Notizie Internazionali n.72
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi

G8 l’immagine e la realtà di Alberto Castagnola - economista - Tavolo delle campagne - rete Lilliput

L’incontro a Genova

L’incontro a Genova dei capi di Stato degli otto paesi più industrializzati del mondo sta acquistando in Italia un peso forse superiore alla sua reale importanza, ma in una fase storica caratterizzata dallo svuotamento dei poteri delle istituzioni statali e internazionali ogni occasione per comprendere meglio le dinamiche in atto è preziosa e quindi vale la pena di approfondire la reale portata dell’avvenimento e individuare le componenti di una efficace risposta politica.

In primo luogo dobbiamo sapere che l’incontro non ha alcun valore formale, in quanto il G8 non è un’istituzione, non è una sede riconosciuta da alcuna assemblea internazionale e tanto meno da alcuna base popolare. Le dichiarazioni che saranno formulate e le eventuali «decisioni» prese non avranno alcuna validità giuridica e nessun carattere vincolante, nemmeno verso gli stessi paesi partecipanti. I capi di Stato o di governo dei paesi più industrializzati non hanno ricevuto alcun mandato a rappresentare il resto del mondo, ma nemmeno le loro stesse popolazioni su temi di così grande rilievo internazionale. La cosiddetta «legittimità» del consenso non è sostenuta da alcun giurista o esperto di diritto internazionale e quindi perfino le delegittimazioni chieste a gran voce dai movimenti di contestazione più dura sfondano in realtà una porta aperta.

Non possiamo tuttavia dimenticare che i membri del G8 costituiscono il nucleo centrale del sistema economico oggi dominante e che quindi se da 25 anni si riuniscono in questa forma una qualche ragione ci deve pur essere. La risposta è piuttosto difficile da comprendere in tutte le sue implicazioni e soprattutto è ostica da digerire in quanto sovverte alcuni degli schemi di lettura diffusi tra quanti fanno politica attiva.

È noto a tutti che all’interno delle organizzazioni internazionali le procedure decisionali sono lungi dall’essere democratiche e che la presenza di imprese transnazionali in molti dei punti strategici del loro funzionamento ha da tempo stravolto le finalità decise dalle assemblee degli Stati membri. L’Onu in particolare, ormai da molti anni, attraversa una crisi profonda, sintetizzata spesso nella mancanza di fondi sufficienti per affrontare problemi sempre più rilevanti ed evidenziata anche di recente dal blocco dei versamenti degli arretrati dovuti dagli Stati Uniti come ritorsione per l’esclusione da due gruppi di lavoro e dai tentativi di ricorrere alle multinazionali come fonte di mezzi finanziari (la teoria del global compact pubblicizzata dallo stesso Kofi Annan).

È evidente quindi l’esigenza dei paesi industriali di disporre di una sede senza ostacoli procedurali e senza possibili contestatori, sufficientemente nota però ai centri di potere economico e alle sedi politiche di tutti i paesi per svolgere il ruolo di pulpito su scala internazionale. Dovrebbe però essere anche evidente a tutti che gli incontri annuali si risolvono in un evento di interesse solo mediatico e svolgono un ruolo di amplificazione dei grandi temi, con pochissime conseguenze sui meccanismi reali, specialmente economici. Un’analisi degli argomenti trattati negli ultimi due decenni e, soprattutto della limitatissima incidenza sulla realtà delle poche indicazioni formulate in passato, conferma il carattere erratico e simbolico di tutta l’operazione.

Viceversa pochi seguono in modo efficace le dinamiche in corso nelle reali sedi decisionali (gli incontri dei ministri competenti su singoli problemi, le sedi riservate di contrattazione degli organismi internazionali, l’insieme degli accordi, non solo commerciali, bilaterali o multilaterali ecc.) e soprattutto il sostegno dato dai governi degli stessi otto paesi alle strategie adottate dalle grandi multinazionali e le politiche economiche imposte ai paesi che hanno scelto di non opporsi al sistema dominante (l’Arabia Saudita per il petrolio, tanto per fare un esempio). I vertici dei G8 svolgono quindi anche una pericolosa funzione diversiva, distogliendo l’attenzione e le contestazioni dai reali meccanismi in corso di svolgimento, che non di rado vengono percepiti in tutta la loro portata e pericolosità solo quando ormai sono ben radicati e fortemente diffusi e quindi ben più difficili da modificare.

In sostanza, si può affermare che i controvertici a partire dai primi anni Novanta, e quindi ben prima di Seattle, hanno l’incontestabile merito di aver acceso i riflettori su questa azione di intossicazione a scala globale, mentre oggi sarebbe tempo di affrontare i meccanismi sottostanti, evitando di concentrare le analisi politiche solo sui mali indotti dal neoliberismo, senza accorgersi che anche questa elaborazione teorica e ideologica cela in realtà politiche e strategie fortemente contraddittorie con le finalità sbandierate e ben più pericolose e dannose nei fatti.

Di cosa il G8 parlerà

Di cosa il G8 parlerà a Genova è ancora poco chiaro, sia per la fumosità dei documenti ufficiali finora circolati, alcuni dei quali saranno resi noti solo all’inizio del vertice, sia per l’abitudine di introdurre nel programma all’ultimo momento temi che evidenzino la prontezza con cui i paesi dominanti affrontano i problemi mondiali emersi più di recente, evitando in tal modo, ovviamente, di parlare delle loro cause remote e delle spinte di fondo da tempo in atto.

In base ai documenti oggi disponibili e alle dichiarazioni dei ministri italiani, si può ritenere che verranno affrontati i problemi dell’andamento congiunturale dell’economia internazionale, che presenta notevoli tensioni e numerose situazioni non certo positive, negli Stati Uniti da un lato e nel Giappone dall’altro, per non parlare dell’Unione europea che risente in misura rilevante delle spinte monetarie nei mesi che precedono l’adozione dell’euro come valuta realmente unica. Difficile che su questa materia, strettamente sorvegliata dalla Riserva federale e dalle altre Banche centrali si possa dire qualcosa di concreto, o andare oltre le vaghe dichiarazioni (indicative di forti contrasti all’interno) rese lo scorso febbraio a Palermo dalle più alte autorità monetarie dei G7. Per fare qualche esempio, hanno detto: «Riaffermiamo che i tassi di cambio tra le valute più importanti dovrebbero riflettere i fattori economici fondamentali», «gli sforzi per potenziare il settore finanziario dovrebbero essere moltiplicati» ecc. Maggiore interesse rivestono in quel comunicato le precise raccomandazioni rivolte alla Russia affinché acceleri le riforme e rispetti gli impegni finanziari assunti, faccia rispettare le leggi, potenzi il sistema creditizio, combatta il riciclaggio di entrate illegali. Più in particolare, alla Russia viene anche chiesto di migliorare tutto il sistema delle normative e dei controlli relativo alle attività finanziarie, il cui stato disastroso nel 2000 ha fatto includere il paese nel gruppo dei 15 Stati maggiormente inadempienti.

A fine luglio queste raccomandazioni non avranno lo stesso tono, data la presenza dei rappresentanti di questo paese, ma saranno reiterate le promesse di sostegno e collaborazione, come avviene regolarmente da oltre dieci anni, mentre la situazione della popolazione locale non sembra essere molto migliorata.

Sempre in relazione ai rischi per il sistema finanziario internazionale, sembra che a Genova si parlerà anche dei paradisi fiscali e dei centri off-shore, che finora sono stati lasciati proliferare, autorizzando l’apertura di filiali di istituti di credito ed emanando norme che riconoscevano la validità dei bilanci di società quasi fantasma o che in esse avevano la sede legale. Da qualche tempo, invece, il loro ruolo di lubrificazione e facilitazione dei movimenti di capitale (inclusi quelli di origine criminale o derivati da evasioni fiscali) è diminuito rispetto al compito di accelerare e moltiplicare le operazioni puramente finanziarie, che hanno raggiunto livelli estremamente consistenti ma che evidentemente sfuggono alla sorveglianza delle più alte autorità monetarie.

Ancora, al problema del debito non si potrà fare a meno di accennare, data anche la presenza come ospiti di sei paesi poveri, che accompagnati da Kofi Annan saranno invitati a cena prima dell’inizio ufficiale del vertice e rappresenteranno in qualche modo la metà del mondo esclusa dal mercato delle grandi potenze. Purtroppo la questione del debito è ancora trattata dalle istituzioni internazionali, in particolare dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, e dai paesi industriali in modo semplicemente inaccettabile, anche perché nega delle realtà purtroppo ormai ben conosciute.

Nel comunicato dei ministri finanziari del febbraio scorso questo problema così drammatico è così richiamato: «Abbiamo notato con soddisfazione che l’attuazione dell’Iniziativa potenziata verso i paesi più poveri e più fortemente indebitati (Hipc) ha già consentito a 22 paesi di raggiungere il «punto di decisione» e di ottenere un significativo alleggerimento del loro debito. Siamo impegnati ad aiutarli a realizzare le loro strategie di riduzione della povertà e quindi a raggiungere il «punto di completamento». Ciò porterà a una riduzione di 34 miliardi di dollari del loro debito e quindi diminuendolo in media di due terzi». Si dovrebbe qui ricordare che i paesi destinatari dell’Iniziativa assunta nel lontano 1996 erano 41, che l’intero processo di attuazione dell’Hipc richiede oltre sei anni, che la riduzione finale sarà solo di 2/3 del debito e sarà solo di 34 miliardi di dollari su un totale di oltre 2550!

Quindi ancora non si accenna ad alcun intervento radicale o a modifiche sostanziali delle procedure previste, tutte orientate a rendere i debiti residui pagabili e non a eliminare un peso insostenibile per le popolazioni colpite. È poi da notare che per molti dei paesi poverissimi per i quali il problema deve ancora essere affrontato, sia pure secondo le logiche del Fondo monetario, lo stesso comunicato sottolinea che si tratta di aree con conflitti in corso e che solo alla fine delle guerre si potrà fare qualcosa per essi, quasi che in questi scontri non fossero i fattori economici le cause principali di massacri e distruzioni.

Lo stesso documento sottolinea che i paesi del G7 sono andati, almeno a parole, più in là degli obiettivi dell’Hipc, ed esorta altri governi creditori a fare altrettanto. Dal testo peraltro non si capisce che la riduzione al 100% riguarda solo i crediti di aiuto e quelli per i crediti commerciali non andati a buon fine e assunti dalle assicurazioni pubbliche, mentre nulla si dice dei debiti concessi dalle banche private o dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale.

Anche su questo tema fino a oggi non si è registrato alcun nuovo impegno e se qualcosa di nuovo scaturisse dal vertice di Genova sarebbe veramente una sorpresa.

Infine, sembra che il vertice dovrà discutere di sicurezza alimentare (non solo della fame del Sud del mondo ma anche dei rischi della diffusione degli organismi geneticamente modificati e dei metodi industriali adottati per la produzione della carne nel Nord) e di ambiente. Data la complessità dei temi e la distanza tra le posizioni finora espresse dai paesi più industrializzati, ben difficilmente il vertice potrà raggiungere conclusioni innovative in materia. Analoghe previsioni purtroppo si possono formulare anche in relazione alle situazioni dei Balcani e del Medio Oriente, che richiederanno ben diverse capacità di mediazione e di intervento diplomatico e soprattutto molto più tempo.

In tale contesto, cosa porterà a Genova il governo italiano? Oggi possiamo solo intuire cosa sosterrà il nuovo governo, per evitare interventi troppo dirompenti con i predecessori ma insieme per potersi allineare il più possibile con gli Stati Uniti e i suoi più fedeli alleati.

Il documento apparso con il titolo Al di là dell’alleviamento del debito che in forma equivoca lasciava intendere un superamento ormai acquisito del problema del debito, era incentrato su alcune proposte che vale la pena di sintetizzare, evidenziandone limiti e portata, anche se non è ancora chiaro se e in che misura saranno presentati o accettati dagli altri partecipanti al vertice.

Le proposte

Le proposte finora circolate in realtà possono ricondursi a tre o quattro idee di fondo.

La prima riguarda l’eliminazione degli ostacoli al commercio dei paesi più poveri verso il Nord del mondo e all’interno delle regioni del sottosviluppo. Questo orientamento potrebbe essere condivisibile, anche se appare piuttosto strano che ci siano voluti 50 anni per cogliere l’impossibilità pratica per moltissimi paesi di partecipare con produzioni locali agli scambi internazionali, dominati dalle imprese multinazionali e concentrati su prodotti ad alta tecnologia o utilizzabili solo dai paesi industriali.

Tale idea è stata approvata anche dall’Unione europea, ma si sottolinea sempre il fatto che le conseguenze per il mondo ricco saranno limitatissime e che le barriere non tariffarie (cioè non i dazi, ma ad esempio le specifiche tecniche o sanitarie richieste per i prodotti del Sud, o la mancanza di conoscenze dei mercati ecc.) verranno ridotte solo parzialmente mentre costituiscono spesso un ostacolo superiore al pagamento di un dazio in entrata. Nulla però viene detto circa i prodotti realizzati da filiali di multinazionali nei paesi più poveri e che potrebbero trovare sbocchi finora impensabili, né sull’effettiva accoglienza che i prodotti del Sud più emarginato potrebbero trovare presso i sofisticati consumatori del Nord.

La proposta inoltre è accompagnata da alcune politiche relative all’apertura di questi stessi paesi poveri davanti ai flussi di capitali esteri e da iniziative della Banca mondiale e del Wipo (l’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale) dirette a far dotare questi paesi poverissimi di una legislazione per la protezione dei brevetti, vale a dire per inserirli nel mercato dei brevetti e delle licenze di produzione dominato dalle multinazionali. I rischi e le conseguenze negative potrebbero quindi superare i vantaggi commerciali!

La seconda idea riguarda la fattibilità di un fondo per la ricerca e lo sviluppo globale, con il compito di finanziare ricerche applicate in campo medico e agricolo che sarebbe in parte alimentato da redditi provenienti dai brevetti. Vorrebbe dire che i detentori dei brevetti sulla vita e sulle medicine, quasi tutti imprese farmaceutiche e biotecnologiche, cederebbero parte dei loro guadagni sui brevetti per alimentare la ricerca?

Il terzo suggerimento concerne i paesi industriali che dovrebbero agevolare l’accesso dei paesi più poveri al trasferimento di tecnologie, ma in base ai terribili accordi Trips attualmente decisi in sede Wto, e senza precisare quali tecnologie, chi le controlla, quanto verrebbero fatte pagare ecc.

Numerose sono le proposte riguardanti gli aiuti, concentrate sul settore sanitario e dell’istruzione, non casualmente quelli che secondo le più recenti indicazioni della Banca mondiale riguardano i paesi più poveri, quasi che fossero ormai esclusi da qualunque intervento di sviluppo (come d’altronde ipotizzava la stessa Banca mondiale nel lontano 1990, nel suo rapporto dedicato alla povertà).

Infine, in varie sedi e con formule diverse, si sostiene l’idea che questo gruppo di paesi possa produrre in loco medicine a basso costo (il recente successo del Sudafrica ha evidentemente fatto scuola, anche se questo paese non è certo nella lista dei più poveri), però si elencano una serie di misure volte a far rientrare nell’alveo delle politiche dominanti questo tipo di iniziative. Nei paesi in oggetto infatti: a) le azioni dei governi, delle Nazioni unite, delle Banche di sviluppo, di altri donatori e della società civile dovrebbero essere coordinate nell’ambito di un programma locale come i Prsp (i programmi di lotta alla povertà, previsti come condizione per gli interventi di aggiustamento strutturale); b) i paesi che possono utilizzare l’iniziativa Hipc dovrebbero essere soggetti a monitoraggio in modo di garantire che i fondi liberati a seguito delle cancellazioni del debito siano effettivamente impiegati in investimenti sociali, in modo da evitare che essi si trovino nuovamente oppressi dal peso del debito; c) deve essere riaffermata l’utilità degli indicatori della salute come misura dei progressi conseguiti; d) sarà opportuno definire un quadro comune e sostenibile intorno al quale i paesi che contribuiscono possono organizzare la loro assistenza e i loro investimenti; e) è essenziale evitare la riesportazione da parte dei paesi debitori delle medicine importate a prezzi ridotti; f) le Banche di sviluppo devono aumentare il loro sostegno ai paesi poveri nel campo delle malattie infettive possibilmente attraverso il ricorso a prestiti a fondo perduto e a collaborazioni con il settore privato. I donatori dovrebbero sostenere l’eliminazione di prezzi pagati dagli utilizzatori delle medicine e dei meccanismi di recupero dei costi nei paesi poveri; g) deve essere creato un nuovo fondo basato sulla donazione di mezzo milione di dollari forniti da privati dei paesi del G8, che avrà lo scopo di finanziare interventi di massa preventivi e curativi nei paesi poveri.

Viste in dettaglio queste norme suscitano molte preoccupazioni, perché sembrano tendere a riportare gli interventi innovativi sotto il controllo delle istituzioni esistenti e a favorire per l’ennesima volta i gruppi privati multinazionali. In Italia la proposta è stata semplicisticamente presentata dai giornali come la richiesta a mille multinazionali di dare ciascuna un miliardo di lire italiane per il nuovo Fondo: la cifra è ridicola se rapportata al fatturato complessivo e alle spese per pubblicità di tali imprese e potrebbe essere concessa volentieri proprio per «coprire» quei meccanismi di dominazione e di sfruttamento che sono all’origine di tanta parte delle dinamiche globali.

Maggiore correttezza e rilevanza sembra invece al momento rivestire l’intervento auspicato dal Presidente della Repubblica Ciampi, che ha di recente più volte proposto un intervento più radicale per i paesi poveri dell’Africa, magari poco consistente (una cancellazione di poco più di quattro miliardi di dollari da parte della sola Italia?) ma da realizzare subito e senza condizioni e con la evidente speranza che altri paesi creditori del G8 vogliano seguire l’esempio.

Per concludere

Per concludere, è opportuno riferire cosa chiedono i contestatori della società civile, privi di poteri materiali ma ben decisi a modificare alcuni meccanismi giudicati insostenibili per i popoli del Sud.

In questa sede è impossibile elencare tutte le richieste formulate da coordinamenti, coalizioni, campagne che operano in un numero crescente di paesi; nel solo documento finale della consultazione del governo italiano con le organizzazioni non governative ne sono indicate quaranta. Si può però rilevare che le richieste sono in genere ben definite, possono essere realisticamente soddisfatte anche se comportano perdite per l’economia internazionale, ma soprattutto rivestono un alto valore strategico antiglobalizzazione. Imporre scelte di questo tipo significherebbe infatti aver obbligato il sistema dominante a modificare parti essenziali delle sue strategie di profitto e di espansione.

Possiamo tuttavia delineare sei grandi aree dove sono concentrate le maggior parte delle richieste, al fine di evidenziare le urgenze e le priorità più sentite dalla società civile.

La prima serie di richieste riguarda la cancellazione immediata e senza condizioni del debito dei 52 paesi più poveri. Il totale dei loro debiti supera di poco i trecento miliardi di dollari (rispetto ai 209 dell’Hipc) e anche in questo caso la richiesta non è riferita a tutti i paesi del sottosviluppo. Essa è però accompagnata dalla richiesta di creare un fondo per lo sviluppo che conceda finanziamenti per lunghi periodi di tempo (per esempio da venti a trenta anni) e a tassi di interesse bassissimi (diciamo 1 o 2%), cioè a livelli realmente sostenibili e che non diano più origine a fenomeni di accumulazione dei debiti. Si chiede inoltre la cancellazione dei crediti concessi dal Fondo monetario, dalla Banca mondiale e dalle altre Banche di sviluppo, finora sempre esclusi dalle misure di alleggerimento.

La seconda richiesta riguarda la finanziarizzazione dell’economia e la indiscriminata circolazione di capitali. Si tratta dell’introduzione di una tassa, peraltro quasi simbolica se rapportata ai profitti delle operazioni finanziarie (anche non puramente speculative o di riciclaggio di fondi di provenienza illecita), la cosiddetta Tobin tax dal nome dell’economista che la definì quasi 20 anni fa, che potrebbe non superare lo 0,25% del valore delle transazioni finanziarie. Costituirebbe però la prova che si è deciso di registrare i movimenti internazionali di capitali e l’intenzione di destinare una quota consistente di risorse a meccanismi effettivi di sviluppo dell’altra metà del mondo.

Il terzo gruppo di indicazioni fornite dal movimento internazionale riguarda le grandi istituzioni internazionali. Per l’Onu, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale per il commercio si chiedono drastici mutamenti di competenze e di poteri, in modo da renderli sempre meno dipendenti dai centri di potere economico, di nuovo orientati a sostenere i paesi poveri, più attivi nell’affrontare i problemi sociali e ambientali. Più in particolare si vuole che il Fondo torni a occuparsi dei problemi monetari e finanziari generali e non più del debito e dell’aggiustamento strutturale dei paesi del Terzo mondo, mentre al Wto si dovrebbe impedire l’espansione in altri settori di competenza, subordinando i temi commerciali alle esigenze di salvaguardia della biodiversità e al principio di precauzione per ogni intervento potenzialmente rischioso per l’ambiente.

La quarta tematica è quella ambientale, dove si chiede in primo luogo l’immediata ratifica dell’accordo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni, pur sottolineando l’assoluta inadeguatezza delle misure in esso previste rispetto al continuo aumento delle fonti di inquinamento, che colpiscono ormai milioni di persone. È inoltre ribadita l’opposizione alla diffusione senza limiti degli organismi geneticamente modificati e la pressante domanda di usare le conoscenze biotecnologiche in favore delle situazioni di carenza alimentare e sanitaria. Tema spesso richiamato è poi quello delle risorse naturali (foreste, terra coltivabile, acqua, specie a rischio di sparizione, risorse ittiche ecc.), la cui salvaguardia è ormai diventato un problema comune di tutta l’umanità.

La questione del commercio dei prodotti realizzati dai paesi sottosviluppati viene affrontata da molte parti del movimento internazionale, che richiede profonde modifiche delle logiche commerciali, perché 50 anni di politiche di sviluppo hanno ormai dimostrato che il sistema economico lasciato completamente libero non riduce certo le disparità. In particolare si chiede l’eliminazione degli ostacoli per le esportazioni verso le aree più industrializzate, ma si vuole anche impedire che tali misure favoriscano ulteriormente le filiali di imprese transnazionali che operano nel Sud del mondo o favoriscano altre colonizzazioni dei sistemi produttivi locali. Oggetto di molte richieste (trasparenza, politiche rispettose dell’ambiente, maggiore interesse per le esigenze delle popolazioni locali ecc.) sono le Agenzie di credito all’esportazione, che tanti danni hanno fatto contribuendo a peggiorare la situazione debitoria dei paesi del sottosviluppo.

Infine, i capitali da destinare al Sud. In molti casi si richiede il rispetto dell’obiettivo di trasferire almeno l’«1% del reddito nazionale dei paesi ricchi» già fissato alcune diecine di anni fa ma mai rispettato. Si deve però notare che nel frattempo la popolazione del Sud è aumentata in misura rilevante mentre i bisogni essenziali sono stati molto trascurati specie a partire dal 1980. Si dovrebbero quindi rivedere i calcoli, tenendo conto anche del fatto che nei paesi ricchi la media dei redditi è sempre più lontana dai bisogni minimi essenziali, ma soprattutto ripensando in profondità i modi con i quali effettuare il trasferimento e garantire un uso efficace delle risorse addizionali rese disponibili. Non si tratta certo di rifinanziare la Banca mondiale o di rilanciare la cooperazione allo sviluppo, occorre anche elaborare metodi innovativi di gestione e di responsabilità dei fondi.

Nei prossimi giorni si potranno fare delle valutazioni più precise su quanto di nuovo emergerà a Genova. Non dimentichiamo però che ulteriori delusioni non potranno che aumentare conflittualità e pressioni, mentre sarebbe ancora possibile far intravedere una alternativa. Ogni forza sociale si sta ormai assumendo precise responsabilità e c’è solo da operare affinché quelle dirette a delineare scenari più positivi prevalgano a tutti i livelli.


Economia

Nel primo trimestre 2001, l’economia americana è cresciuta del 2% e la spesa al consumo è cresciuta del 3,1%, scriveva la stampa internazionale a fine aprile. I motivi di questa crescita, segnale di ripresa, li spiegava Greenspan1: fiducia dei consumatori; le imprese si sono sbarazzate delle scorte; i notevoli aumenti di produttività degli anni scorsi. È vero, aggiungeva Greenspan, che ci sono segni di aumento del tasso d’inflazione, ma poiché il calo dei mesi scorsi era provocato specialmente dalla necessità di sbarazzarsi delle scorte accumulate, si poteva pensare che si stava risalendo.

A fine maggio, invece, si veniva a sapere che il dato ufficiale del 2% era sbagliato; andava corretto in +1,3% e che la spesa al consumo era cresciuta del 2,9%2 – e le previsioni non erano rosee. «Lawrence Lindsey, consigliere economico capo – scriveva il Financial Times3 – ha detto che  l’economia sta “probabilmente crescendo a un tasso di circa l’1%” ed era in bilico tra un forte calo degli investimenti e un consumo ancora forte»; e qua la riduzione delle tasse, per un totale di 1,35 miliardi di dollari in dieci anni, dovrebbe aiutare – a dispetto del fatto che il tasso d’incremento della produttività si è praticamente fermato, e questo potrebbe far calare ulteriormente gli investimenti. Del resto, già a metà maggio le notizie erano tutt’altro che buone. Scrive l’Herald Tribune4  il problema principale erano gli investimenti – anche perché le riduzioni del tasso d’interesse della Federal reserve possono avere dei riflessi positivi sui consumi, ma non ne hanno altrettanti sugli investimenti.

Il problema, spiegava il quotidiano, è che «sull’esuberanza e le promesse, o i miraggi, di grossi profitti, le imprese hanno speso enormi somme in attrezzature, edifici, fabbriche, calcolatori, software, aerei, siti web, camion, reti telefoniche e tutto l’insieme che viene utilizzato per produrre e distribuire beni e servizi. Il mercato azionario in rialzo aiutava a finanziare questi investimenti e l’inflazione non era più un problema. Poi, la primavera scorsa, i dirigenti hanno bruscamente frenato i loro investimenti, rendendosi conto che con tutta la nuova attrezzatura essi potevano produrre molto più di quanto potessero vendere. Ad esempio, il settore dei calcolatori ha gli impianti, le linee di montaggio e lo spazio per aumentare subito la produzione di un 25%. E una capacità produttiva inutilizzata dello stesso genere si trova nel settore chimico, in quello dell’auto, degli aerei, della plastica, dei servizi telefonici a lunga distanza e in altri settori ancora. L’aumento degli investimenti ha contribuito per circa un terzo alla crescita dell’economia americana dal 1991 in poi, stando ai dati del Commerce department. È il doppio di quanto avvenne durante l’espansione degli anni Ottanta».  Insomma, se si misura la salute dell’economia in termini di crescita, le cose non vanno male, ma non promettono niente di buono – e lo si può capire anche da un breve commento del Financial Times5: «Secondo certe valutazioni, la produzione di beni e servizi deve crescere a un tasso tra il 3,5 e il 4% per impedire che la disoccupazione aumenti, data la crescita di produttività e di manodopera disponibile».

Non chiedeteci il perché di questo brusco calo, ma non occorre una grande scienza per vedere alcune cause. Una sta nella bubble – la bolla, o bubbola – borsistica, il cui scoppio, scrive sempre il Financial Times, accade oggi negli Stati Uniti com’è avvenuto nel 1991 in Giappone. «Negli Stati Uniti, la bolla Nasdaq fu il culmine di una bolla azionaria che era andata gonfiandosi per cinque anni. Questa crescita senza precedenti finì per ricadere anche sull’economia reale. Le imprese e i consumatori cominciarono a cercare nel mercato azionario una fonte permanente di fondi e di risparmi. Perciò c’è poco da stupirsi che la spesa in capitali sia aumentata in modo eccessivo, o che il tasso di risparmio individuale sia sceso sotto zero per la prima volta dal 1933. Si era perso ogni senso di disciplina.» Perché, come sapete, l’economia è una cosa scientifica.

Adesso, il pericolo viene principalmente dalla riduzione dei costi – che «come sempre, si concentra su due fattori produttivi principali: impianti e manodopera». Insomma, «grazie alla bolla borsistica, gli Stati Uniti hanno vissuto per diversi anni aldilà dei loro mezzi» – e perciò hanno registrato un aumento degli investimenti che nel terzo trimestre del 2000 si aggirava ancora sul 14% circa del pil, una crescita del deficit dei conti correnti data la necessità di nutrire gli investimenti con danaro straniero, e infine un debito privato alle stelle. Conclusione del Financial Times: «Molto probabilmente gli Stati Uniti non torneranno ai giorni della goduria ancora per un bel pezzo».

Troppi  investimenti vogliono dire eccesso di capacità, ovviamente. E da questo punto di vista il problema ricade oggi sull’intero settore manifatturiero. Scrive Business Week6  che «secondo la Federal reserve, l’industria manifatturiera stava in febbraio al 78,1% della sua capacità, il livello più basso in nove anni. Sono stati particolarmente colpiti i produttori di beni tecnologici. Ancora nell’estate scorsa i produttori di semiconduttori giravano al 100% della loro capacità; adesso sono calati all’80%. Stessa cosa per le imprese di calcolatori, i cui tassi di attività sono oggi i più bassi degli ultimi tre anni. Il settore dell’auto andava a circa il 90% della sua capacità un anno fa, e adesso oscilla attorno al 70%» – e si potrebbe continuare. Perciò, «anche se ce la fa a evitare una recessione, prima di tornare alla crescita, l’economia americana dovrà fare i conti con gli eccessi degli ultimi anni Novanta in fatto di investimenti e assunzioni».

A questo punto il discorso cade necessariamente sulla questione lavoro. In aprile il tasso di disoccupazione era salito al 4,5% – e l’impiego nel settore privato non agricolo è calato di 223.000 posti lavoro7, dopo essere calato di 53.000 posti in marzo; non sono dati impressionanti, ma indicano una tendenza. «Questa perdita di posti lavoro aumenta il rischio che l’economia sia vicina – o sia già dentro – a una recessione», commenta Business Week8 – e questo perché «i consumatori hanno fornito la parte maggiore della crescita economica (quindi) i licenziamenti potrebbero abbattere il sostegno ai consumi che viene dal reddito, o indebolire la fiducia dei consumatori». È vero che, secondo i dati del Labor department, i salari sono in aumento a un tasso annuo del 5,2% e questo rafforza il potere d’acquisto; ma, si può obiettare, aumenta anche i costi, quindi la voglia di ridurli – tanto più che questo aumento non è più compensato da incrementi di produttività – che, in parole povere, vuol dire che il lavoratore non produce più di quanto guadagna. Così, «negli ultimi tre trimestri i costi unitari sono aumentati al tasso del 4,3%, il tasso più elevato degli ultimi dieci anni», con un corrispettivo calo dei profitti.

Insomma, è possibile che i provvedimenti presi dalla Federal reserve – ripetuti tagli del tasso d’interesse e stimoli fiscali – abbiano effetti positivi nel secondo semestre di quest’anno; ma la situazione si gioca essenzialmente in termini di produttività (costi/profitti) e di livello dei consumi (occupazione/spesa). Scrive sempre Business Week9che «la pressione a ridurre i costi può mantenere alta la produttività (ma) ci sono molti segni che la sparizione di posti lavoro si sta traducendo in riduzione dei consumi (e) con l’aumento dei licenziamenti e il calo del reddito, le famiglie cominceranno a sentire il peso del debito assunto durante il boom. (Tanto più) che non è probabile che l’occupazione si riprenda. Ogni giorno c’è una nuova ondata di annunci di licenziamenti». E il settimanale conclude anch’esso che «gli Stati Uniti possono ancora evitare la recessione, ma con tre mesi di calo occupazionale e altri licenziamenti in arrivo, questo non sembra probabile». 

E' solo un fatto americano? Tutt’altro. Che dipenda direttamente dall’andamento del mercato americano, o che sia per altre cause, l’economia mondiale è stitica. Non parliamo dell’Europa, che richiederebbe un lungo discorso a parte, ma vediamo l’Asia e l’America Latina – da dove si diffuse la crisi finanziaria degli anni scorsi. «In tutta l’Asia – scrive l’Herald Tribune10 – la depressione americana sta pesando parecchio, riducendo le esportazioni e minacciando di mandare all’aria la ripresa della crisi finanziaria del 1997. Molti temono che il peggio non sia ancora arrivato.» La cosa è abbastanza ovvia se si pensa che nel 2000 le esportazioni verso gli Stati Uniti contavano per il 25% del totale asiatico; ed è non meno evidente che un forte calo di questa quota si riflette anche sulle esportazioni interasiatiche. «In aprile, le esportazioni sono calate dell’11,3% a Taiwan, del 10% in Thailandia, del 9,9% in Corea del Sud e del 2,4% a Hong Kong. Anche la potente macchina delle esportazioni giapponesi perde colpi. Nell’anno finanziario chiuso il 31 marzo scorso, l’attivo commerciale giapponese è calato del 20,6%, e in aprile è sceso del 41,6%.»

A subire le conseguenze peggiori sono le imprese di high-tech – cioè quelle che forniscono ogni sorta di parti al settore americano dell’alta tecnologia informatica. Il solo paese che non sia coinvolto in questa spirale discendente del mercato tecnologico pare sia la Cina – le cui esportazioni verso gli Stati Uniti in questo settore sono aumentate dell’11% (ma non abbiamo dati su come vanno adesso). La Cina ha avuto un tasso di sviluppo del 7,5% nel primo trimestre di quest’anno e molti dicono che scenderà a circa il 7%; «ma molti analisti prevedono un aumento degli investimenti diretti stranieri» – sinché la manodopera costerà poco?

Che dipenda o no dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, la situazione economica di diversi paesi asiatici sembra traballante. In Giappone, afflitto da una debolezza economica che dura da quando, 11 anni fa, gli scoppiò in faccia la sua bolla speculativa, la produzione industriale è scesa in aprile dell’1,7%, cioè aldilà delle previsioni – e dopo un calo del 2,1% in marzo; la disoccupazione è al 4,8%, cioè poco sotto il 4,9% del gennaio scorso11 – e si parla insistentemente di una vicina recessione. Per l’Indonesia la società di valutazioni finanziarie Standard&Poor’s ha scritto in un suo recente rapporto che «l’instabilità politica, la debolezza istituzionale e lo spettro di una disintegrazione del paese che indebolisce la coerenza della politica economica, colpiscono i rapporti con i creditori pubblici e innervosiscono i mercati finanziari»12 – e il governo ha recentemente abbassato le sue previsioni di crescita del pil dal 5 al 3,2%, mentre ha alzato quelle relative all’inflazione dal 9 al 9,5%. In Corea del Sud, nel primo trimestre 2001 rispetto all’ultimo trimestre del 1999, il pil è cresciuto del 4,6% – ma la crescita era stata del 9,2% nel terzo trimestre 2000. Secondo la Bank of Korea, l’economia è cresciuta nel 2000 dell’8,8% – ma nel 1999 il tasso di crescita era stato del 10,9%. La disoccupazione è al 5%13.

Infine, l’America latina. Qua le nostre informazioni sono scarse, ma un accenno alla situazione in Argentina può dare un’idea. Scrive Newsweek14 che l’Argentina non è mai uscita dalla crisi del 1998, ha una disoccupazione sul 13-15% e gli esperti dicono che il governo finirà per mancare ai suoi impegni rispetto a un debito sui 140 miliardi di dollari, in larga parte dovuto a finanziatori stranieri. In tempi normali, osserva il settimanale, un eventuale default di questo genere ricadrebbe soltanto sugli investitori ma, a parte che questo non si è mai visto, data la situazione negli Stati Uniti e in Giappone, «danneggiando il commercio e gli investimenti in tutta l’America latina, esso potrebbe peggiorare la depressione globale (e) potrebbe scatenare la prossima crisi finanziaria». In effetti, continua il settimanale, «la minaccia peggiore consiste in un brusco calo dei capitali stranieri in America latina. Tutte le maggiori economie latino americane hanno un notevole deficit dei conti correnti – che è come dire che le loro esportazioni, il loro turismo e i loro investimenti non bastano a pagare le importazioni e il servizio del debito. Nel 2000 il deficit totale ammontava al 4,2% del pil in Brasile, al 3,3% in Argentina e al 3,1% in Messico (ed) esso è di solito coperto da investitori stranieri».

Un calo in questo flusso di capitali si ripercuoterebbe sul commercio mondiale – che già, secondo la Banca mondiale, aumenterà nel 2001 per solo la metà del tasso del 2000; infatti se calano i flussi che permettono a molti paesi latino americani di importare si avrebbero ripercussioni negative sul commercio interlatino americano, oltre che dagli Stati Uniti e dall’Europa. «Ad esempio, nel 1999 l’Argentina diresse il 24% delle sue esportazioni verso il Brasile e intanto l’America latina assorbì esportazioni statunitensi per 142 miliardi di dollari (di cui 86 miliardi in Messico, 13 miliardi in Brasile, 5 miliardi in Argentina), nonché per 54 miliardi di dollari dall’Europa.» Allora? Allora, conclude il settimanale, staremo a vedere, ma «il punto è che una nuova crisi finanziaria, dovunque possa apparire, sarà meno controllabile di quella passata. Guardando all’indietro, il motivo fondamentale per cui l’Asia si riprese rapidamente dalla crisi del 1997-98 fu il boom americano. L’Asia potè affrontare il problema del suo debito esportando verso gli Stati Uniti e la fiducia americana impedì che le cattive notizie avessero effetti devastanti. Questa volta potremmo non essere altrettanto fortunati».

E allora, come si presenta l’economia mondiale? Un editoriale del Financial Times15  osserva che «gli investitori stanno aspettando col fiato sospeso di vedere se l’economia americana cade nella recessione o torna in buona salute. Sinora non ha fatto né l’uno né l’altro». E poiché perlomeno molto dipende da come si metteranno le cose negli Stati Uniti, altrettanto si può dire dell’economia mondiale. Però bisogna aggiungere che da qualche mese la stampa internazionale più qualificata non è stata avara di timori, per non dire di avvertimenti. Cominciamo con un editoriale dell’Herald Tribune16 del marzo scorso. «Gli Stati Uniti e il Giappone – esso nota – sono la prima e la seconda economia del mondo e contano per circa la metà del pil globale» – e stanno male tutt’e due. A esse, l’editoriale aggiunge la situazione precaria in Turchia e in Argentina, che «presenta lo spettro di un’altra crisi dei mercati emergenti». Stessa osservazione in un editoriale dell’Eco-nomist17  – il quale nota che se Stati Uniti e Giappone cadono in una recessione, «sarà la prima volta dal 1974 che questo avviene simultaneamente nelle due maggiori economie mondiali» – e anche sfuggono a una recessione, gli Stati Uniti dovranno passare per un calo notevole dell’economia.

Anche Le Figaro18 osserva che, contrariamente a quanto avvenne nella crisi finanziaria del 1997-98, questa volta «il rallentamento – è ancora troppo presto per parlare di recessione – si manifesta nel cuore stesso del sistema. È la Borsa americana che si è afflosciata e non il baht thailandese, come nel 1997» – e questo insieme a una situazione economica in Giappone sull’orlo della crisi. Perciò, mentre anche durante la crisi precedente, il pil mondiale si mantenne sul 2,5%, oggi dovrebbe aggirarsi sul 2,2% nel 2001, contro il 4% del 2000. E non è ancora recessione. Secondo la Banca mondiale, la zona euro dovrebbe avere un tasso di crescita del 2,5%, l’insieme dei paesi emergenti (dall’America latina alla Cina e alla Russia) arriverebbero al 4,2%; ma Indonesia, Corea del Sud, Filippine, Thailandia e Malaysia dovrebbero calare al 3,7% contro il 7% dell’anno scorso. Motivo: una situazione finanziaria che ancora non si è ripresa dalla crisi precedente – e dai motivi che l’avevano alimentata.

Qua s’inserisce un altro fattore di squilibrio, che raramente viene esaminato. «La Banca mondiale osserva che i capitali internazionali investiti nelle economie in sviluppo non hanno ancora ritrovato i livelli di prima della crisi asiatica. L’anno scorso essi hanno raggiunto i 257,2 miliardi di dollari, contro i 299,8 miliardi del 1997. In totale, questi paesi ricevono, tutti insieme, meno capitali internazionali degli Stati Uniti da soli.» Si verifica così un fatto apparentemente strano: «Anziché facilitare un riorientamento  di capitali verso le altre regioni del globo, la crisi economica e finanziaria americana penalizza in primo luogo i paesi emergenti. La Turchia e l’Argentina sono soltanto i casi più spettacolari di una fuga generalizzata di capitali verso valori sicuri, anzitutto negli Stati Uniti».

La cosa può essere spiegata parlando di sistemi bancari e finanziari in genere piuttosto traballanti, di cattiva gestione, di corruzione e di norme poco chiare, ma anche ammettendo che la spiegazione sia sufficiente, il fatto resta decisivo in senso strutturale. «La teoria neoclassica dello sviluppo – commenta Le Monde19 – postula che il capitale disponibile nei paesi con reddito individuale elevato, deve immancabilmente dirigersi verso paesi a reddito individuale debole perché lì la produttività del capitale è più forte.» Ma secondo esperti autorevoli dicono che «”contrariamente alla teoria, è il paese più ricco e più sviluppato che attira il grosso degli investimenti di portafoglio”. (E) ironia delle cose, persino il risparmio dei paesi in via di sviluppo avrebbe cominciato a fuggire dalla sua zona di origine per andare in investimenti (...) negli Stati Uniti».

Il discorso è grosso, e beninteso non intendiamo affrontarlo, ma anche solo per accennarlo, bisogna notare che secondo le statistiche «i soli Stati Uniti ricevono tre volte tanto gli investimenti dell’insieme dei paesi emergenti. Gli investimenti stranieri diretti obbediscono a una sola legge, il rendimento, e non è  perciò un caso che sui 400 miliardi di dollari l’anno siano venuti in questi ultimi anni a irrigare il sistema produttivo americano, mentre Messico e America latina ricevevano solo da 40 a 50 miliardi, la Cina 30, i paesi emergenti dell’Asia 10, India e Pakistan 5 o 6 miliardi. Il divario è ancora più forte in fatto di investimenti di portafoglio. Tra il 1999 e il 2000, essi hanno raggiunto punte di 400 miliardi di dollari negli Stati Uniti, mentre stavano vicino allo zero assoluto nei paesi emergenti, quando non erano addirittura negativi». Come dire, osserva sempre il quotidiano, che la famosa globalizzazione, cioè l’abolizione delle frontiere finanziarie, «anziché generalizzare il mercato a tutto il pianeta, sbocca in un sorprendente paradosso: i capitali e gli investimenti produttivi si concentrano in un solo paese, quello che apparentemente ne ha meno bisogno, cioè gli Stati Uniti». E il quotidiano aggiunge che mentre a metà degli anni Novanta la quota di capitale straniero nelle imprese americane era vicina allo zero, oggi essa tocca il 20% e potrebbe arrivare al 50% entro il 2007.

Ai nostri occhi inesperti, questa appare come una spirale: le difficoltà americane impoveriscono una larga parte del pianeta e questo, a sua volta, si ripercuote sull’economia americana, e non soltanto, attirando altri capitali – e così via. Ma, evitando un discorso che porterebbe lontano, ci limitiamo a registrare le previsioni fatte dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale20. L’Fmi ha riveduto al ribasso le sue previsioni del settembre 2000: una crescita mondiale al 3,4% (contro 4,8%), Stati Uniti all’1,7% (contro 2,2%), zona euro al 2,7% (contro 3,3%), Francia al 2,8%, Gran Bretagna al 2,7%, Italia al 2,5% e Germania al 2,2%. Ma la Banca mondiale è più pessimista: 2,2% per la crescita mondiale, 1,2% per gli Stati Uniti, zona euro al 2,5%. Anche prendendo per buone le previsioni dell’Fmi, il quadro complessivo è questo:

  

2000  

Ottobre 2000  

aprile 2001*

Stati Uniti  

5,0  

1,2  

1,5

Zona euro  

3,4  

3,4  

2,4

Giappone  

1,7  

1,8  

0,6

Asia in sviluppo  

6,9  

6,6  

5,9

Tigri asiatiche**  

8,2  

6,1  

3,8

America latina  

4,1  

4,5  

3,7

Russia ed Europa orientale  

5,8  

4,1  

4,0

*Previsioni per il 2001, fatte nell’ottobre 2000 e nell’aprile 2001.

**Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan. 

Fonte: Fmi, «Economist», 28 aprile 2001.


1 Sylvie Kauffmann, L’économie américaine a crû à un rythme annuel de 2% au premier trimestre, «Le Monde», 30 aprile 2001.

2 Pierre-Yves Dugua, L’économie américaine poursuit son ralentissement, «Le Figaro», 27 maggio 2001.

3 Gerard Baker, Bush aides damp growth hopes, «Financial Times», 9 maggio 2001.

4 Louis Uchitelle, Corporate pullback spreads doubts, «International Herald Tribune», 15 maggio 2001.

5 Peronet Despeignes, Revised US growth figures show economy at a virtual standstill, «Financial Times», 26 maggio 2001.

6 Rich Miller, Too much of everything, «Business Week», 9 aprile 2001.

7 Another shot in the arm, «Economist», 19 maggio 2001.

8 The challenge from job losses, «Business Week», 21 maggio 2001.

9 Michael J. Mandel, Recession, is it inevitable?, «Business Week», 21 maggio 2001.

10 Clay Chandler, Wider downturn seen for Asian economies, «International Herald Tribune», 31 maggio 2001.

11 Japan’s slide toward recession picks up steam, «International Herald Tribune», 30 maggio 2001.

12 Arnaud Rodier, L’Indonésie au bord de la paralysie, «Le Figaro», 3 maggio 2001.

13 Don Kirk, A sharp slowdown in South Korea, «International Herald Tribune», 21 marzo 2001.

14 Robert J. Samuelson, Is Argentina a time bomb?, «Newsweek», 23 aprile 2001.

15 Questioning the recovery, «Financial Times», 26 maggio 2001.

16 Shaky world economy, «International Herald Tribune», 21 marzo 2001.

17 Can the world escape recession?, «Economist», 14 marzo 2001.

18 Jean-Pierre Robin, Les Etats-Unis font payer leur crise à leurs partenaires, «Le Figaro», 12 aprile 2001.

19 Yves Mamou, La pompe américaine aspire l’épargne mondiale, «Le Monde», 10 aprile 2001.

20 Babette Stern, Coups de froid sur la croissance économique dans le monde, «Le Monde», 26 aprile 2001.