazioni di truppe e di materiale, dei depositi di
munizioni e di carburante e, più recentemente, delle postazioni trincerate
davanti ai ribelli dell’Alleanza del Nord. (Ma) dieci giorni fa un
responsabile del Pentagono affermava che il regime di Kabul era
‘sbudellato’ dalle bombe. Giovedì, invece, uno degli strateghi
americani, il contrammiraglio John Stufflebeem, si stupiva della resistenza
‘testarda’ dei talebani”.
- La seconda fonte, il settimanale
Time
dice praticamente le stesse cose. La morte di Abdul Haq “è stata
un’umiliante conclusione di una settimana umiliante. Sin dall’inizio
della campagna, gli uomini del presidente hanno avvertito gli americani che
questo ‘nuovo’ tipo di conflitto avrebbe potuto essere lungo quanto la
guerra fredda. Eppure, per un po’ è sembrato che la guerra seguisse un
copione più breve - delle bombe di precisione per preparare il terreno a
una rapida operazione terrestre. Dopo meno di due settimane, il Pentagono
sosteneva che le bombe avevano ‘sbudellato’ la capacità militare dei
talebani. Ma la settimana scorsa questo ottimismo si è spento. Il sogno di
una guerra a botta-e-scappa ha lasciato il posto alla realtà di una lunga
lotta crepuscolare che sembra ormai certo si protrarrà all’inverno
afghano. Dopo più di 3.000 bombe, i talebani restano vigorosi; le loro
truppe hanno battuto un’offensiva dell’Alleanza del Nord verso
Mazar-i-Sharif; le morti di civili aumentano; e molti partners della coalizione - a cominciare dal Pakistan - sono
diventati impazienti. (...) I responsabili del Pentagono hanno detto che le
operazioni di terra, mirate a schiacciare i talebani e al.Qaida, possono
anche non cominciare prima dell’inizio dell’anno prossimo. ‘Non
fissiamo delle date’, ha detto Rumsfeld giorni fa. Con una notevole
franchezza, il contrammiraglio John Stufflebeem ha detto. ‘Sono piuttosto
sorpreso della tenacia con cui i talebani si attaccano al potere.
Decisamente, dobbiamo avere pazienza. Sarà una lunga, lunga campagna’”.
- A fine ottobre, si possono citare due articoli che tirano le somme
a quella data. Il primo è dell'Herald
Tribune e osservava che prima della
morte di Abdul Hak - che ha inferto un duro colpo ai progetti di
destabilizzazione del regime talebano -
aveva di fatto imposto una revisione della tattica militare. “Prima, per
motivi politici, gli Stati Uniti erano riluttanti a cooperare con
l’Alleanza del Nord che non non gode di appoggi tra i pashtun. (Adesso)
decidendo di unirsi alla Russia nel rifornire l’Alleanza di armi e
munizioni, Washington sembra aver accantonato i suoi piani precedenti di
tener in sospeso questa cooperazione in attesa di ottenere appoggi tra i
pashtun. Sino a ora, ‘la pista militare aveva dovuto attendere dei
progressi lungo la pista politica’, dice un aiutante di Bush. ‘Adesso
abbiamo dovuto mollare l’idea, anzi l’illusione, di poter microgestire
il futuro politico’ dell’Afghanistan postbellico”. Il secondo è un
editoriale del New York Times,
secondo cui “la mancanza di vittorie facili (nelle settimane passate, nota
nostra) non dovrebbe sorprendere. In guerra degli attacchi aerei sono
raramente decisivi. Quando si è fatto ricorso a bombe e missili, come in
Jugoslavia, ci sono voluti diversi mesi di bombardamenti. Per sloggiare i
talebani e smantellare la rete bin Laden in Afghanistan occorrerà uno
sforzo sostenuto e delle vaste operazioni terrestri. Com’era prevedibile,
la pazienza di alcuni partners
della coalizione sta già calando (e malgrado ciò) la guerra aerea e
terrestre dovrà continuare per mesi. (...) I talebani non sono invincibili,
ma hanno dimostrato di essere tenaci e pieni di risorse. (Quanto alla rete
di bin Laden) sarà ancor più difficile sconfiggerla dall’aria. A meno di
una bomba o di un missili fortunati, per stanare i capi di al-Qaida dalle
loro grotte ci vorrà tempo, delle infiltrazioni o dei commandos. E il clima invernale non
faciliterà le cose. Gli americani devo prepararsi a un lungo conflitto
militare contro il terrorismo e i suoi protettori talebani. Non bisogna
attendersi alcuna vittoria rapida”.
- Ciò
che dà significato a questi commenti è che essi vengono come una scoperta,
anziché come una previsione - e questo non soltanto per l’opinione
pubblica ma anche, a quanto pare, per i comandi. Se la guerra in Afghanistan
voleva essere il primo passo di quella, molto lunga, contro la rete
terroristica, quel passo rischia di diventare una marcia.
- Declaration
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- John
Vinocur, The new world order is a clash of civilisations, "International
Herald Tribune", 13 settembre 2001.
- The
march to the brink of battle, "The Observer", 23 settembre
2001.
- Michael
Hirsh, How to strike back, "Newsweek", 24 settembre
2001. Anche le opzioni
indicate più sopra vengono da questa fonte.
- Alice Sedar, Schlesinger:
Je redoute des réactions en chaîne, "Le Figaro", 17
settembre 2001.
- Jean-Jacques
Mérel, Il faut liquider le régime de Saddam Hussein, "Le
Figaro", 1 ottobre 2001.
- Alexander
Nicol, Unconventional warfare, "Financial Times", 19
settembre 2001.
- "The
Observer", 30 settembre 2001.
- Claire Tréan,
Les Américains ne cherchent pas à monter une coalition militaire
stricto sensu, "Le Monde", 22 settembre 2001.
- Ed
Vulliamy, Hawks and doves fight for control of campaign,
"The Observer", 30 settembre 2001.
- Françoise
Chipaux, Des aéroports aux maisons des combattants étrangers,
l’Afghanistan offre une nuée de cibles, "Le Monde", 25
settembre 2001.
- U.S.
troops sent to Uzbekistan, "International Herald Tribune",
6 ottobre 2001.
- Patrick
Jarreau, Les dirigeants américains préparent leur opinion à une
guerre longue, "Le Monde", 9 ottobre 2001.
- Arnaud de La
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Figaro", 10 ottobre 2001.
- Afsané
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‘d’autres actions concernant d’autres Etats’, "Le
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