Notizie Internazionali n.73/74
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi

I G8 a Genova

Come già facemmo per Seattle1 in questo dossier ci occupiamo specialmente della problematica che si presentava ai Grandi riuniti a Genova – e di come essi l’hanno affrontata – nel tentativo di cogliere la logica di queste riunioni. Quanto al movimento, di cui non è necessario sottolineare l’importanza, cerchiamo di fornire delle informazioni e dei commenti (che suggeriscono un interesse talvolta sorprendente) come contributo a una riflessione che ci pare necessaria e urgente2.

 Prima

Ciò che colpisce nei discorsi che si facevano prima del G8 era l’accento posto in modo insistente sul tema della povertà nel mondo. Scriveva ad esempio Mike Moore, direttore dell’Omc3: «È chiaro che se i paesi in via di sviluppo devono spogliarsi della loro povertà bisogna fare di più per la rimozione delle barriere poste alle loro esportazioni. Non ha senso spendere altri miliardi di dollari per alleviare il debito se poi la capacità dei paesi poveri di ridurre il peso del debito viene bloccata da barriere alle loro esportazioni. Né ha senso dedicare miliardi in aiuti all’istruzione e alle infrastrutture se poi i prodotti che vengono da questi investimenti non possono essere piazzati sul mercato». Discorso che Moore completava rivolgendosi agli antiglobalizzazione: «Imprecare affermando che la globalizzazione è imposta ai paesi in via di sviluppo danneggia la causa dello sviluppo. Il vero pericolo va nel senso contrario, e cioè che la globalizzazione ignori molti di questi paesi, a meno che essi non siano pienamente integrati nell’economia globale». È una tesi discutibile, ma indicava il tema dominante nei discorsi recenti dei Grandi, e indicava una soluzione di non poco conto: importare di più dai paesi in via di sviluppo.

A poco più di un anno di distanza da questo fervorino, Le Figaro4 scriveva che la terza conferenza dell’Onu per i Pma (Paesi meno avanzati – secondo l’eufemistica ufficiale) si era conclusa a Bruxelles senza alcun risultato. L’Unione europea aveva proposto di ridurre la povertà dei Pma permettendo loro di esportare sui mercati occidentali e il commissario europeo al Commercio, Pascal Lamy, aveva proposto un’iniziativa già adottata dai paesi europei, e cioè «l’annullamento dei diritti doganali dei paesi ricchi per le esportazioni dai Pma, la riduzione delle barriere non tariffarie (in particolare le norme sanitarie), come pure un incoraggiamento tecnico per l’adesione di questi paesi all’Omc». Non se ne è fatto niente perché Stati Uniti, Canada e Giappone hanno respinto la proposta – e ne parlerà di nuovo alla Conferenza interministeriale dell’Omc, che si terrà in novembre a Doha, nel Qatar.

Commentava il quotidiano che l’amministrazione Bush ha così dimostrato che «preferisce concentrare il suo aiuto ai paesi poveri su iniziative private di imprese americane, o eventualmente su dei programmi finanziari di alleviamento del debito, piuttosto che gonfiare il deficit commerciale americano, che è già profondo»; e osservava un funzionario della Commissione europea che in effetti rinunciare alla politica antidumping, che blocca i prodotti a basso costo o sottocosto, significa rimettere in discussione l’equilibrio commerciale dei paesi ricchi – e non se ne parla nemmeno. Perciò, sarà vero che la povertà estrema, cioè la miseria nera, tocca oggi 600 milioni di persone in 49 Pma – stando alle cifre avanzate dal quotidiano, e sarà vero anche che la conferenza ha assunto ben sette impegni mirati a «ridurre della metà il numero di persone in povertà estrema e alla fame, entro il 2015», ma per ora il solo passo concreto è stato di «scollegare gli aiuti» – cioè di abolire l’obbligo di importare soltanto dal paese da cui provengono gli aiuti. Per il resto, «niente abolizione delle tariffe doganali, niente apertura dei mercati agricoli, niente armonizzazione delle norme sanitarie, niente progressi significativi sull’alleggerimento del debito di 150 miliardi di dollari contratto dai paesi poveri». Anzi, i paesi partecipanti hanno rifiutato di impegnare in aiuti lo 0,70% del loro pil, preferendo lo 0,15%.

Ciò che ci fa ghignare non è questo nulla di fatto – è un discorso complesso e non ci mettiamo bocca; sono i paroloni che lo hanno preceduto e seguìto. Sì, perché nessuno dei Grandi rinuncia a drappeggiarsi di paroloni e ad alzare gli occhi al cielo davanti a chi crepa di fame – continuando a non concludere nulla. Lo dice anche un editoriale del Financial Times5; nessuno si sorprende davanti al movimento di protesta antiglobalizzazione, «ma dovremmo tutti allarmarci quando i dirigenti politici cominciano ad adottare le tattiche della protesta, con degli slogan fasulli (bogus sloganeering) al posto di argomenti logici sull’assistenza ai paesi più poveri». Il quotidiano si riferisce a un’idea lanciata da Bush alla vigilia di Genova: più donazioni (grants) e meno prestiti (loans). Secondo questa idea, l’International development association (Ida), della Banca mondiale, dovrebbe cambiare in donazioni circa la metà dei 6 miliardi di dollari che passa ogni anno ai paesi più poveri. Già, dice il quortidiano, ma Bush sa che i prestiti dell’Ida sono a interesse zero, e possono essere ripagati anche dopo una pausa di 10 anni; però il 40% di questi prestiti si basa sui rimborsi. Perciò, l’idea di Bush porterebbe a prosciugare questi fondi e comunque potrebbe cominciare a funzionare fra 10 anni, «quando Mr. Bush non sarà più alla Casa Bianca». Inoltre, «se Mr. Bush fosse davvero impegnato ad aumentare il flusso delle donazioni, egli dovrebbe dare un’occhiata al bilancio del suo paese. Gli Stati Uniti spendono in aiuti soltanto lo 0,1% del loro reddito nazionale, ma Bush non ha preso alcun impegno su questo punto, né un impegno qualsiasi in fatto di finanziamenti all’Ida. Per quanto lo riguarda, si tratta di all gain and no pain (tutto guadagno niente fatica).

Anche un editoriale dell’Herald Tribune6 ribadisce questo punto. Quando Bush dichiara che il vertice di Genova si concentrerà sulla miseria nel mondo, questo corrisponde a un conservatorismo compassionevole (compassionate conservatism) che gli fa dire: «Un mondo in cui alcuni vivono negli agi e nella ricchezza mentre metà della razza umana vive con meno di 2 dollari al giorno non è né giusto né stabile». Se fosse proprio così, osserva il quotidiano, Bush dovrebbe correggere il fatto che per gli aiuti il bilancio americano stanzia «la percentuale più bassa tra i 22 paesi dell’Ocse e molto più bassa dello 0,8% che gli Stati Uniti davano nel 1960. Nel bilancio di quest’anno, l’amministrazione Bush non ha fatto niente per correggere questo fatto». Forse Bush ha ragione quando propone di passare dai prestiti alle donazioni, ma per aumentare le donazioni della Banca mondiale bisogna sborsare soldi – e nessuno è lì pronto a buttarsi.

La stessa cosa vale per la lotta all’aids – altro tema di chiacchiere gonfie; l’amministrazione Bush ha sbandierato il suo contributo a un fondo mondiale – per ben 200 milioni di dollari, pari a 70 centesimi per ogni americano. È vero che gli Stati Uniti danno sul miliardo di dollari l’anno per la lotta all’aids attraverso altri canali, «ma si calcola che lo sforzo globale contro l’aids dovrebbe ammontare a qualcosa tra i 7 e i 10 miliardi di dollari l’anno (e) se gli Stati Uniti, che contano per circa un quarto del prodotto mondiale, volessero fornire una percentuale adeguata dovrebbero raddoppiare la spesa attuale». Il punto che gli Stati Uniti sottolineano è che la liberalizzazione del commercio è l’arma più potente contro la povertà, ma neanche questo sarebbe sufficiente: «la Banca mondiale calcola che anche eliminando tutte le barriere doganali dei paesi ricchi sulle merci provenienti da paesi dell’Africa subsahariana, il reddito di questa zona aumenterebbe di 2,5 miliardi l’anno – un incremento importante ma non abbastanza da essere una cura effettiva contro la povertà. Inoltre, un trade round globale non partirà mai a meno che l’amministrazione non sia disposta ad ammorbidire le leggi attuali antidumping».

Ancora. Ricorda l’Herald Tribune7 che il cosiddetto shadow Group of Eight – di cui fanno parte Kissinger, Paul Volcker, ex presidente della Federal reserve, Renato Ruggiero, Robert Zoellick, rappresentante americano al Commercio, Heizo Takenaka, ministro giapponese dell’Economia, in una sua G-8 preparatory conference aveva chiesto ai G8 di ammettere alle loro discussioni sull’economia mondiale anche dei rappresentanti della Cina, del Brasile e dell’India – come voci di paesi bisognosi di sviluppo, supponiamo. Esso aveva inoltre chiesto che il vertice di Genova impegnasse sui 10 miliardi di dollari l’anno per combattere l’aids, la malaria e la tubercolosi. Quanto al primo punto, il ministro Ruggiero ha auspicato una riunione con rappresentanti del Sudafrica, Mali, Bangladesh, Nigeria e Salvador, nonché con Kofi Annan e i capi della Banca mondiale e dell’Omc; presenza che è poi stata sbandierata – senza dire che si è trattato di un invito a cena. Quanto al secondo punto, vedremo più avanti le dichiarazioni e gli impegni ufficiali.

Insomma, la stampa ha unanimemente ripetuto che da Genova non è uscito niente – o ben poco. E non a torto. Notava sempre l’Herald Tribune8 che alla riunione di Roma che ha preceduto il vertice di Genova, i ministri degli Esteri «non sono riusciti ad accordarsi su questioni vitali, come il controllo della pace in Medio Oriente, il conflitto in Macedonia, e il controverso programma di scudo spaziale dell’amministrazione Bush» – per non parlare del protocollo di Kyoto. Osservava Le Monde9 che alla riunione dei ministri delle Finanze, che ha preceduto Genova, ci si è molto preoccupati della debolezza dell’economia mondiale – e secondo il quotidiano la sola cosa che ne sia uscita è un «ottimismo prudente». Scriveva un commentatore autorevole10 che «oggi esistono pochi meccanismi per gestire la globalizzazione. La cooperazione tra governi aumenta ma è ancora diseguale. Viviamo in un’economia mondiale ma non ci sono istituzioni che possano regolare e stabilizzare questa economia. Ad esempio, titoli e azioni sono scambiate in tutto il mondo 24 ore al giorno, ma non esiste niente di analogo a una Securities and exchange commission per regolamentare la cosa. Alimentari e medicinali sono commercializzati liberamente, ma non c’è alcun ente globale che ne garantisca gli standard di sicurezza». Però, continua il commentatore, almeno due questioni esigono di essere affrontate. Una riguarda il pericolo di recessione globale. «Come minimo, i G8 devono assicurarsi che le loro politiche in fatto di tassi d’interesse, monete, problemi delle banche e del lavoro possano produrre collettivamente un incitamento economico sufficiente». La seconda è che «i G8 devono affrontare il crescente vuoto tra paesi ricchi e paesi poveri. Ciò significa alleviare il debito, aumentare gli aiuti umanitari, combattere malattie come l’aids, contribuire a formare dei sistemi sanitari fondamentali nei paesi poveri».

Per dirla in una parola, ciò che esige la situazione mondiale – e non soltanto una colonialistica compassion verso i paesi più poveri; ciò che i Grandi dovrebbero fornire per giustificare le proprie pretese è di considerare il mondo come uno spazio di vita – e non come una preda per il più forte e il più furbo; non un’utopia, ma una necessità.

Durante

Per sapere – e giudicare – quanto sia stato discusso e concluso a Genova disponiamo di quattro documenti ufficiali: un documento di proposta dell’Italia dal titolo «Beyond debt relief»11; le conclusioni ufficiali della riunione dei ministri degli Esteri a Roma12; il rapporto dei ministri delle Finanze dei G7 ai capi di Stato e governo13 e le conclusioni del vertice14. Diciamo subito che si tratta di quel linguaggio diplomatico, ovattato e carico di sensi impliciti, che i comuni mortali come noi dovrebbero farsi tradurre da degli esperti. Perciò omettiamo il documento dei ministri delle Finanze – che è di una lunghezza chilometrica – e citiamo dagli altri i passaggi che ci sembrano più comprensibili.

Come abbiamo detto, il tema centrale è il debito e il suo alleviamento. Lo sottolinea il documento del governo italiano, fondato sulla convinzione che «la crisi del debito estero sia già stata sostanzialmente risolta grazie ai successi della iniziativa Hipc15, rivolta ai 40 paesi più poveri con alto indebitamento, lanciata nel 1999 al summit dei G8 di Colonia; si tratta quindi di rafforzare la posizione dei paesi che hanno beneficiato della riduzione del debito e di dare un’opportunità a tutti i paesi poveri, anche a quelli che non hanno problemi di indebitamento, di accelerare il loro sviluppo e ridurre il divario rispetto alle economie più avanzate». Qua il documento propone tre punti: la liberalizzazione dei prodotti dei paesi poveri sui mercati ricchi; più investimenti stranieri e trasferimenti di tecnologia; creazione di due fondi fiduciari, uno per la salute e l’altro per l’istruzione, alimentati da donazioni e gestiti dalla Banca mondiale.

Il perno della questione è la «liberalizzazione del commercio mondiale (...) motore della crescita economica e della riduzione della povertà»; e «la marginalizzazione dei paesi meno sviluppati nei mercati mondiali può essere superata attraverso il loro impegno a una maggiore apertura delle economie, la diversificazione della produzione e la modifica della struttura delle esportazioni». Che significa? La risposta, ci sembra, si trova nel paragrafo seguente: «Il documento ricorda che, mentre la globalizzazione e la liberalizzazione hanno determinato un grande aumento dei flussi di investimenti esteri privati a livello mondiale, i paesi meno sviluppati restano sostanzialmente esclusi da questo processo, ricevendo nel 1999 solo lo 0,5% degli investimenti totali. Per il governo italiano i paesi poveri devono fare il massimo sforzo per adottare le giuste politiche per attirare gli investimenti stranieri. Il documento propone che gli organismi internazionali, superando il fallimento dell’Accordo multilaterale sugli investimenti (Mai), stabiliscano una serie di requisiti minimi che i paesi meno sviluppati dovrebbero garantire su base volontaria per creare un clima favorevole agli investimenti stranieri (protezione degli investitori, difesa dei diritti di proprietà intellettuale, adeguamento degli standard contabili, politiche di competizione interna, incentivi fiscali ecc.)». Se non avete capito – e non ci vuole molto – il documento aggiunge che «la principale proposta riguarda la costituzione di un fondo fiduciario per la salute di 1 miliardo di dollari, creato con i contributi al 50% dei governi dei G7 e delle 1.000 maggiori società multinazionali, e gestito dalla Banca mondiale in collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità. L’obiettivo sarebbe la creazione di un Servizio multilaterale per la salute, in grado di fornire vaccini e trattamenti preventivi e curativi a prezzi più accessibili per i paesi poveri».

Il documento dei ministri degli Esteri non tratta specificamente della povertà, ma di una serie di questioni internazionali sotto il titolo «Sfide globali alla pace e alla sicurezza», premettendo che «noi consideriamo il nostro impegno alla prevenzione dei conflitti come un elemento indispensabile nelle nostre azioni e iniziative internazionali. Benché la responsabilità principale di evitare i conflitti riguardi i paesi direttamente coinvolti, noi continueremo ad adoperarci per un’azione efficace da parte della comunità internazionale, anzitutto da parte dell’Onu, di prevenzione dei conflitti». Segue una fila di temi, a cominciare dal «disarmo, non proliferazione e controllo degli armamenti» – nel quale leggiamo: «noi salutiamo gli sforzi per rafforzare il controllo internazionale degli armamenti e il regime di non proliferazione e riaffermiamo la nostra determinazione a promuovere la dimensione universale dei trattati fondamentali riguardanti le armi di distruzione di massa. Salutiamo la disponibilità di Russia e Stati Uniti a continuare in una forte riduzione dei loro arsenali strategici offensivi e di rafforzare la stabilità strategica». Magari con lo scudo spaziale – che, si sa, è soltanto difensivo.

Si legge poi, più avanti, che i G8 sono «preoccupati dal flagello dell’uso indiscriminato delle mine antipersonale che hanno colpito tanti civili innocenti in tutto il mondo, nonché dalla dimensione delle scorte di mine di terra»; perciò i G8 s’impegnano nello «sgombro delle mine, sminamento umanitario, assistenza alle vittime e sviluppo di tecnologie per una mine action, che lasciamo a voi di tradurre adeguatamente. Non si parla invece di smetterla di produrre e vendere mine antipersonale, anche perché gli Usa si oppongono. Segue poi un lungo elenco di «crisi regionali» – dai Balcani a Cipro, all’Iraq (cui si chiede di «non costituire di nuovo una minaccia per la pace e la stabilità nella regione»), all’Afghanistan, all’Indonesia, a Timor Est, alla Colombia e a varie parti dell’Africa. E, se tutto si è davvero limitato a questo non capiamo la necessità di un summit come questo.

Infine, il documento dei Grandi, nel quale il primo punto è «un approccio strategico per la riduzione della povertà» al grido: «Siamo decisi a far sì che la globalizzazione funzioni a vantaggio di tutti i nostri cittadini e specialmente per i poveri del mondo. Attirare i paesi più poveri nell’economia globale è il modo più sicuro di rispondere alle loro aspirazioni fondamentali», con l’avvertimento che «la situazione in molti paesi in via di sviluppo – specialmente in Africa – esige un’azione globale decisiva». Perciò il paragrafo 5 recita: «Continueremo a fornire un’efficace assistenza allo sviluppo per sostenere gli sforzi dei paesi in via di sviluppo, per formare una prosperità a lungo termine (e) nell’interesse comune di donatori e destinatari di aiuti garantiremo l’uso efficiente delle risorse scarse».

I passi effettuati sinora in fatto di riduzione del debito vanno benissimo – e non vengono quindi presi ulteriori impegni; occorre naturalmente che «i paesi colpiti da conflitti voltino le spalle alla violenza» – che è sempre un consiglio efficace; e quanto ai modi di entrare nell’economia globale il paragrafo 11 dice: «Benché l’apertura dei mercati attraverso negoziati globali fornisca ai paesi in via di sviluppo il maggior beneficio economico, noi approviamo pienamente i provvedimenti già assunti per migliorare l’accesso al mercato a favore dei paesi meno sviluppati16, come “tutto meno che le armi”, Generalised preferences e tutte le altre iniziative mirate allo stesso obiettivo. Confermiamo il nostro impegno, assunto alla Terza conferenza degli Ldc di lavorare per un accesso duty-free e quota-free di tutti i prodotti provenienti dai paesi meno sviluppati». Si tratta delle proposte dell’Unione europea di cui abbiamo già parlato, perciò si tratta di chiarire se Bush ha cambiato idea, se si tratta ancora una volta di una promessa senza reali impegni, o che cosa altro.

Sempre riguardo ai modi di entrare nell’economia globale, il criterio è chiaro. Il paragrafo 13 recita: «Maggiori investimenti del settore privato sono essenziali per produrre sviluppo economico, aumentare la produttività ed elevare i livelli di vita. Per aiutare i paesi in via di sviluppo a migliorare le condizioni per investimenti privati (...) chiediamo alla Banca mondiale di sostenere ancor di più i programmi che promuovono lo sviluppo del settore privato nei paesi più poveri. Per promuovere ulteriori investimenti nell’economia a base tecnologica, chiediamo all’Omc e alla World intellectual property rights organisation, in collaborazione con la Banca mondiale, di aiutare i paesi più poveri ad adeguarsi alle norme internazionali sui diritti di proprietà intellettuale». Che sono tutti di privati in paesi ricchi.

Naturalmente lo sviluppo economico si collega a diverse condizioni, tra cui la sanità e l’istruzione – e il documento ne parla ampiamente. Anzitutto, l’impegno di creare un Fondo contro l’aids, in risposta all’appello di Kofi Annan – per ben 1,3 miliardi di dollari e con la promessa di «lavorare con il settore farmaceutico e con i paesi colpiti per facilitare la più ampia possibile fornitura di medicinali in una misura sostenibile e medicalmente efficace (e affermando nel contempo) l’impegno a una forte ed efficiente protezione dei diritti di proprietà intellettuale nella ricerca e sviluppo di medicinali salvavita». È stata la sola decisione concreta e immediata del vertice – e il Financial Times17 ha rilevato un commento di Kofi Annan: quella somma è «un buon inizio (ma) per la lotta contro le malattie nel mondo occorre molto di più. Ci vogliono risorse tra i 7 e 10 miliardi di dollari». Inoltre, sempre il quotidiano rileva che non c’è accordo su come amministrare quei fondi, specialmente sull’acquisto di medicinali. Gli europei vorrebbero un sistema grazie al quale i prezzi di vendita siano molto inferiori a quelli correnti nei paesi ricchi; gli Stati Uniti, invece, «si preoccupano che non siano colpiti i diritti di brevetto delle società farmaceutiche e pensano che si dovrebbe lasciare a queste società decidere le loro politiche dei prezzi». Ci siamo capiti.

Poi viene il nutrimento, e qua il documento osserva che «oltre 800 milioni di persone restano gravemente sottonutrite, compresi 250 milioni di bambini. Perciò obiettivi centrali della nostra strategia di riduzione della povertà restano l’accesso ad adeguate forniture di cibo e lo sviluppo agricolo» – e questo si può ottenere tenendo conto che «tra altre cose, l’introduzione di nuova tecnologia, verificata e comprovata, compresa la biotecnologia, in modi sicuri e adattati alle condizioni locali, ha un potenziale significativo di aumento dei raccolti nei paesi in via di sviluppo, con meno pesticidi e meno acqua dei metodi convenzionali. Siamo impegnati a studiare, condividere e facilitare l’uso responsabile di biotecnologia nell’affrontare le necessità dello sviluppo». E, ricordando i diritti di proprietà intellettuale e che nessuno sa bene chi e come decide le formule biotecnologiche, qua potete spaziare.

Infine, l’ambiente. Il documento ammette che «il mutamento climatico è una questione pressante che esige soluzioni globali», perciò i Grandi sono decisi a «soddisfare i nostri impegni nazionali e i nostri obblighi davanti alla Framework convention on climate change dell’Onu, grazie a mezzi flessibili e attingendo al potere dei mercati e della tecnologia» – che è come dire che tutto dipende dal mercato. Bisogna ridurre le emissioni di gas a effetto serra, continua il documento – ed è vero che «c’è disaccordo sul Protocollo di Kyoto e sulla sua ratifica, (ma) siamo impegnati a lavorare intensamente e insieme per raggiungere il nostro obiettivo comune» – senza garantire niente, beninteso.

Lasciamo perdere diverse altre cose – la sicurezza alimentare, l’occupazione e così via – e vediamo il pistolotto finale. «Siamo grati ai cittadini di Genova – esso dice – per la loro ospitalità, e deploriamo la violenza, la perdita di una vita, e il vandalismo irrazionale che essi hanno dovuto subire. Noi manterremo il nostro dialogo attivo e fruttuoso con i paesi in via di sviluppo e altri interessati. E difenderemo il diritto di chi protesta pacificamente di farsi udire. Ma in quanto leader democratici, non possiamo accettare che una minoranza violenta possa scompigliare le nostre discussioni su questioni critiche che riguardano il mondo. Il nostro lavoro continuerà.» Che, a pensarci bene, è un’affermazione perlomeno ridicola.

Insomma, secondo il Financial Times18 sono stati discussi questi dieci punti:

- affrontare la povertà, specialmente in Africa, per «far funzionare la globalizzazione»;

- creazione di un fondo di 1,3 miliardi di dollari per combattere l’aids, la tbc e la malaria;

- piano di sviluppo per l’Africa, con un prossimo forum di dirigenti africani;           

- incrementare la riduzione del debito dei paesi più poveri;       

- accordo sulla riduzione dei gas a effetto serra, ma ancora disaccordo sul Protocollo di Kyoto; su proposta russa si terrà una conferenza internazionale nel 2003;        

- d’accordo sul fatto che il rallentamento dell’economia mondiale è peggiore del previsto, però restano solide basi per la ripresa;

- progettato un piano per colmare il «vuoto digitale» tra paesi ricchi e paesi poveri; 

- pressioni su israeliani e palestinesi affinché accettino degli osservatori internazionali;

- consigliata la moderazione alle comunità macedoni;       

- accordo di tenere la prossima riunione sulle Montagne rocciose.

Vedremo più avanti i commenti della stampa internazionale.

In movimento

Non riprenderemo la maggior parte dei commenti della stampa straniera sui fatti di Genova perché in pratica ripetono ciò che è stato ampiamente trattato dalla stampa italiana. Va però sottolineato che i fatti sono stati ampiamente riportati da una serie di quotidiani autorevoli, che hanno anche, spesso, criticato la reazione della polizia e le misure adottate dal governo italiano: Le Monde, Libération, Le Figaro, El Paìs, El Mundo, Frankfurter Rundschau, Die Welt, The Guardian, The Indipendent, Daily Telegraph, Financial Times, Herald Tribune – tanto per nominare i più importanti. Ci limitiamo a due commenti di Le Figaro, che ci sembrano significativi. Il primo19 riporta un’osservazione di Bernard Cassen, presidente di Attac francese, che si dice «convinto anche lui che i black bloc sono manipolati. Hanno percorso delle grandi distanze, hanno sparso il terrore nella città, senza assolutamente alcun intervento della polizia. Il loro obiettivo era di discreditare una protesta legittima e pacifica, di spezzare un movimento che sta prendendo una dimensione enorme». Cassen non è il solo a pensarlo. Il secondo commento20 dice che «a meno di una risposta chiara e di sanzioni all’altezza degli errori fatti, l’Italia rischia di subire a lungo la condanna del resto dell’Europa. Il capo della diplomazia, Renato Ruggiero, afferma che nessun governo europeo ha presentato delle proteste ufficiali, ma Bonn e Londra non hanno nascosto la loro irritazione e misureranno la loro risposta in base alla risposta inviata da Roma» – che è semplicemente una constatazione di fatto.

Ci interessano invece due aspetti: anzitutto lo sviluppo di un movimento che a Seattle – nel dicembre del 1999, bisogna ricordarlo – apparve di sorpresa e che ha poi continuato a manifestarsi; poi la composizione di questo movimento. Vediamo le date21:

Seattle, 3 dicembre 1999 contro l’assemblea dell’OMC: 40.000 manifestanti, incidenti, stato di emergenza decretato dalla polizia, ma niente di eccezionale (almeno a giudicare da oggi);  

Davos, 20 gennaio 2000, contro l’annuale riunione dei Grandi: incidenti minori;            Washington, 16 aprile 2000, contro la riunione dell’Fmi e della Banca mondiale: 6.000 manifestanti e praticamente nessun incidente;

Ginevra, 25 giugno 2000, contro un vertice dell’Onu: migliaia di manifestanti, calma assoluta;

Praga, 26 settembre 2000, contro un’altra riunione dell’Fmi e della Banca mondiale:  10.000 manifestanti, un centinaio di feriti e molti arresti;

Nizza, 6-7 dicembre 2000, contro un vertice dell’Unione europea: 50.000 manifestanti, feriti e arresti;  

Zurigo, 27 gennaio 2001, contro il Forum economico mondiale: migliaia di manifestanti, incidenti con la polizia, un centinaio di arresti;

Québec, 22 aprile 2001, contro la creazione di una zona di libero scambio su tutta l’America: 50.000 manifestanti, una ventina di poliziotti feriti;  

Göteborg, 15 giugno 2001, contro un vertice dell’Unione europea: 40.000 manifestanti, è la prima volta che si parla di casseurs, la polizia spara, 3 feriti gravi;       

Barcellona, contro una riunione della Banca mondiale, che viene annullata: 10.000 manifestanti, una trentina di feriti e una ventina di arresti; 

Salisburgo, 1° luglio 2001, contro un forum economico europeo: scontri tra polizia e un centinaio di manifestanti, alcuni arresti e feriti.

In questo elenco manca la manifestazione forse più significativa, quella di Porto Alegre, dal 25 al 30 gennaio 2001: 15.000 persone, il primo tentativo serio di dire non soltanto no, ma anche sì e a che cosa. Città con un comune di sinistra, nessun incidente. Ma più che commentare su queste manifestazioni bisognerebbe interrogarsi su diversi punti: come si sia formato questo movimento «globale» del tutto nuovo; chi lo compone; quale ne siano la logica e le contraddizioni; come può svilupparsi una protesta non soltanto pacifica, ma anche (e specialmente) mirata; che effetti può avere questa protesta sulla politica dei Grandi. Questioni cui, ovviamente, non possiamo nemmeno tentare di rispondere in questa sede.

Sulla questione della composizione del movimento possiamo citare tre fonti. La prima viene da Le Monde22 – che parla di tre tipi di formazioni. Il primo tipo è composto dai movimenti sociali che, almeno a Genova, raggruppavano anche le Ong – e il quotidiano elenca Attac-Italie, Mani tese, Legambiente, Tavola della pace, organizzazioni dell’Arci, le Tute bianche e dei gruppi di altri paesi europei. Il secondo è diretto specificamente contro il debito mondiale ed è raccolto in Sdebitarsi, cioè in una serie di gruppi puntati contro il debito mondiale, di origine religiosa e laica, tra cui Drop the Debt, dal mondo anglosassone, Jubilee South, dai paesi in via di sviluppo; la Rete Lilliput, di tendenza cattolica; e altri gruppi come Fifty years is enough! e Halifax initiative. Infine i sindacati – che a Genova erano rappresentati dai Cobas, dai Cub, dalla Fiom – ma con partecipazioni indirette di sindacati tedeschi, della Cut brasiliana, di Via Campesina.

Le Figaro23 attira l’attenzione sulla partecipazione del mondo cattolico – un aspetto che merita attenzione. «I più contestatori del G8 a Genova – esso scriveva alla vigilia del vertice – con un atteggiamento pacifico, i movimenti cattolici partono anche loro all’assalto del vertice con dei propositi radicali e un militantismo senza pari.» È noto – anche se il fatto si perde nel vociare delle polemiche – che i vescovi della Liguria in testa, hanno invitato i cattolici a partecipare alla manifestazione – e che monsignor Tettamanti ha detto, in un’intervista a La Stampa, il 2 luglio, che «l’uomo non è un destinatario passivo della storia. Egli non deve essere vittima della globalizzazione, ma deve cercare di forgiarla per renderla utile» e a questo giudizio, che dà un’idea dell’indirizzo, segue un commento di Luigi Bobba, presidente delle Acli: «Questa globalizzazione senza regole è il nuovo nome del colonialismo»24. Non volevamo dirlo noi, ma siamo pienamente d’accordo.

Ancora tre cose. La prima è un commento di Le Monde25 che riportiamo per intero. «Dal 1996 le mobilitazioni contro i G8 si erano concentrate sull’annullamento del debito dei paesi in via di sviluppo, con la campagna Jubilee 2000. Quest’anno il ventaglio delle rivendicazioni e dei dibattiti si è allargato all’insieme delle questioni poste dalla mondializzazione, cui si fa il processo: precarietà del lavoro, degrado dell’ambiente, potenza del capitale finanziario, povertà del terzo mondo ed egoismo del Nord, mentre si tratta di accordare a tutti un eguale diritto alla salute. Questo spiega la massiccia presenza dei movimenti sociali e dei sindacati. Italiani, per l’essenziale, ma anche stranieri, specialmente con la partecipazione del potente sindacato tedesco Ig-Metall e della principale centrale sindacale brasiliana, la Cut.» In sostanza – e non è un bilancio, ma solo un’indicazione – il movimento assume ampiezza perchè si diffonde la coscienza di ciò che va storto in un regime capitalista che pretende di rispondere solo a se stesso.

In questo senso, assumono pieno significato le parole del manifesto del Genoa social forum, «Un mondo diverso è possibile», diffuso sin dal marzo scorso. «È necessario costruire un nuovo modo di pensare che sappia rispondere a quei modelli culturali dominanti che – passando per una crescente disgregazione sociale – impongono comportamenti che impediscono anche il solo immaginarsi una società migliore. Un modo diverso è invece possibile! Questo deve essere il senso di una sfida da trasmettere ai cittadini. Gli organismi sovranazionali, su cui si stanno concentrando le attenzioni di un movimento internazionale crescente, non potranno più decidere senza tener conto di una popolazione sempre più attenta e decisa che chiede processi democratici certi e nuovi orizzonti di giustizia sociale ed economica.» 26

La seconda è un recente articolo di Amartya Sen27 che propone 10 punti di riflessione per il movimento antiglobalizzazione. Anzitutto, egli scrive, «le manifestazioni contro la mondializzazione non sono rivolte contro la mondializzazione. Nel loro insieme, i partecipanti possono difficilmente opporsi al sistema quando la loro contestazione sta tra gli avvenimenti più mondializzati del mondo contemporaneo». Poi, «la mondializzazione non è un fenomeno nuovo e non è neanche una semplice occidentalizzazione» – e Amartya Sen ricorda i flussi culturali, tecnici, economici che hanno accompagnato il progresso dell’umanità, concludendo che «esiste un retaggio mondiale dell’interazione e i movimenti contemporanei si iscrivono in questa storia». Terzo, «la mondializzazione non è una follia (e) ciò che occorre è una ripartizione più equa dei frutti della mondializzazione». Quarto, «direttamente o indirettamente, la questione essenziale è quella delle ineguaglianze» – «ineguaglianze tra nazioni e ineguaglianze al loro interno. E tra queste ineguaglianze, le disparità di ricchezza, ma anche gli squilibri in fatto di potere politico, economico e sociale».

Quinto, «la preoccupazione maggiore è il livello d’insieme delle ineguaglianze, non il loro cambiamento marginale» – nel senso che «anche se i difensori dell’ordine economico contemporaneo avessero delle ragioni nel pretendere che la condizione dei diseredati è, in linea generale, un po’ migliorata, resterebbe la necessità logica di prestare attenzione, subito e interamente, a una miseria spaventosa e a ineguaglienze costernanti». Sesto, «la questione non si riduce a sapere se c’è profitto per tutti gli interessati, ma se la ripartizione di questo profitto è equa» – in altre parole, «la questione essenziale non è di sapere se questo o quel risultato comune è per tutti preferibile a un’assenza di cooperazione, ma se genera un’equa ripartizione dei benefici». Settimo, «l’economia di mercato è compatibile con molte situazioni istituzionali diverse, che possono avere sbocchi differenti» – nel senso che «l’economia di mercato può dare dei risultati molto diversi a seconda del modo in cui sono ripartiti i mezzi materiali e sfruttate le risorse umane, secondo le regole prevalenti e così via. Ora, in tutti questi campi, lo stato e la società hanno una loro funzione, in ciascun paese come pure a livello mondiale. Il mercato è soltanto un’istituzione tra altre».

Ottavo, «dagli Accordi di Bretton Woods in poi, il mondo è cambiato» – a quell’epoca era accettato il colonialismo e tollerata una miseria ancor maggiore di quella di oggi, i diritti dell’uomo erano soltanto un sussurro, la democrazia non era considerata come un diritto internazionale, e di questi cambiamenti di opinione e di situazione politica bisogna tenere conto. Nono, «sono necessari dei cambiamenti sia politici che istituzionali» – perchè «la struttura del potere che fa da base all’organizzazione delle istituzioni (internazionali) deve anch’essa essere riesaminata in rapporto con la nuova realtà politica, della cui portata la contestazione è soltanto una lontana espressione». Decimo, «costruire la mondializzazione è la risposta indispensabile ai dubbi sulla mondializzazione» – perché «le manifestazioni ostili sono anch’esse parte del processo globale cui non esistono scappatoie, e nessun motivo di cercarle». Non è un manifesto, non sono affermazioni indiscutibili, ma riflettono una problematica del movimento nel suo complesso su cui riflettere.

La terza cosa è ancora un commento su Le Monde28 i cui autori osservano che «di Genova deve rimanere l’essenziale, cioè l’emergere definitivo, presso l’opinione pubblica internazionale, di una domanda politica fondamentale, cui manca una risposta: quale mondo vogliamo e come formarlo?». Nessuno mette in dubbio la legittimità di capi di Stato liberamente eletti, ma piuttosto il loro «uso abusivo di questa legittimità quando, in assenza di altre nazioni, essi si accaparrano il potere di decisione, o per eccedere i loro mandati o, al contrario, per dimostrarsi impotenti. (...) Noi siamo perciò davanti a un paradosso: dal punto di vista dei valori stessi impugnati dalle grandi potenze, la legittimità sta dalla parte dei manifestanti. Poco importa che oggi, all’interno di questi movimenti, come pure tra di loro, contino di più i rifiuti che non delle proposte concordate. Anche così, la critica transnazionale delle forme attuali della mondializzazione respinge a suo modo il comodo alibi delle cosiddette fatalità. Essa punta contro il dogma ultraliberista. E afferma che la città mondiale non è condannata a vedere le dimissioni della volontà collettiva. Anzi, il nuovo internazionalismo che si delinea, e che bisogna urgentemente consolidare, è una delle vie del ritorno al politico».

Dopo

I commenti a cose fatte possono essere divisi in due categorie: quelli relativi alle violenze e quelli riguardanti il modo di operare dei G8. Saltiamo la maggior dei primi, che non aggiungono molto a quanto scritto sulla stampa italiana; ci limitiamo a una frase di Susan George, vicepresidente di Attac France29 e a delle opinioni espresse da Tony Blair e da Jacques Chirac – che sono precedenti l’incontro, ma che rendono bene l’idea dei problemi che si presentano ai Grandi e l’angolazione da cui sono affrontati.

Scrive Susan George: «Dopo il G8 della vergogna a Genova, una questione lancinante si pone ormai alle imprese transnazionali, alle autorità nazionali e alle istituzioni europee e internazionali, divenute bersagli di coloro che i media chiamano gli “antimondializzazione”, etichetta che peraltro viene unanimamente respinta dagli interessati: come screditare, indebolire, manipolare e se possibile annientare il movimento cittadino internazionale che, da Seattle in poi, non cessa di perturbare le grandi messe dei padroni dell’universo?». Questa domanda merita attenzione.

Di ben altro registro, ovviamente, è l’opinione di Tony Blair30, espressa prima dell’incontro di Genova. «La mondializzazione non è una minaccia. Grazie a essa il commercio internazionale non cessa di svilupparsi e i paesi poveri, che disperavano di poter mai accedere ai mercati internazionali, adesso hanno delle possibilità di arrivarci. Queste manifestazioni sono inammissibili, perchè colpiscono le libertà. Questi rivoltosi vogliono farsi notare non con la ragione ma con l’eccesso. Questo movimento, nato a Seattle nel 1999, è stato amplificato dai media al punto che ormai è impossibile tenere una riunione internazionale senza che i rivoltosi vi accorrano. Questo movimento non ha niente di democratico. I teppisti che vi si annidano non sono stati eletti, esprimono solo l’anarchia della strada.» E più che altro sorprende la rozzezza di queste parole.

Più sfumato Jacques Chirac, in un lungo articolo su Le Figaro31, anch’esso precedente all’incontro, che mette sul tavolo una problematica. «Genova – esso dice – apporterà un’ambizione che si può riassumere in tre parole: progredire, dialogare, regolamenta-re.» «Progredire anzitutto sul terreno della solidarietà – contro le malattie, contro la miseria, per l’istruzione e per la diffusione della tecnologia nei paesi poveri.» Dialogare. «Tra il Giappone, società del consenso, gli Stati Uniti, sospettosi nei confronti dello Stato, l’Europa, più attaccata all’idea di un interesse generale sostenuto dallo Stato, le convinzioni sono chiaramente distanti tra loro. Ciò non toglie che condividiamo tutti lo stesso destino. Se non riusciamo a comunicare tra di noi, non potremo assumerci insieme questo destino.» Regolamentare. «Il G8 ha chiaramente una funzione da compiere per meglio regolamentare la mondializzazione. (...) Dopo la crisi asiatica abbiamo avviato la riforma del sistema finanziario internazionale e anche su di questo Genova ci permetterà di progredire»; poi c’è il rafforzamento del commercio mondiale, che non fu possibile risolvere a Seattle perchè «la comunità internazionale non era ancora pronta, non c’era abbastanza dialogo con i paesi in via di sviluppo, non c’era abbastanza attenzione alle preoccupazioni dei nostri concittadini, che non sono ostili alla mondializzazione, ma che respingono la legge della giungla». «In tutti questi campi, economici, finanziari, societari dobbiamo tutti insieme arrivare a una mondializzazione controllata (maîtrisée), uno spazio di umanismo. Auspico che Genova sia il momento forte di questo cammino.»

La parte più interessante di questo esercizio letterario riguarda le «lezioni del nostro comune passato» che,già prima di Genova, Chirac auspicava per i vertici futuri. Cinque lezioni. «La prima è la sobrietà. I vertici hanno tendenza a divenire delle grandi macchine spettacolari» – ed è ora di ridimensionarli. La seconda, «la franchezza. Noi avanziamo a condizione di dirci le cose. Questo è il motivo per cui credo che si debba andare verso delle sessioni meno formali e dei comunicati più brevi». La terza, «il dinamismo. I G8 devono essere creativi, devono lanciare delle idee, delle iniziative, ma devono anche resistere alla tentazione di fare della gestione. Non sono un’organizzazione internazionale, ma uno spazio per discussioni informali». La quarta, «l’umiltà. Non potremmo essere in nessun caso un “direttorio del mondo”. Dobbiamo lavorare in appoggio alle e nel contesto delle organizzazioni internazionali». La quinta, «l’apertura. Lo sforzo di democratizzazione della vita internazionale passa per il dialogo, il solo elemento che permetta di tener conto delle preoccupazioni dei nostri concittadini. Nel momento in cui la mondializzazione tocca la vita quotidiana delle donne e degli uomini, la coscienza cittadina deve affermarsi su scala internazionale. La rivolta contro l’oppressione, la miseria, la lotta per la salvaguardia dell’ambiente, sono altrettanti segni di questa coscienza cittadina mondiale».

Bravo Chirac! Ma in un trafiletto di Le Figaro32 sta la risposta per quanto riguarda i suoi auspici per Genova: «Annullamento del debito: niente di nuovo». «Soppressione dei G8: no, ma ritorno, auspicato, allo “spirito di Rambouillet “ (e) volontà di tornare a dei vertici “più semplici e più sobri”, per dirla con le parole di Romano Prodi». «Dialogo tra i G8 e la società civile: sì, prima dei vertici, con incontri programmati con le Ong.» «Lotta contro la povertà: l’aiuto pubblico allo sviluppo è stato di nuovo evocato come il solo capace di lottare contro la povertà, ma i G8 non hanno fornito cifre per questo impegno. Si è deciso di mettere l’accento sull’Africa, l’anno prossimo.» «Fondi sanitari: le Ong reclamavano almeno 10 miliardi di dollari» – ne sono stati stanziati 1,3 e solo Chirac dice che questo è l’inizio di un fondo di 10 miliardi. «Ambiente: situazione bloccata.»

E anche un autorevole commentatore sul Financial Times33 sottolinea l’incapacità di questi vertici di arrivare a qualcosa di concreto. «A dispetto di tutti i discorsi sul deficit democratico, il vero problema non è che questi vertici producano troppe decisioni, ma che ne producono troppo poche. (...) C’è qua un paradosso. Mentre i dimostranti si scagliano contro un sistema monolitico mirato a omogeneizzare le economie, le politiche e le culture, una delle principali lezioni di questo sistema sono dei vertici nati morti, è la cacofonia di interessi nazionali contrastanti.» Lo dimostrano le discussioni sul commercio. «I contrasti tra paesi in via di sviluppo e paesi sviluppati, tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, tra economie a base tecnologica ed economie agricole, si inaspriscono ogni anno. (...) Disgraziatamente, mentre la globalizzazione continua a produrre effetti disorganizzativi e spesso disegualizzanti, gli interessi dei paesi che dovrebbero concordare delle regole in comune sono sempre più disparati» – e inoltre molto è messo nelle mani di istituzioni come l’Omc e la Banca mondiale che «sono sempre più inefficaci perchè troppo cariche di responsabilità che eccedono la loro autorevolezza, le loro capacità e le loro risorse». Insomma, che Genova non abbia prodotto nulla non è un caso – è la norma.

Se sul piano delle decisioni non si è andato molto lontano, qualcosa pare si muova sulla forma di questi vertici. Per valutare la cosa bisogna pensare che a Genova la delegazione americana si aggirava sulle 600 persone e le altre stavano in media sulle 250 persone – e infatti si è parlato di oltre 2000 partecipanti, tra delegati, esperti, giornalisti e ficcanaso di vario genere. E non è stato il massimo. Scrive Le Figaro34 che «il gigantismo ha battuto i propri record a Okinawa, nel 2000. Il Giappone pagò la somma astronomica di 766 milioni di dollari per organizzare il “suo” vertice. Su questi parametri, il vertice di Genova non è stato esagerato, gli italiani parlano di un costo sui 110 milioni di dollari». È stato annunciato che il vertice 2002 si terrà in Canada – a Kananaskis, sulle Montagne rocciose – dove gli alberghi hanno soltanto 350 posti letto; e si sa che l’Omc terrà la sua prossima conferenza, quest’autunno, nel Qatar. Costa meno – ed è più facile difendersi dai rompiscatole.

Ma, benché cauti, i commenti della stampa dimostrano che gli argomenti della contestazione trovano uno spazio crescente. Sempre Le Figaro35 – quotidiano tutt’altro che estremista – sottolinea una questione sollevata dal movimento di contestazione: «I G8 sono una  istituzione mondiale senza alcun mandato. Essi non sono né rappresentativi né universali. Non rendono conto a nessuno. Non hanno una Carta, uno Statuto, un’organizzazione. I loro obiettivi sono sempre stati vaghi. (...) Oggi essi abbracciano l’insieme dei problemi mondiali e questo genera delle nuove contraddizioni». E su altre fonti vien dato risalto all’argomento della protesta, secondo cui mondializzazione non deve fare rima con liberalizzazione e non deve essere un dogma. In questo senso, alcuni commenti della stampa internazionale sono significativi.

Un esempio al vetriolo – che con un’altra firma sarebbe bollato da «comunista», o peggio – viene da William Pfaff, sull’Herald Tribune36. «Un felice risultato della riunione del Gruppo degli Otto – esso dice – sarebbe di farla finita con le riunioni del Gruppo degli Otto. Ancor più felice sarebbe un ripensamento dell’ideologia di deregolamentazione e di espansione del libero mercato, che alimenta il globalismo e che spinge gli attivisti a scassare le riunioni dei G8.» La risposta ufficiale è che ci vuole ancor più globalizzazione e «il merito sovrano della deregulation e di un più ampio mercato è considerata inoppugnabile, occupa lo stesso status di verità ovvia che ebbero negli anni Venti e Trenta le opere di carità e il colonialismo. C’è una rassomiglianza tra globalizzazione e colonialismo. Entrambi sono motivati dal desiderio di esportare sul mercato globalizzato/colonizzato; di utilizzare la sua forza lavoro, a salari inferiori a quelli della metropoli; e di sfruttare le risorse, materiali e umane del paese colonizzato. Uno può sostenere che nel caso del globalismo tutto questo è legittimo, perchè il globalismo favorisce la democrazia, mentre è illegittimo nel caso del colonialismo. Ma è soltanto una questione di punti di vista».

Non si sosteneva una volta, come verità indiscussa, che paesi come la Francia svolgevano col colonialismo una mission de civilisation? E che paesi come la Gran Bretagna dovevano, con le colonie, portarsi sulle spalle a white man’s burden – tutto a vantaggio di popoli arretrati? «Ci dicono che il globalismo significa progresso, istruzione, prosperità e ammodernamento economico. Questa è soltanto una metà della storia. Sì, esso porta investimenti e tecnologia industriale – ma anche sfacelo sociale e politico, distruzione dell’infrastruttura culturale e rovina per l’industria e l’agricoltura locali, internazionalmente non competitive» – Pfaff ricorda l’Indonesia, la cui crisi socio-politica è stata «causata dalla deregolamentazione dell’economia, con l’apertura del mercato alla concorrenza internazionale e alle importazioni, nonché dal collasso finanziario che ne è conseguito, quando gli investitori stranieri persero fiducia».

Peggio, «le istituzioni internazionali impongono norme che gli Stati Uniti respingono per se stessi, come una banca centrale impegnata soltanto sul controllo dell’inflazione. Essi seguono teorie che contrastano con quanto viene insegnato nei corsi americani di economia. Gli economisti e gli specialisti politici sanno tutto questo, ma i G8 non vogliono ammetterlo». Pfaff poi ghigna sull’affermazione dei Grandi che loro sono eletti dal popolo e i manifestanti no; certo, «le manifestazioni non sono democratiche perchè i manifestanti si nominano da sè, mentre i leader dei governi occidentali sono liberamente eletti. Si sarebbe potuto dire la stessa cosa delle manifestazioni anticoloniali degli anni Trenta»; e quanto ai comunicati finali, «stilati prima di partire, i giornalisti avrebbero potuto scriverli nei loro uffici» – e ancor prima delle riunioni.

Altri commenti sono meno virulenti, ma accampano argomenti più pesanti – e le fonti sono spesso insolite. Il Financial Times37 recensisce il libro di un economista americano38 che prospetta il collasso della globalizzazione, stabilendo un confronto con la Grande crisi degli anni Trenta. La globalizzazione è irreversibile? Manco per sogno, e i sintomi ci sono tutti. «È già accaduto in passato, con pesanti conseguenze. Il XVI secolo portò nuove scoperte, nuove idee, nuova ricchezza – e una controfaccia di inflazione, eserciti grandi e brutali, nuove malattie e repressione intellettuale. L’ultima parte del XIX secolo fu un periodo di straordinaria mobilità del capitale, dell’informazione, delle merci e della gente. Fu anche un periodo di stabilità economica e di grande ottimismo. La guerra tra Stati altamente sviluppati è impensabile, sostenne l’economista Norman Angell, in un suo autorevole libro del 1911. Negli anni Venti c’era ancora entusiasmo per l’internazionalismo e il libero mercato. Ma l’ondata di globalizzazione crollò con la grande crisi degli anni Trenta». Non sappiamo che cosa abbia scritto Harold Angell nell’analisi del passato e del presente; ma la recensione ne trae l’avvertimento che «il pendolo sta lentamente allontanandosi dai mercati aperti e dal libero commercio. I politici possono trarne tre conclusioni. La prima è che la stabilità nel settore finanziario è un elemento essenziale di prevenzione di un panico distruttivo in un mondo di capitale globale. La seconda è che delle istituzioni sane, con mandati chiari e realizzabili, sono una parte necessaria della globalizzazione. Infine, la storia della depressione presenta un severo avvertimento su come, e con quali effetti devastanti, un contraccolpo della globalizzazione possa divenire depressione economica e anche peggio». E, anche senza metter dito in discorsi come questo, bisogna riconoscere che l’ottimismo non è stato sovrano neanche nei comunicati dei G8.

L’Herald Tribune39 affronta un altro tema: i discorsi dei Grandi sulla povertà e sulla politica economica in generale – e cita la Banca mondiale, secondo la quale le percentuali di povertà sono «calate solo di poco negli ultimi dieci anni, e i livelli di miseria sono saliti in molti paesi. Inoltre, nelle regioni povere, a eccezione dell’Asia, le ineguaglianze di reddito sono aumentate». Il quotidiano aggiunge che «secondo molti economisti della corrente dominante (mainstream) la rapida liberalizzazione dei flussi di capitale ha contribuito alla crisi finanziaria asiatica del 1997 e 1998, buttando così in miseria molta gente (e) oggi l’Argentina e la Nuova Zelanda, modelli di quella politica “liberalizzante” tanto incoraggiata dagli economisti e dagli investitori globali, sono in gravi difficoltà», che minacciano anche altri paesi. Il quotidiano cita poi un «piccolo gruppo di economisti internazionali e di ricercatori politici dissidenti» che si è riunito nel giugno scorso su iniziativa di due docenti di Harvard – e non di Roccacannuccia. Si sono «trovati davanti a un muro» – perchè sfidavano gli assiomi prevalenti. «Eppure – osserva il quotidiano – la sgradevole ironia è che le strategie sostenute dalla corrente dominante in campo economico e finanziario – minore spesa governativa, privatizzazione, flussi di capitale senza restrizioni, mercato completamente libero – non sono le politiche che hanno originato il rapido sviluppo dei paesi arretrati nel recente passato. Se la Corea del Sud, Taiwan, la Thailandia o il Brasile si fossero attenuti alle politiche che oggi sono considerate di rigore, non avrebbero avuto il successo che hanno avuto. E, come sottolinea il professor Rodrick, molti dei paesi a più rapido sviluppo avevano e gestivano grandi complessi industriali e ne proteggevano nuove industrie con alte tariffe doganali. (...) In sostanza, questi paesi integravano le loro economie con quelle del mondo sviluppato – non subito, ma quando erano maturate e divenute più rigogliose.»

La conclusione è chiara. «Se le nazioni restano in mano a degli investitori internazionali single-minded (che hanno soltanto uno scopo) e dei loro surrogati istituzionali, non ci sarà mai molto spazio per nuove idee. Per attenuare il potere dei mercati finanziari occorre una leadership (e) questa leadership manca non soltanto a Washington e nella maggior parte delle capitali occidentali, ma anche nei principali centri accademici americani.» Non mettiamo dito nel discorso; ma si può ben sottolineare che è insolito.

Infine, delle osservazioni da due fonti insospettabili. La prima è un editoriale del Financial Times40 che parte da una premessa evidente: o i Grandi trovano il modo di affrontare almeno alcune delle preoccupazioni dei dimostranti, oppure dovranno tenere le loro riunioni in un bunker. In sostanza, queste preoccupazioni possono essere raccolte in cinque punti: primo, la povertà – e viene ripetuto che «mentre i ricchi diventano ancor più ricchi, il numero delle persone in miseria è aumentato in termini assoluti»; secondo, «l’ineguaglianza (che) è aumentata sia tra nazioni che all’interno delle nazioni»; terzo, «le regole dell’Omc appaiono ingiuste, perché costringono i paesi poveri ad accettare prodotti che distruggono l’impiego locale e nello stesso tempo bloccano le esportazioni agricole»; quarto, «l’Fmi e la Banca mondiale sono criticate per il loro imperialismo economico sui paesi indebitati e nello stesso tempo si fa troppo poco, troppo tardi e troppo condizionante per risolvere il problema del debito»; quinto, «il capitalismo globale è considerato distorto a favore delle multinazionali, a danno dei poveri, dei paesi poveri e dell’ambiente». In effetti, più o meno è così.

L’editoriale critica queste posizioni, ma aggiunge: «Coloro che sostengono il sistema devono riconoscere che i dati positivi nascondono molte difficoltà. Ad esempio, i paesi che si aprono al commercio mondiale avranno delle sacche di disoccupazione; in un mercato globale, le decisioni prese a New York possono avere effetti devastanti su lavoratori che vivono a 5.000 miglia di distanza; i liberi mercati sono talvolta truccati; e benché, in linea generale, paghino più di quanto sia corrente nei paesi poveri e si conformino alle leggi locali, le multinazionali devono fare molta attenzione a evitare le accuse di sfruttamento». La conclusione è ancor più interessante: «Ma, soprattutto, i paesi sviluppati devono evitare di dar l’impressione che, al prossimo trade round esse vogliono prendere tutto e non dare niente. Coloro che tengono lezione ai dimostranti sulle virtù del libero mercato dovrebbero dare un’occhiata ai loro livelli di protezionismo agricolo. Più in generale, devono riconoscere che il sistema di mercato è lontano dall’essere perfetto. I dimostranti antimercato hanno torto, in linea generale, ma alcune delle loro preoccupazioni meritano una risposta molto più attenta di quella che i Grandi gli abbiano dato sinora». E, giri di parole a parte, sono ammissioni notevoli – e anch’esse insolite.

La seconda fonte è il settimanale americano Business Week41 che, dopo aver riferito sulle proteste contro le violenze della polizia a Genova, commenta: «Senza dubbio, il movimento continuerà. Malgrado le disgustose scene a Genova, i governi, a cominciare da Washington, tirano avanti con i loro incontri pianificati. E i dimostranti si preparano a manifestazioni ancor più clamorose sui guai della globalizzazione. I gruppi americani si stanno organizzando per portare nella capitale decine di migliaia di persone. Si stanno pianificando anche delle azioni nelle capitali occidentali in coincidenza con la riunione di novembre dell’Omc nel Qatar. Bruno Cassen, direttore di Attac France, dice che i suoi membri si riuniranno per riesaminare i loro metodi dopo le violenze a Genova, “ma questo non vuol dire che non faremo più manifestazioni”».

E anche il settimanale conclude: «Alla lunga, soltanto un progresso sui problemi permetterà di smussare la protesta contro una globalizzazione senza limiti. Quando si siano dissipati il fumo e i gas lacrimogeni a Genova, un accordo su molte questioni non è poi così inverosimile come sembra. “Qualche volta, la settimana scorsa, i dimostranti sono stati duri – e noi dobbiamo condannare la violenza – ma sotto c’era una preoccupazione per gli effetti della globalizzazione che è seria e che deve essere ascoltata” – lo ha detto al Banking committee del Senato il copresidente della Citigroup Inc., Robert E. Rubin». E non capita tutti i giorni.


1 Vedi «Notizie Internazionali», gennaio 2000, numero speciale su Seattle.

2 Chiudiamo questo Dossier l’11 agosto. Non possiamo perciò tener conto di eventuali commenti pubblicati più tardi.

3 Mike Moore, Let’s ensure that free trade works in favor of the poor, too, «International Herald Tribune», 19 febbraio 2000.

4 Bérengère Mathieu de Heaulme, Les partenaires de l’Europe refusent d’ouvrir leurs marchés aux pays pauvres, «Le Figaro», 23 maggio 2001.

5 Slogans fail to help the por, «Financial Times», 19 luglio 2001.

6 The poverty summit, «International Herald Tribune», 21 luglio 2001.

7 Alan Friedman, «Shadow» ministers prod G-8 to dive poor a voice, «International Herald Tribune», 19 luglio 2001.

8 Alan Friedman, G-8 ministers can’t agree on issues facing summit, «International Herald Tribune», 19 luglio 2001.

9 Réunis à Rome, le G7 s’inquiète de l’atonie de la croissance mondiale, «Le Monde», 10 luglio 2001.

10 Jeffrey E. Garten, Daunting tasks for the Group of Eight in Genoa, «International Herald Tribune», 21 luglio 2001.

11 Lo troviamo riassunto in: www.cntropiani2000.org/documentazione/eventi/g8/beyond_debt_relief.htm.

12 Testo completo in: http://europa.eu.int/comm/external_relations/g7_g8/genoa/fmconclusions.htm, datato Roma 18-19 luglio 2001.

13 «Beyond debt relief», Genova 22 luglio 2001, in: http://europa.eu.int/comm/external_relations/g7_g8/ genoa/conclusions.htm.

14 Datato Genova 22 luglio 2001, in: europa.et.int/comm/external_relations/g7_g8/genoa/conclusions.htm.

15 Highly indebted poor countries.

16 Least developed countries, o Ldc.

17 Stephen Fidler, G8 health fund pledges «inadequate», «Financial Times», 21 luglio 2001.

18 G8 key resolutions, «Financial Times», 23 luglio 2001.

19 Richard Heuzé, Gênes livrée à la guérilla urbaine, «Le Figaro», 23 luglio 2001.

20 Richard Heuzé, La police de Berlusconi en accusation, «Le Figaro», 31 luglio 2001.

21 Le riprendo da Le Figaro del 17 luglio 2001 e da ime del 23 luglio 2001.

22 Les protestataires se regroupent en trois types de formation, «Le Monde», 20 luglio 2001.

23 Richard Heuzé, Les catholiques contre la mondialisation, «Le Figaro», 18 luglio 2001.

24 Riprendo questi due commenti dal testo fornito da «Le Figaro» già citato, traducendoli dal francese.

25 Laurence Caramel, Les antimondialisation occupent Gênes en attendant l’ouverture du sommet du G8, «Le Monde», 17 luglio 2001.

26 In: www.peacelink.it/webgate/consumatori/msg00462.html.

27 Amartya Sen, Dix vérités sur la mondialisation, «Le Monde», 19 luglio 2001.

28 Christian Paul, ex segretario di Stato ai territori oltremare, e Vincent Peillon, portavoce del Ps, Un nouvel internationalisme s’est ébauché à Gênes, «Le Monde», 10 agosto 2001.

29 Susan George, L’ordre libéral et ses basses oeuvres, «Le Monde Diplomatique», agosto 2001.

30 Intervista di Charles Lambroschini, Tony Blair: «La mondialisation n’est pas une menace», «Le Figaro», 18 luglio 2001.

31 Jacques Chirac, Humaniser la mondialisation, «Le Figaro», 19 luglio 2001.

32 Les réponses aux demandes des antimondialistes, «Le Figaro», 23 luglio 2001.

33 Moises Naim, direttore della rivista «Foreign Policy», An exercise in futility, «Financial Times», 6 agosto 2001.

34 Luc de Barochez, Les ‘Huit’ contraints de se réformer, «Le Figaro», 23 luglio 2001.

35 Luc de Barochez, L’utilité contestée du G8, «Le Figaro», 24 luglio 2001.

36 William Pfaff, We could have done without the Genoa circus, «International Herald Tribune», 26 luglio 2001.

37 Richard Lasmbert, Why globalisation fails, «Financial Times», 2 agosto 2001.

38 Harold James, The end of globalisation. Lessons from the Great Depression, Harvard University Press.

39 Jeff Madrick, Critics wary of G-8 ideas for the poor, «International Herald Tribune», 3 agosto 2001.

40 An answer for the protesters, «Financial Times», 11 agosto 2001.

41 Aaron Bernstein, Time to regroup, «Business Week», 6 agosto 2001.