Notizie Internazionali n.81
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi
 

Iraq

a cura di Pino Tagliazucchi

Ci sarà la guerra all’Iraq? Mentre redigo queste note, ai primi di gennaio, tutto pa­re indicare di sì – a fine gennaio, o ai primi di febbraio, quando il dispositivo americano sarà stato completato. Tuttavia, si può ancora supporre che questo continuo tam tam di guerra abbia lo scopo di ottenere quel cambiamento di regime che è lo scopo principale dell'azione americana – e nello stesso tempo di predisporre attorno al Medio Oriente le forze necessarie a un dopo-Saddam probabilmente turbolento. E questo senza un vero e proprio intervento armato. Comunque, queste note – redatte in base ad articoli della stampa internazionale e a materiale raccolto su internet – vogliono presentare delle informazioni utili per valutare la situazione nei suoi vari aspetti, lasciando che il lettore valuti i fatti.

La strategia

Cominciamo da una domanda essenziale: in quale contesto strategico si colloca l’attuale posizione americana sull’Iraq? Già prima dell’elezione di George W. Bush, Condoleeza Rice pubblicò un suo articolo sulla rivista Foreign Affairs [1] che si può riassumere in questi punti:

a)  un’amministrazione repubblicana avrebbe dovuto seguire una politica estera che:

- promuovesse un’indiscussa superiorità militare;
- incrementasse la crescita economica mondiale con il libero commercio e con “uno stabile sistema monetario internazionale”;
- promuovesse dei buoni rapporti con Russia e Cina per incidere sul carattere del sistema politico internazionale;
- affrontasse “in modo decisivo la minaccia dei regimi canaglia e delle potenze ostili”, che sono il potenziale del terrorismo;  

b)  non ci si doveva affidare troppo a trattati internazionali, spesso inefficaci. Non è un atteggiamento “isolazionista suggerire che gli Stati Uniti hanno un ruolo speciale da svolgere nel mondo e non dovrebbero aderire a qualsiasi convenzione o accordo importante che qualcuno pensi di suggerire”;  

c)  “strumenti decisivi nella formulazione della politica internazionale sono una politica economica internazionale che incrementi i vantaggi dell’economia americana e allarghi il libero commercio”;

d)  occorre una forza militare “più leggera e più letale, più mobile e agile e capace di sparare accuratamente a grandi distanze”; capace quindi di “affrontare in modo decisivo l’emergere di una potenza militare ostile nella regione dell’Asia-Pacifico, in Medio Oriente, nel golfo Persico e in Europa”; 

e)  a questo scopo, “il prossimo presidente dovrebbe poter intervenire quando lo giudichi opportuno e possa dimostrare che gli Stati Uniti hanno il dovere di farlo”; in questi interventi egli deve avere l’appoggio anche di “attori regionali”, aiutati dagli Usa;

f) quanto agli “Stati canaglia” (rogue states), gli Usa devono affrontarli “in modo risoluto e decisivo”.

Che la Rice esprimesse non tanto delle posizioni personali quanto l’indirizzo di un giro di personalità – prima che arrivassero al potere e prima anche degli attentati dell’11 settembre – divenne evidente quando, quasi due anni più tardi, nel settembre del 2002, l’amministrazione Bush rese pubblico un documento ufficiale, il National security strategy of United States of America, che segue la stessa linea di ragionamento. Riassumo anche questo documento[2]  nei suoi punti principali.

1.    Introduzione

a) Oggi il nemico è costituito da “oscure reti di individui” e per sconfiggerle bisogna condurre una “guerra globale contro un nemico globale, guerra di incerta durata”; perciò occorre aiutare le nazioni che chiedono assistenza e considerare invece “responsabili le nazioni compromesse col terrorismo, perché gli alleati del terrorismo sono nemici della civiltà”;

b) gli Usa approfitteranno di questa lotta “per estendere i benefici della libertà in tutto il pianeta” – cioè democrazia e “libero mercato e libero commercio”;

c) per costruire “un mondo migliore” bisogna lavorare con le istituzioni internazionali (Onu, Omc, Osa, Nato, ecc.) e gli Usa “accolgono con gioia la responsabilità di guidare questa grandiosa missione”.

2.    Strategia internazionale

a) “Le visioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia ma davano miseria sono state sconfitte e screditate”; adesso la minaccia viene da “tecnologie catastrofiche nelle mani di pochi esagitati”;

b) “la strategia statunitense per la sicurezza nazionale sarà basata su un internazionalismo squisitamente americano, che rispetti l’unione dei nostri valori e dei nostri interessi nazionali”;

c) per raggiungere questi scopi, gli Usa:

- “sosterranno le aspirazioni alla dignità umana”; 
- “daranno inizio a una nuova era di crescita economica globale, grazie al libero mercato e al libero commercio”;
- cercheranno anzitutto di sconfiggere le organizzazioni terroristiche, sollecitando anche i partners regionali a “intraprendere azioni coordinate” nello stesso senso;

- condurranno la lotta a) “con azioni dirette e continuative attraverso tutti gli elementi del potere nazionale ed internazionale”; b) cercheranno “il sostegno della comunità internazionale, ma al tempo stesso non esiteranno ad agire da soli, se necessario, per esercitare il loro diritto all’autodifesa, agendo anche in via preventiva contro i terroristi”.

3.    Conflitti regionali

a) sono sorti degli “Stati canaglia” i quali “abbrutiscono il loro popolo”, non rispettano il diritto internazionale, acquisiscono armi di distruzione di massa, sostengono il terrorismo, odiano gli Usa;

b) bisogna fermare questi Stati con:

- “operazioni preventive di controproliferazione”;
- rafforzando le “operazioni di non proliferazione”, per impedire che gli Stati canaglia acquisiscano tecnologie e armi avanzate;
- “non possiamo consentire ai nostri nemici di colpire per primi, quindi gli Usa sostengono ormai da lungo tempo l’opzione dell’attacco preventivo per contrastare una minaccia anche di moderata entità” – e “per precedere o evitare tali atti di ostilità, gli Usa, se necessario, agiranno preventivamente”.

4.    Una nuova era

a) Ridurre la povertà col libero mercato e il libero commercio;

b) costruire l’infrastruttura della democrazia con aiuti economici e altro.

5.    Sicurezza nazionale

a) “La presenza di forze americane all’estero è uno dei simboli più profondi della dedizione americana nei confronti degli amici e degli alleati”; perciò basi in Europa e Asia nordoccidentale;   

b) innovare le Forze armate, produrre “nuovi approcci nei confronti della guerra”, con intelligence e tecnologia.

Che significa? Riporto il giudizio di un americano autorevole, John Ikenberry[3], che mette in rilievo sette punti:

a) È un impegno a un mondo unipolare, nel quale gli Usa non abbiano “competitori alla pari”.

b) Tutto si basa su una nuova analisi della minaccia esterna – che non è più rappresentata da uno o più Stati, ma da una nebulosa terrorista che può acquisire mezzi tecnologici di distruzione di massa (Wmd, o Adm).

c) Il concetto di deterrenza, proprio della Guerra fredda, è superato; quindi l’uso della forza deve essere “prelativo e anche preventivo” ("pre-emptive and even preventive")[4]; in altri termini: le norme internazionali (Onu e non soltanto) sull’uso legittimo della forza non valgono per gli Usa, i quali, secondo il discorso tenuto da Bush all’Accademia militare di West Point, devono far sì che “la forza militare sia pronta a colpire con breve preavviso e in un qualsiasi angolo oscuro della terra”. 

d) I termini di sovranità degli Stati vanno ridefiniti perché gli Stati che aiutano i terroristi, o siano sospettati di farlo, mancano ai loro diritti di sovranità – e questo viene giudicato dagli Usa; qua si collegano i criteri di guerra al terrorismo e la questione delle Adm e della loro proliferazione, nel senso che, per impedire che Stati ostili passino queste armi a organizzazioni terroristiche, bisogna intervenire, dato che “il possesso di Adm da parte di governi inaffidabili, ostili e dispotici deve essere impedito”; perciò vale anzitutto non il fatto ma la minaccia, effettiva o potenziale, e questi Stati “anche se non sono tecnicamente in violazione di una qualche legge internazionale esistente, potrebbero pur sempre essere bersagli della forza americana – se Washington decide che essi hanno una capacità potenziale di recare danno”.

e) Una svalutazione delle “norme, trattati e partnerships di sicurezza”.

f)  Gli Usa “dovranno svolgere una funzione diretta e senza costrizioni nella risposta alle minacce”; cioè non hanno bisogno di alleanze, o meglio, “la missione deve determinare la coalizione, e non la coalizione determinare la missione”, secondo le parole usate da Rumsfeld; perciò anche la Nato non serve.

g) “La nuova grande strategia attribuisce scarso valore alla stabilità internazionale”, cioè bisogna colpire là dove si addensa la minaccia e questo viene prima di ogni altra considerazione.

Un altro commentatore autorevole, Anthony Lewis[5] si chiede se la guerra all’Iraq non sia “il primo passo verso un imperium americano” e osserva due cose:

a) Bush ha mandato segnali contraddittori, prima parlando di “prelazione” (pre­emption) e poi, a metà settembre, rivolgendosi al Consiglio di sicurezza e accettando poi una risoluzione dura sulle ispezioni in Iraq ma che non parla di guerra – subordinando questa eventuale decisione a un’altra riunione del Consiglio. Però anche dopo questo passo, Bush ha continuato a parlare di guerra “prelativa” e il National security strategy, datato 20 settembre, dice che “il rischio più grave è l’inazione (e che) per precorrere o prevenire questi atti ostili da parte dei nostri avversari, gli Usa agiranno, se necessario, per via prelatoria”;

b) C’è una differenza fondamentale tra “prelazione” e “guerra preventiva”; la prima consiste in un attacco contro un nemico che sta per colpire, la seconda è una decisione presa senza alcuna giustificazione sicura e senza reale necessità.

Entrambe queste ragioni portano a chiedersi quali siano i motivi di fondo della strategia di Bush – e Lewis ritiene che questo presidente vuole buttare all’aria le norme che hanno governato la vita internazionale negli ultimi cinquant’anni; e poi si collega all’articolo di Ikenberry. 

È la strategia degli Stati Uniti o la strategia di un gruppo d’interessi e di potere?  La domanda non è provocatoria come può sembrare – e la risposta può essere riassunta in un commento che la stampa americana ha ripetuto più volte: c’è un conflitto di orientamenti al vertice della classe politica e c’è un conflitto d’interessi tra grandi gruppi, anzitutto petroliferi. Non è possibile tracciare delle nette linee di appartenenza, si può soltanto dire che:

a) da tempo è noto lo stretto collegamento tra la famiglia Bush e i grossi interessi petroliferi;

b) secondo la stampa americana Bush padre e Bush figlio hanno due linee diverse (e parzialmente contrastanti) quanto alla logica strategica generale e sul modo di affrontare la questione Iraq;

c) è noto anche che Dick Cheney, vicepresidente ed esponente della linea dura, è stato sino alla vigilia delle elezioni presidente della Halliburton Corp., società che produce attrezzature petrolifere, con affari e collegamenti in 130 paesi (ovviamente in Medio Oriente, Africa, Asia), nonché con le maggiori società petrolifere mondiali;

d) persino alti funzionari, come Condoleeza Rice e altri, sono (o sono stati) dirigenti di società petrolifere – e non trovo indicazioni quanto al gruppo di Bush padre.

Si direbbe che il momento di maggiore divergenza tra i due gruppi sia stato nell’agosto 2002, quando parve che prevalesse la linea, sostenuta da Rumsfeld e Cheney, di applicare nei confronti dell’Iraq la linea della guerra preventiva. In quei giorni, infatti, alzarono la voce personaggi come Brent Scowcroft, consigliere per la Sicurezza nazionale nell’amministrazione di Bush padre, Lawrence Eagleburger, per breve tempo segretario di Stato dopo la guerra nel Golfo e veterano dell’era Reagan-Bush, Dick Armey, leader della maggioranza alla Camera e lobbyist petrolifero del Texas, Chuck Hagel, senatore del Nebraska ed esperto di intelligence e sicurezza, Madeleine Albright, segretario di Stato con Clinton. Tutti si espressero contro la guerra in Iraq, e specialmente contro una guerra preventiva – o meglio, contro una guerra condotta in modo unilaterale dagli Stati Uniti – ponendo domande anche su aspetti come: gli effetti negativi di un’invasione; la possibilità che un attacco spingesse Saddam Hussein alla disperazione, quindi all’uso delle Adm; quale sarebbe stato il dopo-Saddam; e infine il fatto che un attacco “avrebbe gravemente messo in pericolo, se non distrutto, la campagna antiterrorista”, dato che troppi paesi gli erano contrari [6].      

Fu forse in quel momento che Bush decise di rivolgersi all’Onu, mettendo da parte, almeno per il momento, non la guerra preventiva, ma la guerra decisa in modo unilaterale. E per capire la logica di quella decisione si può seguire il ragionamento con cui Henry Kissinger propose quella tattica.

In un articolo pubblicato a metà agosto sul Washington Post[7] egli sostenne che “un intervento militare americano in Iraq sarebbe (stato) sostenuto malvolentieri, ammesso che lo sia, dalla maggior parte degli alleati europei”, il Medio Oriente si sarebbe spaccato, Russia e Cina avrebbero reagito male – e insomma “non è nell’interesse nazionale americano fissare la pre-emption come principio universale, valido per qualsiasi nazione”. L’osservazione è interessante perché riguarda il modo di fare la guerra all’Iraq, non la guerra in sé. Infatti, in un dibattito pubblico con la Albright, ostile alla guerra in sé, Kissinger osservò che “la questione non può essere messa in termini di minaccia diretta dell’Iraq agli Stati Uniti. L’Iraq minaccia gli Stati Uniti per la sua capacità di minacciare i suoi vicini” e per il fatto di produrre Adm; quindi “in una zona di questa regione da cui proviene gran parte del terrorismo, la presenza di questo paese con questo governo e con queste armi è un pericolo geopolitico”. Allora, guerra sì o guerra no? “Se fosse possibile definire un sistema d’ispezioni che Saddam accetti e se fosse possibile metterlo in opera e imporlo, credo che questo porterebbe a un cambio di regime significativo. Ma non credo che questo sia possibile senza la minaccia di guerra. Quindi, che si voglia fare la guerra o che si preferisca un sistema d’ispezioni, sono due questioni che non possono essere separate” [8].

Il Dottor Sottile era stato chiaro, alla maniera latina: si vis pacem para bellum – e per “pacem” intendeva quel cambiamento di regime che è in sostanza lo scopo americano. In un altro lungo articolo, pubblicato sul Los Angeles Time il 5 settembre[9], Kissinger trattò del modo di condurre una guerra eventuale. Colpire l’Iraq in quanto possessore di Adm – egli scrisse – “non è un ostacolo alla guerra al terrorismo ma, al contrario, un suo prerequisito”; però gli Usa devono accettare dei vincoli alla propria azione, come condizione di leadership internazionale, essendo chiaro che “alla resa dei conti essi si riservano il diritto di agire da soli”, però soltanto come “ultima risorsa”; per ora, era preferibile affidarsi a ispezioni “a prova di frode”, sostenute magari da una forza internazionale.

Pochi giorni più tardi – il 12 settembre – Bush parlò all’assemblea dell’Onu, praticamente su questa linea. Naturalmente, non possiamo sapere perché Bush e i suoi abbiano messo da parte (ma non scartato) la linea della guerra unilaterale enunciata in modo esplicito sino ad agosto. Possiamo soltanto fare due osservazioni: il documento sulla sicurezza nazionale (del 20 settembre) mantiene la possibilità che gli Stati Uniti agiscano da soli e in modo preventivo; Colin Powell, che in precedenza veniva dato per accantonato, ha potuto prevalere con la decisione di ricorrere all’Onu perché, si dice, collegato al gruppo di Bush padre e al suo giro di interessi petroliferi contrario al giro dietro a Bush figlio.

Comunque, è chiaro che c’è stato un mutamento di linea – almeno per ora. Lo sottolinea Strobe Talbott[10] osservando che, sin dall’inizio della sua presidenza, Bush era convinto che “la politica estera e la politica militare (dovevano essere) fondate sulla preminenza della potenza americana e sulla prontezza del presidente a usare quella potenza per promuovere gli interessi americani, senza condizionamenti da parte di accordi o di istituzioni internazionali”. Poi “seguendo una linea in larga parte tracciata da Powell, Bush ha dichiarato di voler agire attraverso il Consiglio di sicurezza, usando una nuova e dura risoluzione come strumento per costringere Saddam a disarmare o, in caso di rifiuto, come motivo per un’azione militare”. Ora, “avendo ottenuto l’avvio di un nuovo sistema di ispezioni, Bush dovrà probabilmente restarci dentro”; se non lo facesse, egli perderebbe “la legittimità internazionale, la partecipazione di molti stati sia alla condotta della guerra sia al mantenimento di una pace tormentata che le seguirà, nonché il sostegno dell’opinione pubblica americana”. Insomma, Bush è tornato a essere “multilateralista”, alla maniera dei suoi predecessori – che di guerre ne hanno fatte parecchie, anche di carattere pre-emptive, come quella in Kosovo, ma mai sen­za  contro l’Onu.

È così? La sola risposta che si possa dare è: sì, per ora. Però la situazione che ne risulta è ambigua. Da un lato, affidandosi alle ispezioni, l’Onu fa implicitamente dipendere dal loro risultato la decisione finale, cioè la guerra; dall’altro lato, gli Stati Uniti vogliono eliminare Saddam e cambiare il regime – e se non l’ottengono con le ispezioni e con un’altra risoluzione dell’Onu cercheranno ogni appiglio per passare all’azione; infine, qualora gli Stati Uniti riescano a forzare la mano del Consiglio di sicurezza (o per meglio dire, ottengano l’appoggio di stati sinora ostili alla guerra) c’è da chiedersi quale possa essere il futuro per un’organizazione mondiale messa al traino degli Usa. Qui sta il nodo politico, a carattere internazionale, dell’intera vicenda. È ovvio che, affidandosi all’Onu, gli Stati Uniti si sono vincolati – ed è  improbabile (ma non impossibile) che decidano di procedere in modo unilaterale, senza o contro l’Onu;  però è non meno chiaro che essi esercitano un peso politico ed economico considerevole su una fila di paesi alleati, o comunque interessati a un rapporto positivo e che, molto più che in Kosovo o nella guerra del Golfo, questa volta è in ballo un ordinamento internazionale dominato dalla preminenza americana.

Questa ambiguità della posizione americana si riflette anche nei termini in cui si esprime la risoluzione del Congresso, votata a maggioranza il 20 novembre, nei suoi due punti principali:

a) “il presidente è autorizzato a usare le Forze armate degli Stati Uniti come egli decida che sia necessario e appropriato” per difendere la sicurezza nazionale e per imporre le decisioni dell’Onu;

b) se decide di intervenire, Bush deve spiegare al Congresso (a intervento iniziato) che 1) “l’affidamento degli Usa soltanto a ulteriori mezzi diplomatici o pacifici o A) non protegge in modo adeguato la sicurezza nazionale degli Stati Uniti contro la continua minaccia posta dall’Iraq, o B) non porta all’applicazione delle principali risoluzioni dell’Onu relative all’Iraq e 2) l’azione derivante da questa risoluzione è coerente con il fatto che Stati Uniti ed altri paesi continuino ad agire contro i terroristi e le organizzazioni terroristiche internazionali, inclusi quei paesi, organizzazioni o persone che hanno pianificato, autorizzato, commesso o aiutato gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001”.

La tattica

Su quali presupposti di grande tattica si fonda la linea strategica di Bush-Rumsfeld-Cheney? Tentare di rispondere a questa domanda significa anche cercare i termini in cui, perlomeno sino a settembre, veniva posto un attacco all’Iraq – come prova ed esempio di altri attacchi eventuali. Il punto è interessante non soltanto come indicazione di una logica in cui il politico è inseparabile dal militare, ma anche come impostazione dei rapporti tra Usa e alleati e come schema di investimenti e di produzione nell’industria bellica americana.

Rumsfeld ha dichiarato che gli Usa devono avere “una capacità di dissuasione su quattro teatri operativi importanti” ed essere in condizione di “vincere due aggressori contemporaneamente, con la capacità di condurre una controffensiva rilevante e di occupare la capitale di un nemico per installarvi un nuovo regime”[11]. Fondato su tecnologie avanzate, si delinea così il “controllo strategico” che “consiste nel mettersi, in modo permanente, in condizione di identificare la situazione dell’avversario, ridurre la sua forza con la distruzione programmata delle sue capacità militari, industriali e politiche, di annientarle, se necessario, e di ottenere così il suo ripiegamento o la sua capitolazione. Questo non comporta necessariamente di occupare il territorio in gioco, o quello del nemico”, perlomeno non subito, perché l’azione militare deve anzitutto pun­tare su obiettivi specifici – con molta flessibilità, a seconda delle situazioni, ma cominciando sempre con un bombardamento preciso.

Questo concetto di “controllo strategico” si collega al progetto di difesa antimissilistica – il Missile defense system (Mds), esteso al territorio americano e alle basi aeree e navali esterne. Il criterio fondamentale è che la dissuasione reciproca, valida durante la Guerra fredda, non è più necessaria; le altre potenze o non hanno armi nucleari, o non intendono usarle, quindi il pericolo consiste in un attacco ridotto da parte di piccoli Stati (gli “Stati canaglia”), oppure da paesi che, come la Cina, si sentissero troppo pressati dall’egemonia americana.

Questa nuova struttura militare, scrive Klare[12], si fonda su tre criteri:

a) l’americanocentrismo, cioè tutto in funzione degli interessi americani (o meglio, dei grandi boss americani, anzitutto petrolieri);

b) la capacità di proiettare la forza militare dapperutto, in qualsiasi momento e circostanza;

c) la supremazia perpetua, cioè la permanente superiorità militare, grazie a scienza, tecnologia e risorse economiche.

In sostanza, non sono più previste guerre estese e lunghe, ma soltanto brevi campagne, intense, in luoghi lontani, con basi in vari punti, e anche con grandi mezzi di trasporto, con forze flessibili e armi di precisione a distanza. Il tutto al coperto di un National missile defense (Nmd) e di un Theatre missile defense (Tmd).

Insomma, si può parlare di stato di allerta permanente e su un teatro di dimensioni mondiali; o meglio ancora, si può parlare di un sistema militare di potenza e diffusione tali da escludere, idealmente, la guerra intesa in senso tradizionale, sostituita da “operazioni” locali; essendo chiaro anche che dipende poi dagli Stati Uniti decidere se, quando e come un altro Stato, o un regime, si comporta da nemico. Questo, ov­via­mente, è il quadro ideale, ma la sua logica è già operativa.

Nel caso specifico, l’Iraq, quali sono i dati di rilievo? Vediamo anzitutto i possibili costi, che sono sempre un fattore condizionante. Secondo il Financial Times[13], la guerra del Golfo del 1991 costò 60-70 miliardi di dollari, di cui gli Usa pagarono soltanto 17 miliardi. La coalizione che partecipò alla guerra comprese 34 Stati, con un raggio che andava dai maggiori Stati europei sino a paesi come il Niger, il Bangladesh e l’Honduras; e mentre gli Usa fornirono la stragrande maggioranza delle forze operative di terra, mare e aria, l’Arabia Saudita versò quasi 17 miliardi di dollari agli Usa e ne sborsò un’altra trentina per le facilities di sostegno militare; il Kuwait versò 17 miliardi di dollari, il Giappone circa 12 miliardi, la Germania 7. Lo spiegamento di forze, sempre secondo questa fonte, comportò l’impiego, operativo e di sostegno, di quasi 700.000 uomini, 1.650 aerei, 121 navi militari; gli Usa fornirono 425.000 uomini, 1.200 aerei e 66 navi.

Anche da questo punto di vista, le cose sono cambiate da allora. Secondo il Congressional budget office, il costo del solo spiegamento di forze costerebbe da 9 a 13 miliardi di dollari; la guerra costerebbe da 4 a 9 miliardi al mese – e non si sa quanto verrebbe a costare un’occupazione del paese, probabilmente prolungata, che comporterebbe una spesa oscillante da 15 a 20 miliardi l’anno. Insomma, a seconda della durata dell’occupazione, il costo complessivo andrebbe dai 50 ai 100 miliardi di dollari – e secondo l'Herald Tribune[14] si potrebbe arrivare addirittura ai 200 miliardi di dollari. Paesi come la Francia, la Spagna, l’Italia potrebbero fornire “specialist services”, la Turchia dovrebbe fornire basi, anzitutto aeree, ma nessun paese pare disposto a rimetterci di tasca propria.

Ma come si dovrebbe svolgere l’attacco? C’è stato un forte dibattito in seno al Pentagono e, si direbbe, tra generali e direzione politica, circa la tattica da seguire. A settembre[15], il piano previsto indicava un attacco “strettamente concentrato ma estremamente intenso”, del tutto diverso da quello del 1991. Si trattava, in particolare, di:

a) puntare direttamente su Saddam Hussein e su tutto ciò che lo sostiene, evitando però di colpire l’infrastruttura civile e anche le forze militari subordinate e non sicure per il regime;

b) impiegare contemporaneamente l’attacco aereo e quello terrestre, anziché passare da una lunga campagna di bombardamenti aerei a un breve intervento da terra, come nel 1991;

c) ricorrere a una forza d’invasione limitata, veloce, composta in buona parte da forze speciali;

d) un attacco dall’aria e da terra mirato a distruggere i mezzi di difesa antiaerea e missilistica e i “regime targets” – cioè la Guardia repubblicana più fedele, il sistema di comunicazioni militari, la polizia segreta, i palazzi presidenziali e così via.

Per quel che se ne sa e si può capire, doveva essere appunto una prova-esempio di altri eventuali interventi militari – rapido, poco costoso, risolutivo. Pare che il contingente ammassato attorno all’Iraq andasse da 60.000 a 100.000 uomini al massimo, più le forze aeree e navali – contingente giudicato sufficiente per il successo. Anche questo punto va sottolineato, perché in corrispondenza logica con il quadro strategico. Poi, a metà novembe, si seppe che gli alti comandi militari avevano convinto Bush ad abbandonare questo piano (probabilmente del gruppo Rumsfeld) e ad accettare un piano fondato su un contingente di 250.000 uomini – contando soltanto le forze di terra[16]. Secondo questo nuovo piano, l’attacco sarebbe preceduto da una fase di bombardamenti con non meno di 1.000 aerei.

Senza addentrarci in calcoli militari e logistici, si possono sottolineare alcune implicazioni evidenti. La prima è che questo spiegamento di forze richiede basi più numerose e ampie di quelle che, pare, erano state previste. Ora, secondo una cartina di Le Monde[17], ai primi di dicembre le forze americane dispiegate attorno all’Iraq ammontavano a 70.000 uomini delle tre armi – e altri 20-30.000 potrebbero essere stati aggiunti entro la fine dell’anno. Le basi principali sono in: Turchia (base di Incirik, con 36 aerei da caccia e 2.000 soldati); Kuwait (con 12.000 soldati, 530 carri armati, 127 mezzi aerei); Bahrein (base della V flotta, con 4.500 uomini del personale a terra); Qatar, possibile quartier generale del generale Thommy Franks e del suo Stato maggiore, con forse 10.000 uomini e 200 carri armati; Oman, con 3.000 uomini dei servizi di sostegno a 3 basi aeree; Arabia Saudita, con 10.000 soldati, 50 aerei e 64 rampe per missili patriot; infine Fibuti, piccolo punto di appoggio e Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, base aerea britannica.

Questo dispositivo, confermato anche da altri quotidiani, è al tempo stesso imponente e inadeguato. A questo punto, si pongono due domande essenziali: quanto tempo occorrerà per portare il contingente al livello previsto, cioè perlomeno raddoppiarlo, creando nuove basi ed allargando quelle esistenti? Sino a che punto i paesi che ospitano le basi attuali saranno disposti ad accettare le implicazioni politiche ed economiche di questo allargamento? I tre paesi chiave, per le basi e per lo stesso piano di attacco, sono la Turchia, l’Arabia Saudita e il Kuwait. Per quel che si sa, la Turchia esita a divenire la base da cui potrebbe partire l’attacco dal nord; l’Arabia Saudita rifiuta di divenire la base per l’attacco dal sud e anche di ampliare la base attuale; il Kuwait può divenire la base per l’attacco dal sud ma, a parte le sue dimensioni ridotte, questo potrebbe sollevare implicazioni per la sua stabilità politica. In generale, poi, gli alleati arabi – indispensabili come regimi “amici” – pongono l’accento sul ruolo decisionale dell’Onu e sulle ispezioni, cercandovi una scappatoia; chiedono che un eventuale intervento americano sia breve, senza troppe vittime civili e che non porti a spaccare politicamente l’Iraq. In altre parole, niente multilateralismo e attenti alle conseguenze politiche in tutto il Medio Oriente.

Non ci sono indicazioni sicure sul piano d’attacco. Dalle informazioni frammentarie fornite dalla stampa internazionale pare che i suoi punti salienti siano:

a) occupare la maggior parte del paese con un attacco da nord e uno da sud.

b) condurre una campagna propagandistica per convincere i militari iracheni a cambiare bandiera;

c) se il regime non cade prima, un rapido attacco a Bagdad, probabilmente con forze speciali;

d) risparmiare quanto più possibile la popolazione e le infrastrutture civili.

Il punto principale pare consistere nell’occupazione di quasi tutto il paese, per ottenere una rivolta delle popolazioni curde e sciite e provocare la caduta del regime ancor prima di attaccare Bagdad; non si capisce da dove possa partire l’attacco dal nord, data la posizione reticente della Turchia, ed è possibile che l’attacco vero e proprio si concentri al sud, mentre dal Kurdistan opererebbero forze speciali (che pare siano già sul posto). Il punto dolente sta nella possibilità che Saddam Hussein mantenga ciò che ha già annunciato e cioè concentri a difesa di Bagdad la parte più fedele e più forte della Guardia repubblicana, affidandosi a una battaglia di strada. Stando alla stampa, l’esercito iracheno conterebbe 375.000 uomini (meno del 40% delle forze disponibili nel 1991); la Guardia repubblicana conterebbe 100.000 uomini, di cui 25.000 della Guardia repubblicana speciale. Se questa forza dovesse davvero impegnare le truppe americane in una battaglia di strada sono possibili due conseguenze maggiori:

a) perdite elevate tra le forze americane – cioè proprio il prezzo che la strategia di Rumsfeld mira a evitare perché non ripetibile e politicamente pericoloso;

b) una pesante ricaduta sulla popolazione e sulle infrastrutture civili – con conseguenze pesanti sul dopo Saddam e in tutto il mondo arabo.

Pare che, in previsione di questo, il Pentagono punti a bloccare ogni accesso dall’esterno verso la città e a rendere perlomeno difficoltosi i movimenti interni con un electronic jamming; poi una campagna propagandistica mirata a civili e militari; infine, se proprio bisogna attaccare, colpire degli obiettivi cruciali con rapidità e forza tali da far crollare tutto il resto. Può darsi. Ma, osservava il Financial Times[18] che secondo gli esperti militari il Pentagono “ha trascurato per decenni la questione delle operazioni in ambiente urbano" ” che, appunto per questo, "la tattica e la pianificazione delle battaglie nelle città è cambiata di poco dal tempo della battaglia di Huè nel 1968".”Secondo un alto ufficiale americano, Saddam potrebbe concentrare a Bagdad sei divisioni della Guardia repubblicana e altre sei divisioni pesanti e in questo caso si avrebbe “uno scenario da incubo”, perché “tutti i nostri vantaggi in fatto di comando e controllo, tecnologia, mobilità, sarebbero in buona parte annullati e si dovrebbe lavorare con caporali, sergenti e giovani inesperti, in combattimenti strada per strada. I sistemi nello spazio – satelliti e aerei – sarebbero inefficaci, un fatto dimostrato dalla campagna aerea del 1999 in Kosovo, quando le forze jugoslave si rintanarono in paesi e città”.

Per questi motivi, la Casa bianca sembra propendere per un piano che “prevede l’invasione rapida del paese e l’accerchiamento di Bagdad, presumendo che Saddam Hussein probabilmente cadrà prima che le forze americane entrino nella città”. Però, stando a questa informazione dell'Herald Tribune[19], “il Pentagono si sta anche preparando alla possibilità di una lunga battaglia attorno e dentro Bagdad (e in questo caso) il piano mira a un attacco rapido, con forze relativamente piccole, per puntate concentrate. (Comunque) tutto il piano tattico mira a evitare di impegnarsi in una debilitante battaglia per le strade di Bagdad, dove la supremazia tecnologica americana sarebbe umiliata e le perdite civili diverrebbero inevitabili”.

E, senza pretendere di mettere bocca su piani militari ovviamente segreti, c’è da supporre che anche Saddam Hussein abbia studiato la recente storia militare americana e ne abbia tratto delle conclusioni – ammesso che possa applicarle, anche a costo di doversene andare, ma non da solo.

Le armi

La grande tattica americana si fonda anzitutto su sistemi di intelligence  e di comunicazione, nonché su armi, specialmente aerei, capaci di colpire da lontano e con grande precisione; tutto, ovviamente, ad alta tecnologia. Le informazioni in proposito sono sommarie – e non è sempre chiara la distinzione tra armi già in uso, armi alla prova e armi in progettazione; perciò questa nota informativa vuole dare soltanto un’idea del tipo di armamento, concepito appunto per interventi rapidi, devastanti, in luoghi lontani.

Anzitutto, i drones, aerei senza pilota per osservare e colpire. Sono chiamati Unnamed Air vehicles (Uav) e si distinguono questi tipi:

a) gli High altitude long endurances (Hale), come il Global hawk – che può vo­lare a un’altitudine tra i 10.000 e i 20.000 m, con un’autonomia di 5.600 km e una velocità di 630 km/h. Può fotografare con grande precisione, è armato con bombe da 125 o 250 kg, pesa 12 tonnellate e costa 62 milioni di euro; è in servizio dal 1998:

b) i Micro air vehicles (Mav), aerei miniatura, lunghi non più di 16 cm., per missioni di osservazione a distanze ravvicinate;

c) i Predator, aerei senza pilota, armati con missili a guida laser, con un’autonomia di 840 km, un’altitudine massima di 7.600 m, una velocità di 130 km/h; sono in servizio dal 1998.

Poi due aerei a guida umana, l’AC130USpectre, una sorta di cannoniera volante, con un’altitudine sino a 7.600 m, una velocità di 480 km/h e un’autonomia di 3.500 km – in servizio dal 1995; l’E8CJStars, un Boeing 707/300, pieno di attrezzature informatiche, con un equipaggio di 21 persone; può stare in missione sino a 11 ore, ha una velocità di 1.000 km/h, con un’altitudine di 12.800 m; è in servizio dal 1996. Il Jstars raccoglie informazioni da satelliti, aerei e mezzi terrestri, le elabora e le rimanda alle forze operative terrestri, navali e aeree – tra cui lo Spectre e il Global hawk.

A questi mezzi si aggiungono armi robotiche come:

-  i ground sensors, lanciati da aerei per ascoltare e vedere il nemico;  
-  gli aerei micro, per controllare il territorio nemico;

-  le munizioni Hornet, sorta di mine con sensori che sparano proiettili perforanti;

-  il robotic follower, piccolo veicolo armato che segue anche il singolo soldato per assisterlo nell’azione;

-  i pilotless bombers. [20] 

A metà dicembre, un articolo sull'Herald Tribune[21] informava  che la Casa bianca aveva diramato una nota sulla strategia antiterrorista in cui si diceva che gli Stati Uniti avrebbero risposto a un attacco con armi chimiche, biologiche e nucleari ricorrendo a “tutte le opzioni” – e “un alto funzionario dell’amministrazione ha detto ai giornalisti che queste opzioni includono la forza nucleare”. Si tratterebbe di una bomba nucleare “piccola”, con una potenza equivalente a 300 tonnellate di Tnt – che però potrebbe arrivare anche a 340 kilotonnellate. La bomba di Hiroshima aveva una potenza pari a 13 kilotonnellate di Tnt. [22]

Secondo la Nuclear posture review, documento del Pentagono rivelato a metà marzo dal New York Times e dal Los Angeles Times[23], questa bomba servirebbe a neutralizzare le scorte di armi chimiche, biologiche e nucleari di Stati minacciosi – tra cui la Corea del Nord, la Libia, l’Iran e beninteso l’Iraq (e questo coincide con quanto ha poi detto il recente documento della Casa bianca). Non si capisce se quest’arma, e la minaccia di usarla, abbiano uno scopo dissuasivo o preventivo. Condoleeza Rice ha detto che “il solo modo di dissuadere un attacco (nucleare nemico) è di far sapere chiaramente che la risposta sarebbe devastante”; Powell ha precisato che non si tratta di banalizzare il nucleare per farne un’arma contro il terrorismo. Siamo quindi nel buio; però l’arma è ormai compresa nell’armamento utilizzabile in caso di guerra – quale sia.

A queste armi bisogna aggiungere le ormai note munizioni a uranio impoverito (ui), che perlomeno dalla guerra del Golfo e poi in Kosovo rientrano nel rifornimento militare normale. Secondo un rapporto sulla contaminazione provocata dai bombardamenti in queste due guerre[24], tra i bombardamenti del 1991 e quelli successivi sono state buttate in Iraq sulle 135.000 tonnellate di esplosivi, di cui 300 con proiettili ui. Stando a rapporti ufficiali americani, i residui di questi proiettili inquinano il terreno e l’acqua; questo si sapeva negli ambienti militari sin dal 1974 e le conseguenze sono state confermate da Ong operanti in Iraq. Ciò che si sa meno è che questi effetti dureranno da un minimo di 500 sino a 4 miliardi di anni.

Il petrolio

La domanda ovvia è: quali sono i motivi reali di questa strategia? Michael Klare[25] scrive che Bush ha tre obiettivi: la lotta contro il terrorismo, l’acquisizione di nuove fonti petrolifere, la supremazia militare. Questi tre obiettivi sono correlati – e Klare lo spiega mettendo in rilievo due punti:

a) Bush ha espresso il concetto che guida l’ammodernamento delle Forze armate dicendo: “Le nostre Forze armate dovranno essere mobili, letali e facilmente dispiegabili, con un supporto logistico minimo. Dobbiamo poter proiettare la nostra potenza a grande distanza, in alcuni giorni o alcune settimane, anziché in alcuni mesi”. C’è da chiedersi se questo sia davvero realizzabile, comunque è chiaro che questo implica un criterio che non è nemmeno più di guerra ma di operazione di polizia – operazione “preventiva” perché altrimenti sarebbe “troppo tardi”;

b) Cheney ha indicato i motivi del bisogno di nuove fonti petrolifere in un rapporto del 17 maggio 2002 al National energy policy development group. La dipendenza americana dal petrolio importato dovrebbe passare dal 52% del consumo nazionale nel 2001 al 66% nel 2020 – anno in cui gli Usa dovranno importare un 60% in più delle quote attuali, da 10,4 milioni di barili/giorno a 16,7. È necessario o finanziare i produttori stranieri per le infrastrutture necessarie a una maggiore estrazione, o metterci mano direttamente; inoltre, bisogna diversificare le fonti per non trovarsi concentrati su una sola regione. Perciò, bacino del mar Caspio (Azerbaigian e Kazakistan in particolare), Africa (Angola e Nigeria) e America latina (Colombia, Messico e Venezuela) – tutte zone instabili e non filoamericane.

In un altro saggio[26], Klare esamina la “nuova geografia del conflitto”, seguendo la stessa logica. Lo scritto è precedente all’attacco dell’11 settembre – cioè precorre quella che oggi viene spesso presentata come l’inevitabile logica del controterrorismo. Egli parte osservando che nell’ottobre 1999 il ministero della difesa ha assorbito il Pacific command nel Central command – dimostrando così che una regione sino ad allora secondaria, che va dagli Urali al confine occidentale della Cina, “è divenuta un punto strategico di rilievo, date le vaste risorse in petrolio e gas naturale che si ritiene giacciano sotto e attorno al mar Caspio”.

Il punto, dice Klare, è che i problemi relativi a fonti energetiche (acqua, legname e materie preziose) investono oggi una quantità di paesi – a livelli e con capacità diverse – dalle grandi potenze a piccoli paesi africani; e questo produce una nuova geografia di conflitti. Anche perché il consumo accelera la riduzione delle riserve. Per quanto riguarda il petrolio, il consumo globale dovrebbe passare da 77 milioni di barili/giorno nel 2000 a 110 milioni nel 2020 (+43%), cioè 670 miliardi di barili/giorno in più tra il 2001 e il 2020 – pari a 2/3 delle riserve conosciute. Questi due aspetti – paesi piccoli ed instabili e fonti in esaurimento – sono alla base di una strategia mirata all’accaparramento.

In fatto di riserve petrolifere, l’Iraq è secondo soltanto all’Arabia Saudita – in una regione, il Medio Oriente, che conta per il 65% delle riserve mondiali conosciute e il 30% della produzione petrolifera mondiale. Ora, facciamo un passo indietro e vediamo i rapporti tra Usa e Iraq nei decenni passati, per inquadrare la situazione attuale. “Per mezzo secolo – dice un rapporto del World­watch institute[27] – gli Stati Uniti hanno fatto investimenti crescenti per mantenere la regione del Golfo nella propria orbita geopolitica e per mantenere il proprio diritto a una quota preponderante delle riserve terrestri”. I rapporti con Ryiad iniziano nel 1940; quelli con l’Iran iniziano nel 1953, quando un colpo di Stato, “architettato dalla Cia”, abbatté il governo di Mossadegh che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera e installò lo scià; nel 1958 la monarchia irachena filobritannica fu abbattuta da un colpo di stato, ma gli Stati Uniti cercarono di stabilire dei buoni rapporti col nuovo regime del partito Baas. Poi, quando, nel 1979, la rivoluzione islamista di Khomeini abbattè lo scià, l’Iraq di Saddam Hussein (che divenne presidente in quell’anno) divenne per gli Usa una necessità. [28]

Durante la guerra Iraq-Iran, Reagan fornì all’Iraq crediti per “diversi miliardi di dollari”, permise che imprese americane e paesi come l’A­rabia Saudita e il Kuwait fornissero armi a Bagdad, pare che abbia fatto trasmettere agli iracheni informazioni militari segrete – e non ha mai detto una parola sull’impiego di armi biologiche e chimiche da parte dell’Iraq. Poi l’Iraq invase il Kuwait nel 1990 e “gli Stati Uniti non potevano consentire che un singolo Stato, potenzialmente ostile, acquistasse il dominio sulle grandi risorse petrolifere della regione” – da qui la guerra del Golfo del 1991.

Bisogna tener conto del fatto che la Exxon-Mobil, la Chevron, la Texaco, la Royal Dutch/Shell e la British Petroleum detenevano il controllo sui 3/4 del petrolio iracheno prima della nazionalizzazione nel 1972. Poi il governo iracheno si rivolse alla Total­Fina Elf francese e ad alcune società sovietiche – implicando anche la Petroleum corp. cinese; queste società sono interessate alla sospensione delle sanzioni che limitano le esportazioni di petrolio, mentre è ovvio che un intervento militare, o comunque un cambiamento di regime, porrebbe di nuovo il petrolio iracheno nelle mani delle società angloamericane. Il dibattito all’Onu, che ha portato alla Risoluzione n. 1441, deve essere visto su questo sfondo di rivalità di interessi [29].

Su questo sfondo, che fornisce i termini della situazione, alcuni dati statistici permettono di inquadrare meglio l’importanza del petrolio iracheno [30].

Riserve e produzione (1)

 

Riserve  % mondiale Produzione % mondiale  

Medio Oriente  

       
Arabia Saudita 211,8 24,9 8,8 11,8

Iraq

112,5 10,7 2,4

3,3

Eau

97,8 9,3 2,4 3,2

Kuwait

96,5 9,2 2,1 2,9

Iran

89,7 8,5 3,7 5,1
Totale 685,6 65,3 22,2 30,0

Asia centrale

       
Russia 48,6 4,6 7,1 9,7
Kazakistan (*) 8,0      
Azerbaigian (*) 7,0      
Uzbekistan (*) 0,6      
Turkmenistan (*) 0,5      

America

       
Usa 30,4 2,9 7,7 9,8
Venezuela 77,7 7,4 3,4 4,9
Messico 26,9 2,6 3,6 4,9
Brasile (*) 8,5      
Argentina (*) 3,0      
Ecuador (*) 2,1      
Colombia (*) 1,8      
Canada 6,6 0,6 2,8 3,6

Africa

       
Libia 29,5 2,8 1,4 1,9
Nigeria 24,0 2,3 2,1 2,9
Algeria 9,2 0,9 1,6 1,8  
         
Opec 818,8 78,0 30,2 40,7

Totale mondiale

1.050,0 100,0 74,5 100,0

1)      Riserve in miliardi di barili, produzione in milioni di barili/giorno.     
Fonte: "BP Statistical Review of World Energy", 30 dicembre 2002

             

Le principali società petrolifere

Riserve (1)  Produzione (2)
Aramco (Arabia Saudita) 261,8

8,6

Kpc (Kuwait)  96,5 1,7
Nioc (Iran) 89,7 3,8
Adnoc (Eau) 53,8 1,4
Exxon Mobil (Usa) 12,2 2,6
Royal Dutch (GB-Olanda) 9,8  2,3
TotalFina (Francia) 7,0 1,4
British Petroleum (GB) 7,6 1,9
Texaco (Usa) 3,5 0,8
  
Lukoil (Russia) 14,3 1,6
PetroChina (Cina) 11,0 2,1
Sinofec (Cina) 3,0 0,7
Pdv (Venezuela) 77,7 3,3
Pemex (Messico) 28,3 3,5
Petrobas (Brasile) 8,4 1,3
Noc (Libia)               23,6 1,3
Nnpc (Nigeria) 13,5 1,3

                        
1) In miliardi di barili      
2) In milioni di barili/giorno          
Fonte: Energy intelligence group  

L’Iraq

Un breve quadro dell’Iraq, con informazioni riprese da Le Monde Diplomatique dell’ottobre 2002. La struttura sociale del paese si fonda sulle tribù, le quali sono divise in clan, i quali si suddividono a loro volta in sottoclan, gli afkhad – composti da hamlas, o famiglie ampie, divise per bayt, o casate. La “tribù regnante” è l’Abu Nasir, il cui nucleo centrale è il clan Al-Bei­jat – cui si aggiungono, nella gestione del potere, altre frazioni tribali. Il regime si fonda su un’amalgama di elementi moderni (partito, petrolio, economia statale) ed elementi tribali perduranti; bisogna poi contare la divisione religiosa tra sunniti e sciit i e quella nazionale, con i curdi.

La guerra del 1991 – dopo quella con l’Iran – ha comportato cinque conseguenze:

a) Lo Stato si è indebolito, l’esercito è calato da un milione di effettivi a un terzo e i servizi di sicurezza (la polizia segreta) hanno perso buona parte della loro capacità.

b) Il partito ha perso molti iscritti, quindi buona parte del suo controllo ideologico.

c) Le sanzioni hanno tolto al governo le enormi entrate petrolifere, con un calo del pil del 75% rispetto al 1982. Il reddito annuo per abitante è sceso da 4.219 dollari nel 1982 a 485 dollari nel 1993 – e poi ancora a 300 dollari.

d) C’è stato un declino del ceto medio stipendiato, anche a causa dell’iper inflazione. Un dinar valeva 310 dollari prima della guerra, nel 1996 il rapporto era invece di 3.000 dinar per un dollaro rapporto che si è poi stabilizzato a 2.000 dinar per un dollaro. E con questo declino il partito ha perduto la sua base principale.

e) Il crollo dell’Urss ha duramente colpito la “legittimità rivoluzionaria” del partito Baas.

Il Baas si è installato al potere nel 1958, quando il generale Abdelkrim Kassem abbattè la monarchia; nel 1963 lo sostituì il maresciallo Abdessalam Aref, che restò al potere sino al 1968; Saddam Hussein arrivò al potere nel 1970, sostituendo Hassan al-Bakr, ma già da tempo era al potere (nell’ombra).

Nel 1984, le Forze armate irachene contavano:

Fanteria 600.000 uomini, in larga parte coscritti; 6 divisioni corazzate, 5 divisioni motorizzate, 4 divisioni alpine, 5 divisioni di fanteria, 2 brigate corazzate della Guardia repubblicana e 3 brigate di forze speciali. Questo insieme comprendeva quasi 5.000 carri armati, circa 3.500 cannoni, più mezzi anticarro e mezzi antiaerei.

Marina  3.000 uomini.

Aviazione 48.000 uomini con 580 aerei da combattimento, 150 elicotteri e 2 squadroni di bombardieri.

Oggi si contano 350.000 uomini più 7 divisioni della Guardia repubblicana, di cui 4 corazzate, 1.500 pezzi di artiglieria; marina e aviazione sono praticamente inesistenti. 

L’Arabia Saudita

Alcune informazioni generali permettono di inquadrare la situazione nel paese oggi più importante del Medio Oriente. Anzitutto alcuni dati storici, relativi alla dinastia regnante e agli avvenimenti storici principali.

La dinastia:

Abdel Aziz ben Saud (1880-1953) fonda il regno nel 1932 e regna sino al 1953.

Saud ben Abdel Aziz (1902-1969) succede al padre nel 1953, ma è deposto nel 1964 per incapacità.

Faysal ben Abdel Aziz (1904-1975) gli succede sino al 1975, quando viene assassinato.

Khaled ben Abdel Aziz (1912-1982) regna dal 1975 al 1982, quando muore.

Fahd ben Abdel Aziz (1921 -) è l’attuale regnante dal 1982.

Abdullah ben Abdel Aziz (1923 -) è l’attuale principe ereditario – e re di fatto da quando, nel 1975, Fahd è stato colpito da embolia cerebrale.

Date del regno:

1932    Saud ben Abdel Aziz è proclamato re d’Arabia.          
1944    Viene creata l’Aramco (Arabian-American Oil co.); nel 1972, Ryiad acquista il 25% delle azioni, poi le porta al 60% nel 1974 e infine, nel 1980, acquista il resto.    
1951    Prima base americana a Dharhan.          
1960    Viene fondata l’Opep (Organizzazione paesi esportatori di petrolio) (con Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela).

1973    L’Arabia Saudita dichiara l’embargo contro gli Stati Uniti e altri paesi occidentali perché favorevoli a Israele durante la guerra del Kippur (ottobre 1973)   
1980    Guerra tra Iran e Iraq.   
1990    L’Iraq occupa il Kuwait (agosto 1990-febbraio 1991).  
1994    Ryiad toglie a Osama bin Laden la nazionalità saudita.
1996    Abdullah è nominato principe ereditario.

Dati economici:

120 miliardi di dollari di entrate nel 1981; 50 miliardi nel 2002. Il reddito per abitante da petrolio passa da 24.000 dollari a 2.600 nello spazio di vent’anni (naturalmente, questo è un puro dato statistico, ma è eloquente).

Le riserve petrolifere ammontano a 261 miliardi di barili, pari al 25% di quelle mondiali; le riserve di gas naturale ammontano a 6.000 miliardi di m3, pari al 4% di quelle mondiali. La produzione petrolifera è di 9,1 milioni di barili/giorno, pari al 12,3% di quella mondiale; e la produzione di gas naturale è di 47 miliardi di m3, pari all’1,9% di quella mondiale.

Il pil per abitante (altro dato puramente statistico) era nel 2001 di 6.900 dollari l’anno, per un pil complessivo di 193 miliardi di dollari. Il debito estero, nel 2000, ammontava a 26,3 miliardi di dollari[31].

I rapporti ufficiali con gli Stati Uniti iniziarono nel febbraio 1945, in un incontro tra Roosveelt e il re Abdul Aziz ibn Saud; l’accordo stabilì che in cambio del petrolio gli Usa avrebbero protetto il regno – e chiuso gli occhi sul suo carattere autocratico e medievale. Questo rapporto speciale cominciò ad afflosciarsi col collasso dell’Urss nel 1989, poi con la guerra del Golfo nel 1990-91 – in questo caso per la diffusione di un forte risentimento antioccidentale tra la popolazione e per il giudizio negativo dato dall’Occidente sulla capacità militare dell’Arabia Saudita[32].

Uno dei motivi del deterioramento dei rapporti tra i due paesi (o meglio, tra le loro élites politiche ed economiche) sta nel conflitto israelo-palestinese. Nel 1974, i sauditi chiesero a Nixon di lavorare per la pace in Medio Oriente, ma come si sa gli Usa hanno sempre pencolato dalla parte israeliana. Scrive Eric Rouleau[33] che proprio perché Bush pende troppo dalla parte di Sharon, Abdullah ha preso l’iniziativa di proporre a Israele un totale riconoscimento saudita e dei paesi arabi in cambio dell’applicazione delle risoluzioni dell’Onu sulla Palestina – proposta accettata dalla Lega araba nel marzo 2002, ma ignorata sia da Israele che dagli Usa. Tra la popolazione, tuttavia, pare che cresca il sentimento antiamericano, al punto che “parecchi diplomatici occidentali hanno concluso che l’Arabia Saudita sta rapidamente diventando uno dei paesi del Golfo più antiamericani (e questa) opposizione (popolare) solleva forti rischi per entrambi i paesi; se non controllata, essa può lacerare un’alleanza strategica che dura dalla Seconda guerra mondiale”.

A questo va aggiunta la differenza tra famiglia reale e popolazione. La famiglia reale ha le entrate del petrolio, la popolazione no, o soltanto per ricaduta; la famiglia reale dipende dalla protezione americana, la popolazione è invece ostile agli americani; la famiglia reale vede in bin Laden un nemico, la popolazione tende a vederlo come un eroe. Questo spiega perché, per evitare che la differenza divenga scontro, la famiglia reale ha da lungo tempo favorito le tendenze religiose fondamentaliste ed è ostile a un pensiero islamico progressista. “Minacciata dal nazionalismo arabo che ha portato al rovesciamento di governi in altri paesi della regione, negli anni Cinquanta e Sessanta, l’Arabia Saudita ha concesso asilo politico a migliaia di membri della Fraternità musulmana che fuggivano la repressione in Egitto, Siria e Iraq. Questi uomini portavano una dottrina di Islam politico formulata dal fondatore del movimento, Hassan al-Banna, e sviluppata dal teorico della jihad, Sayed Quib, condannato a morte da Nasser nel 1966”. La loro influenza si estese in Arabia Saudita, iniettando una versione politica dell’Islam in una corrente religiosa che sino ad allora era stata etica e apolitica – con una sotterranea corrente di contestazione della famiglia reale (per la sua politica internazionale) da cui è scaturito bin Laden. Questa stessa corrente è stata diffusa in altri paesi islamici, con aiuti finanziari della famiglia reale – e con l’approvazione degli Usa sinché si trattava di combattere il comunismo. Infatti, “gli islamisti erano generalmente considerati come alleati naturali dell’Occidente, sino all’inizio degli anni Novanta”.

Il punto caldo di questa alleanza fu l’Afghanistan negli anni dell’occupazione sovietica; seguirono la Bosnia, il Kosovo e la Cecenia, come pure lo Yemen del sud – che andava sottratto all’influenza sovietica. Anche i talebani seguirono in questa scia – nella speranza di ottenere un oleodotto che collegasse il Turkmenistan al Pakistan e al mare Persico. E infatti l’Arabia Saudita riconobbe il regime talebano – con la tacita approvazione americana.

Se tutto questo, che scrive Rouleau, corrispondesse a realtà, si spiegherebbe anche lo “stato schizofrenico” dell’Arabia Saudita – dove la modernità lussuosa di edifici, aeroporti, shop­ping-centers, cyber-cafés, si affianca alla proibizione di cinema, teatri, discoteche, concerti; le donne possono anche laurearsi ma non lavorare; la disoccupazione è al 30% (in una popolazione sotto i 25 anni per il 65% del totale) per gli uo­mi­ni e al 95% per le donne, però la massa dei lavoratori importati è enorme; e in cui chi ha soldi li tiene all’estero, non li investe in patria. Economicamente, lo Stato è in difficoltà, con un bilancio in deficit e un debito elevato: 171 miliardi di dollari in debito interno e 35 miliardi in debito estero, per un totale pari al 107% del pil. Il reddito procapite è sceso dai 28.600 dollari del 1981 ai 6.800 del 2001 – e benché si tratti sempre di medie statistiche, il confronto con Abu Dhabi (36.000 dollari) e Qatar (26.000 dollari) è eloquente. La popolazione è aumentata del 4,4% l’anno dal 1980 al 1998, è oggi circa 18 milioni di persone (più 5 o 6 milioni di lavoratori stranieri) e si prospetta a oltre 33 milioni attorno al 2015[34].

Subito dopo l’11 settembre, il principe Abdullah decise di inviare negli Usa 9 milioni di barili per garantire le riserve americane e abbassare il prezzo del greggio da 28 a 20 dollari al barile. Però l’opinione pubblica americana accusa l’Arabia Saudita di aiutare i terroristi e i rapporti con la Casa bian­ca si sono fatti delicati, su almeno quattro punti:

a) la questione del conflitto israelo-palestinese, davanti al quale gli Usa sostengono Sharon anziché adoperarsi per una soluzione pacifica;

b) la presenza militare americana nella base di Saltan, a sud-est di Ryiad, contestata dall’opinione pubblica Saudita;

c) l’instabilità della casa regnante, dove per i prossimi anni si prospetta una rapida successione di regnanti;

d) l’incertezza sulla domanda: “Con noi o contro di noi?” che Bush ha posto come discriminante generale. [35]

Anche il settimanale Time[36] nota un crescente antiamericanismo a sfondo religioso e osserva che sotto diversi aspetti l’Arabia Saudita appare come un paese nemico; ma “l’Arabia Saudita controlla il 30% delle riserve pretrolifere mondiali conosciute. Perciò, per anni, per mantenere le forniture mondiali di greggio, Washington ha chiu­so gli occhi sulle prove che la famiglia regnante permette ai potenti capi religiosi del paese di diffondere l’odio per l’Occidente”. Ma questo è ancora indispensabile? L’ Arabia Saudita fornisce agli Usa soltanto l’8% del petrolio consumato, pari al 15% del petrolio importato – cioè “meno del totale importato dal Canada, Messico e Venezuela; nel 1973, il petrolio importato dall’Arabia Saudita rappresentava il 25% delle importazioni americane. Inoltre, gli Usa possono ricorrere a nuove fonti in Asia centrale e “gli analisti dell’industria petrolifera ritengono che tagliare l’afflusso di petrolio Saudita sarebbe grave – ma non fatale – per l’economia americana”. È per questo che, una volta abbattuto Saddam, gli Usa potranno isolare l’Arabia Saudita – benché si sappia che la monarchia Saudita è un alleato prezioso, “la sola istituzione filo occidentale rimasta in uno Stato fondamentalista che diventa sempre più giovane, più povero e più radicale”. E resta il fatto che l’Arabia Saudita è il centro religioso del mondo islamico.

Ciò che per ora dà ai sauditi una certa presa sugli Usa è che essi sono “il solo produttore in condizione di sostituire milioni di barili/giorno di greggio perduto”[37] – e questo vale soprattutto nel caso in cui la guerra bloccasse temporaneamente le esportazioni irachene, pari a 1,5-2 milioni di barili/giorno, e ancor più nel caso in cui “le forniture di greggio da parte di altri paesi del Golfo fossero ridotte da attacchi terroristici, o da premi assicurativi proibitivi sulle petroliere”. In casi come questi, le riserve americane (592 milioni di barili per 51 giorni di consumo) sarebbero fortemente ridotte e i prezzi salirebbero alle stelle; durante la guerra del 1991, per tre mesi il mercato americano subì un calo di forniture pari a 4,6 milioni di barili/giorno, con un raddoppio dei prezzi; il problema fu risolto soltanto con un forte aumento delle esportazioni saudite – da 5,8 milioni di barili/giorno in agosto a 8,5 milioni in dicembre. Ma proprio questo spinge gli Usa a una maggior “diversità nella produzione petrolifera mondiale (per evitare la sua) concentrazione in una sola regione del mondo” – leggi: Arabia Saudita. 

A questo groviglio di aspetti contrastanti si aggiunge oggi la questione Iraq. La famiglia regnante non può ripetere la stessa adesione del 1990-91 – che tra l’altro le costò circa 60 miliardi di dollari in contributi alla guerra. A quel tempo, occupando il Kuwait l’Iraq minacciava il predominio petrolifero saudita, oggi no; inoltre, aderendo, la famiglia regnante si metterebbe apertamente contro l’opinione pubblica. Però oggi gli Usa potrebbero fare la guerra all’Iraq anche senza l’appoggio esplicito dell’Arabia Saudita, una cosa impensabile nel 1991, e questo significa uno scadimento della casa regnante – che, oltretutto, malgrado una spesa militare calcolata sui 270 miliardi di dollari, dispone di forze scarsamente preparate e non potrebbe da sola fronteggiare una minaccia dall’esterno – metti l’Iran.

Insomma, da un lato è chiaro che il rapporto fra Usa e casa regnante è alle strette e, dall’altro lato, che i due alleati continuano ad aver bisogno l’uno dell’altro. Il Manifesto[38] ricordava che: la famiglia regnante saudita “ha finanziato e armato tutti i movimenti fondamentalisti islamici in giro per il mondo”; ha a lungo regalato ai talebani 150.000 barili di petrolio, cessando soltanto il 24 settembre 2001, su richiesta americana; che nel 1996, a Khobar, periferia di Ryiad, saltò in aria un edificio americano (sede della Cia)  con 19 morti e Ryiad si rifiutò di collaborare nella ricerca dei responsabili; che, nelle indagini sui 15 dirottatori sauditi dell’11 settembre, Ryiad ha rifiutato di collaborare; infine, che, a quanto pare, la Cia non avrebbe più “interlocutori amichevoli nei servizi segreti sauditi”. Si può aggiungere che notoriamente la famiglia regnante (qualcosa come 5 o 6.000 persone) è percorsa da lotte interne; e che essa succhia i proventi del petrolio con “quattro idrovore”: gli acquisti di sistemi d’armi; le commesse per attrezzature petrolifere; gli investimenti nel debito pubblico americano (che per circa il 38% è in mano a creditori esteri); la corruzione dilagante nella famiglia reale.

Su questo rapporto, che non è più alleanza, Business Week[39] scrive che secondo Yussef Ibrahim, esperto di Medio Oriente e consigliere del Council on foreign relations di New York, “stiamo dirigendoci verso un divorzio. (…) Questa è probabilmente un’esagerazione, ma non è più una cosa impensabile”. Il principe Abdullah starebbe cercando di stringere dei “rapporti più saldi” con Russia, Cina e Unione europea, si parla del Pakistan come nuovo “ombrello strategico”, i rapporti con Bagdad non sono affatto interrotti, non si sa quanti miliardi di dollari sauditi siano stati ritirati dagli Usa, ma tutti sanno che gli Stati Uniti potrebbero congelare  600 miliardi esistenti (o esistenti prima) e naturalmente gli investitori sauditi non vogliono correre questo rischio.

A questo bisogna aggiungere che sono fallite le trattative, in corso da un paio d’anni, per un partecipazione angloamericana allo sfruttamento del gas naturale saudita – che resta nazionalizzato. Scrive il Financial Times[40] che alle trattative hanno partecipato la British petroleum, la Conoco, l’Exxon Mobil, la Royal Dutch/Shell, la Total­Fina Elf  e altre grosse società, secondo una linea concepita dal principe Abdullah nel 1998, quando il prezzo al barile di greggio era di circa 10 dollari. La posta consisteva nella concessione di 219 piedi cubici di gas, contro impianti di elettricità, desalinizzazione e petrolchimica per un totale di 25 miliardi di dollari. Ad Abdullah si è opposto il ministro per il Petrolio, Ali al-Naimi, e l’Aramco resta la sola società di sfruttamento.    

E il petrolio? Scrive The Business[41] che “se viene la guerra con l’Iraq, lo scopo di Bush sarà di cambiare il regime a Bagdad. Ma la guerra potrebbe cambiare tutta l’economia del petrolio”; l’Arabia Saudita diminuirebbe di importanza, l’Iran crescerebbe, nell’Opec i rapporti interni sarebbero più difficili e “in breve, il petrolio potrebbe divenire più a buon mercato e più abbondante. La nuova produzione irachena potrebbe diminuire la forte presa che oggi l’Arabia Saudita ha sul mercato mondiale” – e se poi l’Iraq arrivasse a 6 milioni di barili/giorno, contro i 7,1 dei sauditi, la sua influenza sull’Opec e in Medio Oriente diverrebbe decisiva – con l’Iran subito dietro.

Naturalmente, questi sono calcoli avveniristici; però il dato indiscutibile è lo sviluppo della produzione irachena – in mani angloamericane, cioè della Exxon Mobil, della British petroleum, della Royal Dutch/Shell e della Halliburton come fornitrice delle attrezzature necessarie. E si capisce. Secondo la Energy information administration (Eia), le riserve effettive di petrolio iracheno potrebbero arrivare a 220 miliardi di ba­ri­li (oggi quelle conosciute stanno a 112 miliardi, contro i 262 dell’Arabia Saudita); però occorreranno 38 miliardi di dollari per reperire e sfruttare le nuove fonti – cui si aggiungerebbero 4.250 miliardi di m3 di gas, oltre ai 3.100 già accertati. Secondo la Statistical Review della British Petroleum, le attuali risorse petrolifere americane dureranno solo 11 anni, mentre quelle irachene possono durare un secolo – e poiché gli Usa dipendono sempre più dalle importazioni (59% del loro fabbisogno, oggi), avere le mani sul petrolio iracheno sarebbe decisivo. 

Se poi si calcola che il 47% delle importazioni Usa proviene dall’Opec (e il 24% dal Golfo) è ovvio che mettendo le mani sul petrolio iracheno gli Usa potrebbero influire su Opec e Medio Oriente – quindi indirettamente anche su altri paesi produttori, come la Russia, o importatori, come il Giappone.

La Nato

A metà settembre si leggeva[42] che gli Stati Uniti avevano chiesto alla Nato di creare una forza  d’intervento rapido per combattere il terrorismo – forza distinta da quella di 60.000 uomini in preparazione nell'Unione europea, la quale dovrebbe servire per operazioni di peacekeeping. La forza Nato dovrebbe “lavorare con gli Stati Uniti” – cioè praticamente al loro comando. La proposta è venuta mentre diveniva esplicito che gli Usa non intendevano chiedere l’ap­poggio militare della Nato in Iraq[43]; “Non è passato per la testa di nessuno, non l’abbiamo proposto” ha detto Donald Rumsfeld. Questo per due motivi essenziali: gli Usa non vogliono trovarsi di nuovo a discutere ogni singola operazione con un comando Nato composto da diversi paesi, come in Kosovo; il gap operativo tra truppe Nato e truppe Usa è considerevole.

Al vertice Nato di Praga, la proposta americana è stata uno dei punti decisivi circa le nuove funzioni della Nato. Il documento americano che la contiene (soltanto quattro pagine) era arrivato pochi giorni prima; esso propone una Forza di reazione Nato (Frn) di 21.000 uomini capace di “entrare di forza in una zona ostile” e di combattere per un mese circa; con tre tipi di intervento: intervento rapido per rimantenere la pace; funzione di precursione dell’intervento di altre forze Nato a carattere tradizionale; operazioni di evacuazione di cittadini di paesi membri da paesi ostili. L'Frn dovrebbe avere forze terrestri, aeree e navali ed essere impiegabile in un lasso di tempo tra cinque e trenta giorni; essa avrebbe un comando unico, a rotazione; dovrebbe essere operativa entro l’ottobre 2004. Non è chiaro quale sia il suo spazio operativo, che però dovrebbe andare oltre la zona euroatlantica; e non si capisce chi decida le operazioni[44] . 

Il settimanale Time[45] sottolinea i motivi dell’attuale debolezza della Nato. Primo punto: gli Usa spendono 376 miliardi di dollari l’anno per la difesa, pari al 3,5% del pil, mentre tutti i membri europei insieme spendono 120 miliardi, cioè meno del 2% dei pil rispettivi. Secondo punto: le minacce da affrontare non vengono più dall’Europa e non sono di carattere militare tradizionale, vengono da uno spazio geografico che va dall’Africa del Nord sino all’Asia centrale e sono di carattere terrorista. Terzo punto: già in Kosovo la Nato dimostrò la propria debolezza con delle “procedure da guerra-via-comitato” – cioè con un comando troppo complesso e troppo condizionato politicamente. Quarto punto: per spostarsi rapidamente, l'Frn ha bisogno di una flotta di aerei da trasporto – gli Usa ne hanno 340 e la Nato 11 soltanto; inoltre occorre un tipo di armamento che includa la protezione da armi nucleari, biologiche e chimiche, nonché migliori attrezzature di comando, controllo e comunicazione. A questo, il Financial Times[46] aggiunge che “per diversi anni i membri dell’alleanza hanno sviluppato le loro forze militari in direzioni diverse (e) ne risulta che le forze Nato possono essere meno capaci di agire insieme in future operazioni congiunte”. In parole povere: così com’è la Nato serve a poco, per non dire niente.

L’entrata di sette nuovi paesi, decisa al vertice di Praga (si tratta di Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Romania, Bulgaria) è stata salutata dalla stampa come un fatto già superato. Infatti questi paesi avevano chiesto di entrare quando l’appartenenza era uno scudo antirusso; oggi la Russia non è un pericolo e non ci bada nemmeno, anzi, ha già un piede dentro e non è escluso che chieda di entrarci completamente. Perciò la questione chiave sta in una domanda: a che serve la Nato? Cioè un’organizzazione militare del Nordatlantico che vede le due sponde dell’ oceano allontanarsi[47].

Bush ha reso chiaro che gli Usa non chiedono alla Nato di allinearsi in un’azione contro l’Iraq, ma che ci sarà una “coalizione di volontari” e che la decisione di farne parte “deve essere presa da ciascun paese”[48] – che è come dire che gli Usa, membri della Nato, decidono per conto proprio e chiedono poi chi degli altri membri ci sta. Però Bush ha praticamente chiesto una dichiarazione in cui i membri della Nato si dicano pronti a “considerare un loro aiuto ad applicare la risoluzione (dell’Onu), se necessario, o collettivamente o individualmente, qualora venga loro chiesto di farlo”[49]; e intanto gli Usa hanno inviato una richiesta in questo senso a una cinquantina di paesi – chiedendo un’adesione individuale che preceda quella collettiva.

La Nato ha risposto il 21 novembre con un comunicato in cui si legge che i suoi membri “sono nuniti nel loro impegno a intraprendere un’azione efficace per assistere e sostenere gli sforzi dell’Onu tesi ad assicurare una piena e completa adempienza dell’Iraq, senza condizioni o restrizioni, alla Risoluzione n.1441. "Noi ricordiamo che la risoluzione del Consiglio dell’Onu ha avvertito l’Iraq che esso si troverà davanti a conseguenze serie in caso di continuata violazione dei suoi impegni”[50]. Il vertice ha però accettato la proposta di creare un'Frn, capace di intervenire “dovunque sia necessario”, pronta entro il 2004 e operativa entro il 2006; ha poi accettato di rafforzare la sua capacità militare – ma non si sa da dove verranno i soldi; poi: la struttura di comando sarà semplificata (come e in che tempi non si sa); la Nato si adatterà alla lotta contro il terrorismo con una strumentazione adeguata (ma non si sa in quali modi e per quali aree)[51].

Più tardi[52], Wolfowitz, a Bruxelles di ritorno dalla Turchia, ha chiesto alle “nazioni della Nato” (cioè non alla Nato come tale) di “contribuire delle forze per una campagna militare per abbattere Saddam Hussein". Motivo: le esitazioni della Turchia a fornire un “pieno sostegno” tale che gli Stati Uniti possano aprire un fronte settentrionale in Iraq. Non è chiaro che cosa gli Usa chiedano alla Nato: fornire agli americani dei “sistemi militari” come gli Awacs, aiutare nella difesa della Turchia (da chi?); fornire assistenza ad altri paesi coinvolti nel conflitto; partecipare a progetti umanitari nell’Iraq postbellico.



[1] Condoleeza Rice, Promoting national interest, "Foreign Affairs", gennaio-febbraio 2000.

[2] Tradotto e pubblicato su "Liberazione", 10 ottobre 2002.

[3] G. John Ikenberry (docente di geopolitica all’Università di Georgetown), America’s imperial ambition, "Foreign affaire", settembre-ottobre 2002.

[4] Per pre-emptive (che ho tradotto con “prelazione” e “prelativo”), s’intende un intervento militare in anticipo rispetto a quello, ormai dichiarato, dello stato avversario; per “preventive” (preventivo) s’intende invece un intervento che si proponga di sventare una minaccia, ancor prima che essa sia dichiarata.    

[5] Anthony Lewis, Bush and Iraq, "New York Review of Books", 7 novembre 2002.

[6] Andrew Gumbel, Kissinger joins protest at Bush plan to attack Iraq, "The Independent", 17 agosto 2002.

[7] "World News", Iraq policy risky, says Kissinger, in: www.smh.com.au/articles/2002/13/10­29­11­39­29.html.

[8] In: www.rider.edu/phanc/courses/350-web/mideast/iraq/AlbrightVsKissinger.htm.

[9] Henry Kissinger, Il filo da Osama all’Irak, "Los Angeles Time", 5 settembre 2002.

In: www.disinformazione.it/ osamairak.htm.

[10] Strove Talbott, Back towards multilateralism as usual, "International Herald Tribune", 4 dicembre 2002. Talbott è presidente della Brookings Institution ed è stato vicesegretario di Stato con Clinton.

[11] Paul-Marie de la Gorce, Bombarder pour contrôler, Washington a défini sa stratégie, "Le Monde Diplomatique", marzo 2002.

[12] Michael T. Klare, Les trois piliers stratégiques de Washington, "Le Monde Diplomatique", luglio 2002. Klare è docente all’Università di Hampshire.

[13] Carola Hogos, US finds few friends willing to share war burden, "Financial Times", 15 dicembre 2002. L'"Herald Tribune" del 2 dicembre 2002 fornisce dei dati diversi: la guerra del Golfo sarebbe costata 80 miliardi di dollari e gli Usa ne avrebbero pagati soltanto 7.

[14] Michael Dobbs, Bill for Iraq war would far exceed 1991 Gulf conflict, "International Herald Tribune", 2 dicembre 2002. Un editoriale del "Washington Post" del 5 dicembre 2002 ricorda che Lawrence Lindsey, consigliere economico di Bush, aveva calcolato in settembre che la guerra poteva costare da 100 a 200 miliardi di dollari, a seconda della durata dell’occupazione. Questa cifra ammonterebbe soltanto all’1-2% del pil, però potrebbe raddoppiare il deficit di bilancio, che nel 2001 fu di 159 miliardi di dollari.

[15] Thomas E. Ricks, Blueprint for Iraq – tight, intense attack, "International Herald Tribune", 23 settembre 2002.

[16] Peter Spiegel, Pentagon leadership wins battle for big US ground force, "Financial Times", 11 novembre 2002.

[17] "Le Monde", 13 dicembre 2002.

[18] Peter Spiegel, The battle of Baghdad: is the US ready to wage war street by street?, "Financial Times", 22 novembre 2002.

[19] Thomas E. Ricks, Skirting Baghdad trap, "International Herald Tribune", 11 novembre 2002.

[20] Informazioni raccolte da: "Le Figaro", 15 febbraio 2002; "Le Monde", 11 settembre 2002; "New York Times", 29 aprile 2002.

[21] Mike Allen, Washington is ready to use A-arms in a biowar, "International herald Tribune", 12 dicembre 2002.

[22] Hervé Kempt, “Mininuke", la bombe secrète, "Le Monde", 21 novembre 2002.

[23] Patrick Jarreau, Le Pentagone énonce les cas d’utilisation de l’arme nucléaire, "Le Monde", 13 marzo 2002.

[24] Iraq-Kosovo, rapporto sulla contaminazione radioattiva provocata dalle armi ad uranio impoverito, in: www.benjaminforiraq.org/embargo/Rapporto%20per20Parlamento.htm.

[25] Michae Klare, Les vrais desseins de M. George Bush, "Le Monde Diplomatique", novembre 2002.

[26] Michael Klare, The new geography of conflict, "Foreign Affairs", maggio-giugno 2001.

[27] Michael Brenner, Blood and oil alternatives to war in Iraq, "Worldwatch Institute", 22 novembre 2002, in: www.globalpolicy.org/security/oil/2022/1122worldwatch. htm.

[28] Il rapporto ricorda che Donald Rumsfeld incontrò ufficialmente Saddam Hussein nel dicembre 1983, cioè in piena guerra Iraq-Iran – e riaprì i rapporti diplomatici interrotti da 17 anni.

[29] In proposito vedi anche: James A. Paul, Iraq, the struggle for oil, agosto 2002, in: www.globalpo­li­cy.org/security/oil/2002/08jim.htm.

[31] Informazioni riprese da "Le Monde", 4 marzo 2002.

[32] Robin Allen, Gulf betwwen friends, "Financial Time", 9 novembre 2002.

[33] Eric Rouleau, Trouble in the Kingdom, "Foreign Affairs", luglio-agosto 2002. Rouleau è stato ambasciatore francese in Tunisia e in Turchia.

[34] David B. Ottaway, Amid already fraying ties, new Saudi-U.S. tensions loom, "International Herald Tribune", 13 dicembre 2002.

[35] Idem.

[36] Romesh Ratnesar, Does the U.S. need the Saudis?, "Time", 5 agosto 2002.

[37] Jeff Gerth, Saudi oil keeps leash tight as ever on U.S., "International Herald Tribune", 27 novembre 2002.

[38] Marco D’Eramo, Il nodo scorsoio di Rijad, "Il Manifesto", 25 novembre 2002.

[39] John Rossant, A Saudi-U.S. divorce?, "Business Week", 9 settembre 2002.

[40] Robin Allen, Attention  may turn elsewhere, "Financial Times", 20 novembre 2002.

[41] Neil King, If Saddam goes, oil flows, Saudis lose, "The Business", 22 settembre 2002. L’articolo è ripreso dal "Wall Street Journal".

[42] Elaine Sciolinoiì, NATO role in terror war, "International Herald Tribune", 19 settembre 2002.

[43] Bradley Grahan, U.S. cold-shoulders NATO in planning for attack on Irak, "International He­rald Tribune", 24 settembre 2002.

[44] Laurent Zecchini, La création d’une force de réaction rapide reçoit un accueil positif de l’Alliance atlantique, "Le Monde", 26 settembre 2002.

[45] James Graff, What’s NATO for?, "Time", 25 novembre 2002.

[46] Judy Dempsey, If Bush does not make clear that NATO can be involved in critical issues, the alliance will atrophy, "Financial Times", 20 novembre 2002.

[47] Charles Kupchan, The last days of the Atlantic alliance, "Financial Times", 18 novembre 2002.

[48] Lac de Barochez, Bush bat le rappel de ses alliés contre l’Irak, "Le Figaro", 21 novembre 2002.

[49] Bush urges the allies to help disarm Iraq, "International Herald Tribune", 22 novembre 2002.

[50] Joseph Fitchett, NATO opens door to 7 more nations, "International Herald Tribune", 22 novembre 2002.

[51] Pierre Bocev, L’Alliance s’adapte à la lutte antiterroriste, "Le Figaro", 22 novembre 2002.

[52] Michael R. Gordon, U.S. seeks NATO’s aid in fighting Saddam, "International Herald Tribune", 5 dicembre 2002.