E l’economia?
Osservava nel
gennaio scorso un autorevole quotidiano americano che «gli esperti non hanno
previsto alcuna delle nove recessioni che si sono susseguite dalla fine della
Seconda guerra mondiale» – e questo ci permette di trattare di economia
mondiale, senza alcuna pretesa, certo, ma anche senza timore. Del resto, ciò
che ci interessa è soltanto una domanda: quali prospettive per l’economia
mondiale? E sapete anche voi che oggi questa domanda è più che giustificata.
Cerchiamo di rispondere consultando, come al solito, la stampa internazionale e
riportando le opinioni degli altri. Non parliamo della situazione europea perché
questo richiede un discorso a parte, ma ovviamente l’Europa non è fuori dal
mondo.
Per cogliere il senso della situazione economica americana, oggi, bisogna risalire all’inizio del 1999, quando nel pieno dell’euforia generale, il gran capo della Federal reserve, Alan Greenspan, ritenne necessario mettere le mani avanti in una sua relazione alla Commissione economica della Camera. Va tutto bene, egli disse in sostanza, però: «l’espansione economica americana è stata sostenuta da un giro di crescente spesa al consumo, alimentata a sua volta dai guadagni in Borsa e questo è un dato di implicita instabilità»; poi, è vero che i maggiori consumi sono dovuti al fatto che dal 1992 il reddito delle famiglie è aumentatato del 50%, ma nello stesso periodo il risparmio familiare è sceso dal 6% a quasi zero; infine, «i profitti delle società sono scesi negli ultimi trimestri».1
Non l’ascoltò nessuno. Le cose andavano a gonfie vele. Spiegava, ad esempio, il Financial Times2 che nel 1998 la spesa per consumi individuali era stata di 334 miliardi di dollari, e che tra l’ultimo trimestre 1997 e l’ultimo trimestre 1998 l’aumento di questa spesa era stato di circa il 7% in termini reali, l’aumento maggiore in quindici anni. I motivi? Il quotidiano elencava: lo straordinario aumento dell’occupazione; una tendenza all’aumento dei salari (sul 4% annuo nel 1998 e 1999); il calo del tasso dell’inflazione; il calo dei tassi d’interesse. Tutti dati reali. Però capitava che, sempre ad esempio, l’Herald Tribune3 intitolasse un suo breve editoriale: «Prosperità misteriosa», e scrivesse che «L’economia americana è cresciuta nell’ultimo trimestre 1998 di uno sbalorditivo 5,6% ed è cresciuta del 4% sull’intera annata, cioè come nel 1997 e circa il doppio del tasso previsto dagli economisti. Disgraziatamente, nessuno sa con certezza perché l’economia americana si dimostri così elastica» – e si chiedeva se, tutto sommato, non avesse ragione Greenspan a mettere in guardia dalla diffusa «esuberanza irrazionale».
In effetti, certi dati, che non apparivano in superficie, lasciavano perplessi. Tra i principali, il deficit con l’estero. Nel novembre 1998 era salito di altri 15,5 miliardi di dollari, raggiungendo così i 164 miliardi di dollari (110 miliardi nel 1997). Interessante, e significativo, il motivo: «l’industria manifatturiera americana continua a essere mazzolata dalla crisi finanziaria globale, la quale ha inciso profondamente sulle sue esportazioni e ha scatenato un’ondata di importazioni relativamente poco costose». Si tratta, per l’esattezza, della crisi finanziaria del 1997, che colpì specialmente l’area del Pacifico – tant’è che il deficit americano era di 58 miliardi col Giappone, di 53 con la Cina, e per l’intera regione del Pacifico di 149 miliardi circa – a novembre.4
Comunque, il 1999 passò e solo nei primi mesi del 2000 si cominciarono ad avvertire dei tremori, in Borsa, quando i valori tecnologici e della new economy smisero di volare. È un discorso complesso, che riassumiamo con dei dati forniti dal Financial Times5. Tra l’inizio del 1994 e l’inizio del 2000, osserva il quotidiano, l’indice Dow Jones è triplicato, «ma nello stesso periodo gli indici economici basilari non sono affatto triplicati. Il reddito personale e il prodotto interno lordo sono aumentati meno del 30% e quasi la metà di questo aumento è dovuto all’inflazione. I profitti societari sono aumentati meno del 60% e questo rispetto a un periodo di temporanea recessione». Bisognerebbe spiegarlo – e si dovrebbe allora riesaminare molti degli argomenti della new economy, ma ci limitiamo a sottolineare questo aspetto fondamentale del miracolo americano.
Altro aspetto significativo: l’aumento dei consumi e la convinzione che nella new economy l’inflazione fosse morta. «La domanda interna reale è aumentata di oltre il 6% in termini annuali nel terzo trimestre 1999 e di oltre il 7% nell’ultimo trimestre» – continuando una tendenza che esisteva dal 1997 – e senza un aumento del tasso d’inflazione. Ma, nota sempre il quotidiano, la discrepanza tra domanda e offerta ha provocato un notevole aumento del deficit verso l’estero, che nel 1999 era pari al 3,7% del pil. Infine, il volo della Borsa – che tra la fine del 1994 e l’inizio del 2000 ha portato i valori a un totale di 10.000 miliardi di dollari (correnti), superando così il pil di oltre il 5%. Questo volo portava dollari alle casse delle società e permetteva loro di incrementare gli investimenti; ma «tra consumi crescenti e maggiori investimenti il settore privato mostra un deficit finanziario record pari a circa il 4,5% del pil»; e se si aggiunge il debito estero si arrivava a un indebitamento complessivo pari a circa il 20% del pil.
Poi ad aprile venne il primo forte scossone del Nasdaq, con una perdita improvvisa valutata sui 2.000 miliardi di dollari, pari al 25,3% – «il peggiore calo settimanale mai visto dell’indice borsistico americano, peggiore persino del leggendario venerdì nero del 1929, peggiore del crollo che nel 1987 mandò giù gli indici industriali Dow del 22,6% in un solo giorno» – scrisse Newsweek6. Come abbiamo cercato di spiegare in un altro numero del nostro bollettino7, la botta fu pesante (e lo furono ancor più quelle che seguirono nel corso dell’anno), non si può parlare di crollo; però circolò una domanda che sino a poco prima sembrava ingiustificata: che rapporto c’è tra valori borsistici e fondamentali? I fondamentali sono solidi, fu l’immediata risposta – e il Wall Street Journal8 chiedeva: sì, ma di quali fondamentali stiamo parlando? Se s’intendeva una «espansione del credito senza precedenti» c’era da preoccuparsi, perché in quel caso era in ballo la fonte principale di credito alle società, cioè la Borsa. Per dirla in altre parole: se le società si finanziano specialmente attraverso l’aumento dei valori borsistici vuol dire che si alimentano col credito – cioè col debito; e infatti «il debito totale, che la Federal reserve calcolava in febbraio a 17.500 miliardi di dollari, da qualche tempo sta crescendo più rapidamente dell’economia. Benché il governo centrale registri un attivo, la montagna debitoria, pubblica e privata, era aumentata in febbraio del 6,5% rispetto a un anno prima e la crescita economica, pur molto alta in termini storici, era di due punti più bassa».
A questo bisogna aggiungere gli effetti della fenomenale corsa di singoli privati ad acquistare titoli di Borsa – a credito. «Le famiglie americane – scriveva un esperto – hanno il 56% dei loro beni finanziari legati al mercato azionario, contro il 28% nel 1989. Il debito ipotecario è pari al 43% del valore delle case di abitazione, contro il 30% nel 1985. (Inoltre) in un bilancio riguardante oltre 30.000 miliardi di dollari i beni liquidi in depositi bancari ammontano a meno di 4.000 miliardi. In breve, il bilancio collettivo del consumatore americano è estremamente illiquido.» (Qua occorre una precisazione. È vero che in media il 41% delle famiglie americane possiede azioni; ma osserva Le Figaro9 che il 68% del totale delle azioni è in mano al 36% delle famiglie – come dire che l’«effetto ricchezza» tocca soltanto una minoranza delle famiglie, e che altrettanto vale per gli altri «effetti» che ne derivano). Ci fermiamo qua, ma dovrebbe ora essere più chiaro perché nel marzo 2000 – davanti allo scossone borsistico e all’aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio – la Federal reserve giudicasse che «un tasso di crescita del 6,9% (ritmo annuale nel quarto trimestre 1999) non è sostenibile a lungo e che un tasso del 3,5-4% sarebbe più ragionevole».10
Tuttavia non ci furono reazioni di panico diffuso. Anzi, spiegava il Financial Times11, la Federal reserve aveva sì alzato gradualmente i tassi d’interesse, ma Alan Greenspan si trovava sempre davanti al problema di come far rallentare una crescita economica troppo veloce senza con questo provocare una recessione. Il cosiddetto «atterraggio morbido» – che tutti, pare, auspicavano, mentre l’economia continuava a crescere. Bisogna soffermarsi sul periodo che grosso modo va da aprile a ottobre non tanto per vederne l’andamento economico, quanto per cogliere aspetti determinanti dell’economia americana oggi – e delle sue difficoltà.
Una congiuntura paradossale, titolava in maggio Le Figaro12: forte crescita, poca inflazione, forti incrementi di produttività, pieno impiego; ma anche: valori borsistici ancora troppo elevati, eccessivo debito delle famiglie, deficit commerciale e debito estero considerevoli. Perciò una possibile lettura positiva su questi punti: il raddoppio degli investimenti produttivi dalla metà degli anni Ottanta, dal 6 al 12% del pil, con il 50% di questi investimenti in nuove tecnologie (contro un 15-20% in Europa); quindi anche un forte incremento di produttività (sul 3%), con la prospettiva di aumentarlo ancora nei prossimi anni; inflazione controllata, dato che gli aumenti salariali (oltre il 4% l’anno in media) sono più che compensati dalla produttività e non alzano il costo del lavoro.
Poi una possibile lettura negativa. Ancora una volta il debito delle famiglie – pari al 110% del reddito annuo disponibile; ancora il debito estero; in più il fatto che «l’aumento dello stock di capitale se da un lato comporta un incremento di produttività del lavoro, dall’altro aumenta anche il costo del capitale (interessi sul debito che finanzia il capitale produttivo, ammortamenti). Siamo quindi davanti a un’economia in cui aumenta l’intensità del capitale e resta elevatissima la leva dell’indebitamento». Diciamolo in parole povere: un’economia in cui l’investimento si fonda sull’indebitamento, come strategia economica. Cioè, «gli Stati Uniti ottimizzano la loro struttura di indebitamento e le loro scelte tecnologiche in base all’ipotesi che la crescita resterà forte e i tassi d’interesse bassi. Una diversa evoluzione avrebbe delle conseguenze gravi».
In questo giro l’andamento dei titoli azionari è fondamentale, perché è in larga parte la fonte di una ricchezza virtuale che può ripercuotersi su quella reale. Lo spiegava brevemente l’Economist13 rispondendo alla domanda: «quanto può nuocere all’economia americana un crollo del mercato azionario?». La risposta corrente, osservava il settimanale, è che anche una caduta dei valori azionari non provocherebbe una recessione perché «l’economia reale è fondamentalmente sana» – e non mancavano gli argomenti a favore di questo ottimismo. Ma guardando meglio, continuava il settimanale, ci si accorge che «l’economia americana è meno solida di quanto sembri». E qua tornano gli argomenti che abbiamo già visto: l’orgia di indebitamenti di singoli privati e delle società – quindi la forte dipendenza da un mercato azionario gonfiato; il deficit dei conti correnti con l’estero, con un passivo commerciale che nel primo trimestre 2000 stava a 409 miliardi in ritmo annuo e delle foreign liabilities (impegni debitorii) per 1.500 miliardi di dollari, pari al 20% del pil; un tasso d’inflazione che scalpita sotto il controllo federale.
Un dato su cui si insiste molto è l’indebitamento verso l’estero – un discorso complesso, che riguarda anche l’economia mondiale. «Il risultato – osservava Le Figaro14 – è una dipendenza crescente dell’economia americana dal risparmio mondiale. Sinora questo risparmio ha coperto senza problemi questo baratro finanziario. Nel primo trimestre 2000 gli acquisti, specialmente da parte europea, di obbligazioni del tesoro americano hanno toccato cifre elevate, ma ha sorpreso in particolare l’acquisto di azioni e obbligazioni del settore privato: 61,3 miliardi di dollari per le azioni (su base annua), contro 34,4 miliardi nell’ultimo trimestre 1999, e 71,2 miliardi per le obbligazioni, contro 58 miliardi.» Ma, continuava il quotidiano, «questa situazione non può durare e l’economia americana non può indefinitamente continuare ad assorbire più del 40% del risparmio mondiale». Quindi il problema dell’atterraggio morbido, come prevenzione di un crollo probabile – un calo dal 5 al 2,5% del tasso di crescita.
A fine ottobre, il tasso di crescita scese davvero al 2,7%. Gli economisti avevano previsto (o auspicato?) un calo al 3,4% – e la differenza è significativa. Il calo non era venuto dai consumi, che anzi pare fossero aumentati, ma da «un cedimento del ritmo sfrenato degli investimenti societari e da un minore aumento degli stock. La spesa per investimenti in nuovi impianti e nuove attrezzature è aumentata soltanto del 2,9%, contro l’11% registrato nel secondo trimestre»15. Era cominciata una fase nuova.
Una prosperità senza precedenti, scriveva Le Monde16 ancora a fine ottobre. Ed era vero. «In ottobre l’economia americana è entrata nel suo 115° mese consecutivo di crescita, più di nove anni senza interruzione, un ciclo senza precedenti in periodo di pace»; il tasso di crescita per il 2000 era previsto al 5%, contro il 4,2% del 1999; 22 milioni di nuovi posti lavoro; la disoccupazione al 3,9%. Ma era proprio vero che «l’economia americana non risponde più ai modelli classici, sembra essersi liberata dai tradizionali ostacoli di ogni ciclo economico»?
Un pezzo di risposta la dava l’Economist17. I profitti stavano calando. Grandi società dell’informatica come Xerox, Dell, Intel, Apple, Ibm, grandi banche come la Chase Manhattan, avevano dovuto annunciare un calo dei loro profitti – e subire di conseguenza una caduta dei loro titoli. «Da marzo, il Nasdaq è calato del 40%, una perdita superiore a quella subìta dall’indice industriale Dow Jones nello schianto del 1987.» Questo capita quando la crescita rallenta, ma «ciò che questa volta è diverso – e preoccupante – è che il lungo periodo di mercati “toro” hanno introdotto molte distorsioni nel modo in cui vengono calcolati i profitti societari. Se il mercato azionario continua a scendere, i benefici andranno perduti e, in alcuni casi, rovesciati». Per «distorsioni» il settimanale intende probabilmente che, anziché provenire dall’attività produttiva e commerciale, come nella old economy, i profitti essenzialmente provenivano dall’andamento borsistico, la new economy – e il «rovesciamento» allora sta nel dover tornare alla logica tradizionale.
Un altro pezzo di risposta la dava Business Week18. «La pompata e sempre più veloce crescita della produttività che ha alimentato l’economia negli ultimi cinque anni rischia di calare.» La National association for business economics faceva sapere che i profitti dei suoi membri stavano subendo «la peggiore stretta in nove anni», perché la produttività non riusciva più a compensare i costi crescenti dell’energia, del lavoro e della finanza. Poi il Bureau of economic analysis riferiva che l’investimento di capitali, che aveva sostenuto il boom della produttività, era nettamente calato nel terzo trimestre. Infine, le statistiche ufficiali mostravano che nel terzo trimestre la produttività era aumentata a un tasso annuo del 3%, contro il 5,6% del secondo trimestre. Un tasso più che rispettabile; ma «un mutamento del tasso di produttività può sollevare problemi. Se, ad esempio, la produttività rifluisce, anche un modesto rallentamento dell’economia, al 3,5 o 4%, potrebbe non tenere sotto controllo l’inflazione». E naturalmente bisognerebbe chiarire che cosa s’intende per una produttività che cresce a questi ritmi. Non è certo quella del lavoro.
Ancor più importante, poi, è la cosiddetta «produttività strutturale», cioè quella che si mantiene aldilà degli andamenti ciclici. Dalla metà degli anni Novanta, la maggior parte dell’incremento di questa produttività strutturale si è verificato nel settore dell’alta tecnologia, specialmente calcolatori e semiconduttori – «e mentre la produttività in questo settore è ancora in rapido aumento, ci sono segni di rallentamento della crescita»19; questo perché le società investono meno in nuovi calcolatori, nuovo software, e altro materiale high-tech. D’altra parte, questo si spiega anche col fatto che anche i settori industriali della old economy, cioè le imprese non-tech, hanno visto scendere il loro prodotto di circa un 2% – a cominciare dagli elettrodomestici e dalle automobili, anche per effetto di «un debito societario e di consumo storicamente elevato. Il 14 novembre, la Bank of America ha fatto sapere che nel quarto trimestre i prestiti “cattivi” sarebbero saliti a 870 milioni di dollari, cioè il doppio della cifra raggiunta nel terzo trimestre. Il debito societario è aumentato l’anno scorso del 13% rispetto all’anno precedente, molto più rapidamente della crescita del pil: e il debito al consumo è anch’esso andato aumentando velocemente».20
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omunque, se nell’autunno si parlava di soft landing come di un processo di riduzione degli eccessi, verso la fine dell’anno emerse il timore che anche un atterraggio dolce avrebbe buttato all’aria molte cose. «L’America è bruscamente caduta dalle nuvole – scriveva Le Figaro21. Quando ci si è abituati all’euforia, il ritorno alla normalità è traumatico. In poche settimane, analisti finanziari, capi d’impresa e famiglie americane si sono resi conto che era cambiato qualcosa di importante: alla congiuntura idilliaca di questi ultimi anni è subentrato un clima più calmo, e questo fa temere a molti che la recessione sia imminente.» Questa reazione sostanzialmente psicologica era sottolineata da diverse parti, e senza dubbio con buoni motivi; nei fatti, ciò che importa valutare è, da un lato, che cosa sia stata l’economia americana in questi anni, e quali prezzi bisogna ora pagare (e da parte di chi) per il ritorno a un’economia ancora robusta, ma «tradizionale».
Osservava il Financial Times22 che una crescita del 2-3%, secondo le previsioni per il 2001, non è affatto una recessione; ma è «anemica» se la si confronta con il 6% alla fine del 1999 – «un tasso tipico per una tigre asiatica più che per un’economia industriale “matura”». Però, esso aggiungeva, «c’è un crescente rischio che gli Usa cadano in un giro vizioso di caduta dei prezzi azionari, di crescenti tassi d’interesse, di deboli investimenti, di rallentata creazione di posti lavoro, di minori profitti societari, quindi di minori investimenti»; cose serie in sé, ma che sono magnificate ancora una volta da un fattore psicologico: il crollo della fiducia.
«La moderazione – osservava Business Week23 – è un aggiustamento doloroso dopo due anni di sbornie.» Tanto più quando il rallentamento è un camminare sull’orlo del burrone. Infatti, scriveva sempre il settimanale americano, «per il 2001 si presentano diversi rischi»: deficit commerciale e impegni finanziari verso l’estero, che potrebbero divenire insostenibili; l’andamento dei prezzi del petrolio; e in particolare l’andamento dei mercati azionari, e non soltanto del Nasdaq. «Nell’intero periodo postbellico, i prezzi azionari non hanno mai avuto un ruolo così forte nel determinare i livelli di domanda da parte dei consumatori e delle imprese, specialmente attraverso l’effetto ricchezza sulla spesa per consumi. La minaccia ora è un circolo potenzialmente vizioso, in cui la minore crescita incide sulle attese di reddito, che a loro volta colpiscono i prezzi azionari, così che diminuiscono la crescita e le attese di reddito, e così via. È una ricetta di grave recessione». Insomma, conclude il Financial Times24, «se, come dicono molti economisti, i mutamenti tecnologici degli ultimi anni hanno elevato il tasso di crescita potenziale al 3,5 e forse al 4% l’anno, una crescita anche al 2% aumenterà fortemente la disoccupazione e inciderà ancor di più sulla fiducia e sulla capacità di spesa dei consumatori» – con quel giro vizioso che potete immaginare.
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l nuovo anno si è aperto nel più esplicito pessimismo. Verso la fine di gennaio, nel suo Economic outlook di dicembre, l’Ocse aveva previsto per gli Stati Uniti una crescita del 3,5%; verso la fine di gennaio, Alan Greenspan disse al Congresso che «per quanto possiamo giudicare, siamo probabilmente vicini a una crescita zero»25 – e benché correggesse poi quell’affermazione, quel rintocco si fece sentire. Questo dà un’idea dei ritmi dell’«atterraggio» – nonché delle sorprese che esso ha riservato. «La festa è finita», scriveva Le Figaro26 – il quale annotava le previsioni negative dei guru delle banche d’affari. Non una recessione lunga, un paio di trimestri – così si pensava; ma «una reale recessione americana avrebbe delle conseguenze funeste in tutto il mondo, a cerchi concentrici. I paesi limitrofi degli Stati Uniti sarebbero i primi a essere colpiti» – proprio in virtù di quell’Accordo di libero scambio (Alena) che lega Messico e Canada all’economia americana; «ma in realtà, con la mondializzazione e con la possibile eccezione della zona euro, nessun paese sarebbe veramente al riparo. I paesi che hanno legato la loro sorte alla nuova economia, come l’Irlanda, Singapore, o Taiwan, soffriranno più di altri».
Un paio di trimestri? Sì, scriveva l’Economist27, questa è la previsione che circola tra i leading economists americani; ma «è difficile prevedere una recessione, specialmente una recessione profonda, quando la tua impresa svende azioni. Certo, la tendenza è oscura. Nel sondaggio dell’Economist le previsioni di crescita per il 2001 sono scese dal 3,5% in ottobre all’1,8% all’inizio di febbraio. La crescita effettiva del pil è scesa dal 5% dell’inizio del 2000 all’1,4% del quarto trimestre. Molti economisti prevedono una crescita di appena l’1% per la prima metà del 2001 e, anche senza essere una vera e propria recessione, questo è un atterraggio a scossoni. Sinora la molla principale del calo sta nel settore privato. Dato che i profitti sono calati e minori vendite hanno fatto salire le scorte, le imprese hanno cominciato a tagliare i loro investimenti e la loro produzione. (...) Anche senza una recessione, la capacità utilizzata nell’industria manifatturiera è scesa al livello più basso dal 1992» – e questo può portare a ulteriori tagli degli investimenti. E, ovviamente, in un’economia retta dalla logica del just in time, la riduzione delle scorte e degli investimenti comporta una riduzione della manodopera» – benché questo effetto non sia ancora chiaro nelle sue dimensioni e nei suoi tempi. Infine, il tasso d’inflazione. C’è spazio per una riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal reserve – e infatti la Fed ha ridotto il tasso di un punto in due tornate successive. Ma, osserva il settimanale britannico, «i prezzi al consumo sono aumentati in febbraio dello 0,6%, il doppio di quanto previsto, con un tasso annuo del 3,7%; il tasso annuo d’inflazione dei prezzi alla produzione è salito del 4,8%, il livello più alto in dieci anni».
Una breve nota sull’andamento dell’occupazione. Anche qua siamo in presenza di dati contraddittori – almeno sinora. Scriveva Business Week28 che nei tre mesi da novembre a gennaio c’è stata una media mensile di 113.000 nuovi posti lavoro, molto inferiore alla media mensile del 2000, ma tutt’altro che cattiva. Il tasso di disoccupazione però è leggermente salito a gennaio, dal 4 al 4,2% e «salirà ancora nel 2001 perché le società devono piegarsi alla tirannia di Wall Street che esige profitti in continua crescita per mantenere alti i prezzi delle azioni. Perciò le società dovranno tagliare i costi per incrementare i profitti e questo di solito vuol dire ridurre la manodopera. Benché nel quarto trimestre 2000 la produzione sia aumentata del 2,4%, i costi per unità di lavoro sono saliti di un 4,1% più dei prezzi». Il settimanale prevede quindi che quest’anno il tasso di disoccupazione oscillerà tra il 4,5 e il 5%.
Ma informa il Financial Times29 che in febbraio i nuovi occupati sono stati 135.000 (contro 224.000 in gennaio) e che, benché l’industria continui a scaricare lavoratori, i servizi continuano ad assumere in massa; così in febbraio, anziché aumentare come previsto, il tasso di disoccupazione è rimasto al 4,2%. Non troviamo spiegazioni – e si tratta, come sempre, di vedere la qualità dei nuovi posti lavoro; ma va presa nota del fatto.
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nche questa previsione dice che, sia pure nel peggiore dei casi, la recessione dell’economia americana non dovrebbe essere lunga né catastrofica. Ma ciò che va sottolineato è la logica della situazione, che è tale da sfuggire a previsioni sicure. Per illustrarla, da diverse parti si fa riferimento allo scoppio della bolla giapponese, nel 1989 – con effetti che durano ancora. «Tutto considerato – scrive l’Economist30 – ci sono delle paurose similarità tra l’America di oggi e il Giappone del 1989-90. La similarità maggiore è un debito eccessivo. Troppo debito è sempre stato al centro della debolezza del Giappone. È perciò allarmante che il boom americano sia stato alimentato da un massiccio ricorso al credito da parte delle società e delle famiglie. Gli ottimisti replicano che i bilanci del settore privato sono sani, perché l’aumento del debito è stato più che compensato dall’ aumento dei beni. Ma anche in Giappone, verso la fine degli anni Ottanta, i bilanci apparivano notevolmente sani – sino a quando i prezzi dei beni non crollarono. E secondo ogni misura storica, i prezzi azionari americani sono fortemente sopravvalutati.»
«Anche il concetto secondo cui la bolla americana è stata più piccola di quella giapponese – continua spietatamente il settimanale – va qualificata. Gli eccessi in Giappone dipendevano specialmente da prezzi folli delle proprietà, che invece in America sono rimasti abbastanza equilibrati. Ma il corrispondente incremento del debito e dei consumi in America è venuto dal mercato azionario. Al culmine del mercato, le famiglie americane possedevano azioni per un 175% del loro reddito disponibile, molto di più delle azioni possedute dalle famiglie giapponesi al culmine del mercato nel 1989, che stavano al 90% del reddito disponibile. E come il crollo giapponese ha spinto i consumatori giapponesi ad aumentare i loro risparmi e a ridurre le spese, così il rischio è che altrettanto facciano i consumatori americani. Non è per caso che le recessioni più pesanti e lunghe degli ultimi decenni siano avvenute in paesi con un boom dei prezzi delle proprietà o delle azioni, e un conseguente accrescimento del debito, come in Gran Bretagna e in Svezia all’inizio degli anni Novanta.»
Insomma, due aspetti caratterizzano la situazione americana. Il primo sta nel brusco collasso di tutta una logica economica che si nutriva di se stessa – e che in definitiva faceva dei valori azionari il motore stesso della crescita, anziché il suo effetto; questo, si sottolinea da diverse parti, ha alimentato uno sviluppo tecnologico notevole, di cui bisogna tenere conto, che però resta «borsistico-dipendente». La centralità del mercato azionario come motore di crescita economica è stata gonfiata dalla grancassa della new economy, ma non è un fenomeno recente. Ricorda l’Herald Tribune31 che la pretesa di fare del mercato azionario «una scatola magica» risale a una ventina di anni fa. Alla fine del 1982 il Dow Jones stava a 1.046 punti, alla fine del 1999 a 11.497 – e a metà marzo era sceso sotto i 10.000 punti; il Nasdaq stava a 792 nel 1994 e balzò a 5.000 nel marzo del 2000 – e in tutti questi anni solo nel 1990 ci fu una flessione seria degli indici borsistici. Si è quindi diffusa la convinzione che la Borsa serve non ad accumulare risparmi sicuri, ma per arricchirsi – senza rischi; ed è proprio questo che, secondo il quotidiano, oggi è cascato a terra.32
Il secondo aspetto sta nel fatto che, proprio per la natura delle sue cause, la situazione attuale non si presta a previsioni sicure. Scrive Business Week33: «Data l’ondata di cattive notizie, il peggio può ancora capitare. La fiducia dei consumatori sta precipitando. Gli utili societari sono svaniti. Imprese sovraccariche di azioni stanno drasticamente ridimensionandosi, e questo comporta licenziamenti e chiusura di impianti. Il capitale per investimenti è calato di uno 0,6% annuo nel quarto trimestre del 2000 – il primo calo trimestrale in circa nove anni. Persino l’edilizia, il settore più forte, è rallentata in gennaio». È vero che la Federal reserve ha ridotto i tassi d’interesse, ma «gli economisti dicono che ci vorranno nove mesi e anche di più prima che la riduzione abbia degli effetti – troppo tardi per delle società che vedono i loro ordinativi in forte calo, oggi».
Il settore dell’high-tech, che sino a pochi mesi fa era il motore stesso della crescita economica sembra oggi un «peso morto». Infatti, osserva il settimanale, «il peggio per l’economia e per il mercato azionario ha luogo proprio nel tech. Poiché la spesa per l’information technology (it) conta per il 40% di tutti gli investimenti e alimenta i profitti da produttività, una caduta in questo settore avrebbe ripercussioni gravi sull’intera economia». Ma è proprio qua che pare corrano i guai più grossi. Agli inizi di marzo il Nasdaq era sceso a 2.053 punti – con una perdita del 60% rispetto al marzo 2000. Sempre ai primi di marzo, Yahoo! annunciava un calo dei suoi profitti; Intel, primo produttore mondiale di microprocessori, ha annunciato un calo del 25% nel suo giro d’affari per il primo trimestre – nonché la soppressione di 5.000 posti lavoro su 27.000; Cisco, numero uno mondiale di attrezzature internet, ha annunciato la soppressione di 3-5.000 posti lavoro su 44.000.34
È qua, quindi, che si respira l’aria più pesante. «Molte delle società tech sembrano aspettarsi una caduta più lunga di quanto si preveda» – e ci si chiede se nel 2001 l’economia americana sarà a v, oppure a u, o addirittura a l. Nel primo caso, una volta toccato il fondo l’economia si riprende subito – e si direbbe che il taglio dei tassi d’interesse, nonché la proposta Bush di ridurre le tasse, puntino a questo. Nel secondo caso, «la disoccupazione aumenta, oppressi dal debito i consumatori riducono la spesa voluttuaria, le imprese riducono gli investimenti a causa di un eccesso di capacità, la caduta dei valori azionari naturalmente concorre a scoraggiare i consumatori e a bloccare gli investimenti». Questo, dicono in molti, è il caso più probabile – e tutto dipende dalla lunghezza della parte bassa della u. Infine, non manca chi prospetti una l, com’è accaduto in Giappone – con una caduta verticale e una lineetta in basso che non si sa quanto sia lunga.
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gli inizi di marzo, Kiichi Miyazawa, ministro delle Finanze, dichiarò davanti a una commissione parlamentare che la situazione finanziaria del governo era vicino alla «catastrofe». E poiché cose del genere non capitano tutti i giorni, e la situazione giapponese è arrivata persino alla tv italiana, è bene dare un’occhiata.
È noto da tempo che il Giappone non è mai uscito del tutto dalla crisi monetaria che alla fine degli anni Ottanta fece scoppiare la bolla speculativa – e perché non ci sia riuscito è ancora un mistero. Si era agli inizi del 1999 e scriveva Business Week35: «Comunque la si consideri, la crisi economica giapponese di questo decennio è stata un incubo. Un vortice dei prezzi di proprietà in caduta, crisi bancarie, profitti societari in calo, crescente debito pubblico, tutto questo ha risucchiato l’economia. Dopo aver zoppicato con un tasso medio di crescita dell’1,5% tra il 1990 e il 1997, il Giappone è ora impantanato in una paurosa recessione. Il 30 marzo il governo ha annunciato che in febbraio il tasso di disoccupazione è salito al 4,6%, mentre in gennaio la spesa da parte delle famiglie è scesa del 5,7%, il peggior calo in 13 anni. Ora, i migliori economisti stanno chiedendosi perché le solite politiche usate per rilanciare l’economia non abbiano funzionato in Giappone. Gli Stati Uniti, ad esempio, salvarono il loro settore bancario all’inizio del 1990 con dei mezzi finanziari. Il Giappone ha tentato e non c’è riuscito. Il governo ha pompato nell’economia circa 1.000 miliardi di dollari in lavori pubblici, riduzioni fiscali, salvataggi di banche, persino buoni per spesa». La Banca del Giappone ha ridotto praticamente a zero i tassi d’interesse e «sino a poco tempo fa non sembrava credibile che un’economia avanzata come quella giapponese potesse trovarsi davanti a dilemmi del genere (ma) ciò che il Giappone può oggi mostrare come risultato è un deficit di bilancio di circa il 10% del pil» – e un debito pubblico che, si scriveva da varie parti, eguaglia, se non supera, quel record mondiale che è il debito pubblico italiano; anzi, anche in Giappone la domanda è: «dov’è andato a finire tutto quel denaro?».
Rispondeva, sempre nel 1999, un’autorità come Paul Krugman36 – e vale la pena di riprendere estesamente ciò che egli scriveva. «L’inefficienza del settore dei servizi è, in Giappone, leggendaria. Benché il paese resti un formidabile esportatore, è andato troppo piano nell’adottare le nuove tecnologie. E, allo stesso modo dei suoi vicini poveri, il Giappone ha un sistema bancario in difficoltà e non l’ha rimesso in piedi alla svelta. Ma la chiara e attuale costrizione sull’economia sta in qualcosa che normalmente è considerata come una virtù: la cautela e la frugalità dei consumatori. In parole povere, le famiglie giapponesi risparmiano più di quanto il sistema affaristico del paese sia disposto a investire, persino a tassi d’interesse vicini allo zero. Risultato: per la prima volta dagli anni Trenta una grande economia si trova presa nella temuta “trappola di liquidità”, nella quale l’intero settore privato tenta di accumulare contanti» – e poiché se non c’è chi acquista non si può vendere, la tendenza generale ad accumulare riserve liquide deprime tutta l’economia.
La cura, per tutti questi anni, è stata: il governo investa per stimolare l’economia. Ma non ha funzionato. È vero che si sarebbe potuta tentare anche la via di «mollare la stabilità dei prezzi e anzi impegnarsi in un moderato tasso d’inflazione», che di solito stimola il ricorso al credito, ma ricette di questo genere sollevano orrore nel mondo della finanza e la Banca del Giappone non le ha mai adottate. Perciò, scriveva sempre Krugman, è vero che nel primo trimestre del 1999 il tasso di crescita annualizzato era arrivato al 7,9%, ma era facile vedere come il Giappone avrebbe potuto cadere in una spirale deflazionista. La spirale era: le imprese cominciano a «razionalizzarsi» e buttano fuori un sacco di manodopera inutile; questo allarma i consumatori e i minori consumi portano ad altra disoccupazione; un’economia in calo porta a una discesa dei prezzi, quindi peggiora il carico debitorio sulle società e aumenta la necessità di accumulare dei fondi liquidi. «Con dei tassi d’interesse vicini allo zero, la politica monetaria convenzionale è già il più possibile espansionista; e con un enorme debito e un pesante deficit, non c’è molto spazio per un’altra spinta di bilancio.»
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nsomma, ammettendo che sia così e traducendo il tutto in parole nostre, si può dire che, fatte le debite differenze, la seconda economia capitalista mondiale si trova in guai analoghi a quelli che stavano dietro alla crisi monetaria mondiale di qualche anno fa. «Un eccessivo ricorso al credito da parte di società, famiglie e governi sta dietro alle crisi economiche in Messico, Asia orientale, Russia e Brasile. A chi toccherà la prossima volta? Alcune economie emergenti, come la Cina, forniscono motivi di preoccupazione. Ma la sconcertante verità è che la prossima crisi debitoria succederà probabilmente in una delle due maggiori economie mondiali», cioè gli Stati Uniti e il Giappone. Lo scriveva l’Economist37 nel gennaio 2000 – aggiungendo che «è vero che a differenza di paesi emergenti, il debito americano e quello giapponese sono quasi completamente in valuta nazionale, quindi è improbabile che questi due paesi soffrano di crisi gravi come quella dell’Asia orientale. Però in entrambi i paesi l’accumularsi del debito appare oggi insostenibile». È vero che mentre in Giappone il debito pesa sul bilancio pubblico negli Stati Uniti esso pesa sulle famiglie e sulle società, ma questo non cambia la diagnosi.
L’Economist spiega perché un alto debito pubblico è un fattore perverso; ma, convincente o no, questo è un discorso troppo lungo. Ciò che colpisce invece è che la situazione giapponese contiene elementi che di solito vanno contro il tipo di diagnosi del settimanale. L’elemento principale è che quel paese carico di debito interno è sempre il maggiore creditore mondiale «con 1.200 miliardi di dollari (pari al 31% del suo pil) in beni all’estero, grazie a due decenni attivi nella bilancia dei conti correnti»; il secondo elemento è che il risparmio giapponese è tra i più elevati nel mondo – quindi il governo non ha bisogno di ricorrere a fondi stranieri per finanziare il proprio deficit. «Solo il 10% del titoli di Stato giapponesi sono in mano straniera, contro il 40% negli Usa e il 23% in Italia. E i cittadini locali sono meno pronti a mollare bruscamente i loro titoli.» La crisi asiatica, e la sua diffusione in Brasile e in Russia, erano invece dovute proprio al contrario.
Un altro fattore insolito. Il carico fiscale in Giappone è il più basso tra le economie avanzate: il 29% del pil, contro una media del 39% tra i paesi ricchi. Nell’Unione europea il tasso medio è del 42%. Perciò, almeno teoricamente, ci sarebbe spazio per aumenti che liberino il Giappone dalla trappola del debito. Ultimo elemento: rispetto al Giappone e in termini di finanze pubbliche, gli Stati Uniti sono un esempio di virtù, con un enorme attivo di bilancio – perlomeno in prospettiva. Ma questo non li toglie dalla trappola del debito perché, scrive l’Economist, il debito congiunto di famiglie e società ammonta al 132% del pil. E allora? Allora il discorso gira su se stesso: un’economia non può reggersi sul debito, privato o pubblico che sia; questo significa affidarsi a metodi puramente finanziari che possono cedere in qualsiasi momento; il debito tende a crescere a spirale e a un certo punto le spirali si afflosciano. Ma come analisi delle cause specifiche questo discorso non va lontano.
Lo riconosce, implicitamente, un recente editoriale del Financial Times38: «I problemi economici del Giappone sono così profondamente radicati che può servire soltanto un cambiamento radicale nel modo di gestire il sistema. Ma è difficile vedere che cosa possa cambiare in Giappone senza uno scossone finanziario» – e, tutto sommato, si potrebbe dire la stessa cosa per gli Stati Uniti. Allora è l’inizio di una recessione? Le notizie che circolano dicono di sì. Le Figaro39, ad esempio, scrive che all’inizio dell’anno il governo giapponese ha dovuto ammettere che, anziché una crescita dello 0,2% come esso aveva previsto, l’economia aveva registrato un calo dello 0,6% nell’ultimo trimestre del 2000; che gli investimenti privati erano aumentati solo dell’1,5% tra luglio e settembre 2000, anziché del 7,8% come calcolato; e che i consumi privati non erano affatto aumentati. «La ripresa che sembrava profilarsi all’inizio del 2000 non si fondava su alcun motore solido. Si appoggiava tutta sull’esportazione e questa cala man mano che l’economia mondiale perde fiato» – con il pericolo che i problemi dell’economia americana ricadano pesantemente su quella giapponese. E stiamo parlando di un’economia che vale quanto mezza Europa.
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bbiamo visto che le difficoltà dell’economia americana hanno riflessi internazionali – e questo, Giappone a parte, significa anzitutto Asia orientale e sudorientale. Scrive il Financial Times40 che «circa quattro anni dopo la crisi finanziaria asiatica, le economie di quella regione stanno di nuovo davanti a problemi» analoghi. Primo motivo: il calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti che «restano il principale mercato degli esportatori asiatici». Questo rallentamento è cominciato nell’ultimo trimestre del 2000, specialmente nel settore dell’informatica e «secondo la Goldman Sachs, in quei mesi e su base stagionalmente corretta le esportazioni di diversi paesi asiatici (Giappone escluso) hanno registrato il loro calo più consistente in 15 anni rispetto al trimestre precedente».
Per cogliere il senso della situazione bisogna ricordare che «l’Asia è la fabbrica di molte società tech americane, e produce di tutto, dalle chips ai sistemi periferici; circa un terzo delle esportazioni coreane e taiwanesi sono in prodotti elettronici». Secondo un grafico del quotidiano, queste esportazioni raggiungono il 45% del totale per la Malaysia, il 40% per Taiwan, il 25% per la Corea del Sud, Singapore, la Tailandia. Però, aggiunge il quotidiano, nei settori non elettronici le cose vanno anche peggio. È un discorso vecchio e non c’è bisogno di spiegarsi. Il guaio è che «le società asiatiche non possono concentrarsi sulla crescita interna data la continua fragilità del sistema bancario e poiché in Corea, Tailandia e Indonesia molte società sono ancora alle prese con il loro carico debitorio, le banche preferiscono piazzare i loro fondi in titoli governativi e in molti paesi la crescita del credito privato rimane negativa». Come dire che il sistema bancario da un lato è rimasto qual era al tempo della crisi e, dall’altro, si guarda bene dal ripercorrere la strada del credito facile che lo portò sull’orlo del baratro.
Perciò tutto dipende dall’esportazione e se il mercato americano non si riprende alla svelta le previsioni sono che «le Filippine, l’Indonesia e la Tailandia cresceranno nel 2001 a una media del 2,7% e le quattro tigri – Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud e Singapore – del 4,2%. Non una calamità, ma circa la metà della crescita del pil nel 2000». E se poi arriva una reale recessione giapponese il quadro diventa ancor più nero.
Risaliamo allora a un paio d’anni fa, cioè all’indomani della crisi, per vedere come si prospettavano le cose. Tutti erano d’accordo nel dire che il peggio era stato evitato, ed era vero; ma il sospiro di sollievo restava a metà. «Le economie reali dell’Asia restano vacillanti», scriveva nel maggio 1999 Business Week41: disoccupazione in aumento, consumi flaccidi, banche avare di credito, eccesso di capacità persistente, un debito estero che impone il pagamento di interessi vertiginosi e l’imminente rimborso del capitale. E le due principali economie asiatiche, Giappone e Cina, incapaci di fare da motore di ripresa. Perciò una ripresa, sì, ma lenta, su parecchi anni – e minata da antiche debolezze del sistema socio-economico. «La maggior parte dei paesi asiatici – osservava l’Herald Tribune42 in luglio – non hanno davvero affrontato le due debolezze principali delle loro economie: banche insolvibili e società pesantemente indebitate. Cattivi prestiti e cattive abitudini continuano ad affliggere le istituzioni finanziarie dalla Corea del Sud all’Indonesia.»
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robabilmente è vero, ma non basta, come spiegazione; e cercando un tantino di più si torna all’intervento dei governi per ripompare l’economia monetaria. «Niente ha funzionato meglio del vecchio stimolo keynesiano – scriveva Business Week43 nell’agosto. L’anno scorso, i tassi d’interesse a breve sono scesi in Indonesia, Malaysia, Filippine, Corea del Sud e Tailandia, di 7,3 punti in media. Nello stesso tempo, questi paesi – che all’inizio degli anni Novanta avevano un bilancio in pareggio o in attivo – sono diventati degli spendaccioni dissoluti. Nei cinque paesi della crisi i deficit di bilancio toccheranno il 5-6% del prodotto economico nel 2000 (e) nel 1999 l’80% della crescita e la parte del leone della ripresa azionistica viene da stimoli governativi.» Bisogna aggiungere che i segni di ripresa hanno fatto tornare la massa degli investimenti esteri – che durante la crisi era scappata a gambe levate. «Oggi i prestiti bancari restano depressi, ma gli investitori azionari stanno tornando. Includendo Hong Kong, Singapore e Taiwan calcola la Hongkong & Shanghai banking corp., si può parlare di 30 miliardi di dollari nel 1999. Il Giappone attira 10 miliardi di dollari al mese. “Questo è cyberapitalismo”, dice Eisuke Sahakibara, ex ministro giapponese alle Finanze.» E concludeva il settimanale: «La resa dei conti potrebbe presentarsi tra un anno o due. La ripresa asiatica, dicono gli economisti, deve essere alimentata da forti consumi interni, da investimenti locali, da produttività. Altrimenti i governi esauriranno le loro possibilità di sostenere la crescita con dei deficit. E la riduzione dei tassi di interesse può finire per non avere più alcun impatto sugli investimenti».
Questo ritorno degli investimenti esteri – largamente speculativi – è aumentato nel 2000, quando parve che la ripresa asiatica, pur ancora insufficiente, fosse sulla buona strada. Scriveva il Financial Times44 che la Banca mondiale aveva rivisto al rialzo le sue previsioni sulla crescita dei paesi asiatici per il 1999, portandola al 3,3% – che confrontato all’1,6% del 1998, era perlomeno un segno di speranza; inoltre essa prevedeva un 4,6% per il 2000 e un 4,8% per il 2001. «Niente di tutto questo – osservava il quotidiano – sarebbe mai accaduto senza un’eccezionale crescita negli Usa, insieme alla disponibilità americana di gestire un deficit dei conti correnti che potrebbe arrivare al 4% del pil nel 2000.» Ma proprio questo stimolava l’appetito degli investitori esteri e «la Goldman Sachs calcola che l’emissione di titoli da parte dei paesi emergenti sta a tre o quattro volte i livelli di un anno fa. Essa stima che l’afflusso netto di capitali aumenterà di 40 miliardi per arrivare a oltre 200 miliardi entro l’anno».
Di questo afflusso si parla poco, ma delle debolezze interne che lo permettono (anzi, lo richiedono) e della sua estrema volatilità si parlò molto ai tempi della crisi. Scriveva Krugman45, c’è un bel spiegare la crisi parlando di crony capitalism (capitalismo di famiglia) – che pure persiste. «Supponete che gli Stati Uniti, che attualmente stanno attirando fondi esteri al ritmo di 300 miliardi l’anno, vedessero bruscamente questo afflusso divenire un deflusso per migliaia di miliardi (e, facendo le debite proporzioni, è quanto è accaduto ai paesi asiatici) e quanto solido apparirebbe il sistema bancario americano?» Adesso le cose non si presentano più nelle stesse dimensioni, però «disgraziatamente potrebbe esserci un secondo atto della crisi asiatica. Questo perché alcuni partecipanti non hanno ancora risolto i loro problemi» – che è un modo gentile per dire che, nella sostanza, le cose restano immutate.
Insomma, si direbbe che, da un lato, la ripresa dei paesi asiatici si spiega specialmente col fatto che «mentre loro cadevano gli Stati Uniti continuavano a crescere e a consumare, assorbendo le esportazioni asiatiche e senza lamentarsi certo che, a causa del collasso valutario, esse fossero molto più a buon mercato di prima»46 ; dall’altro, la ripresa è stata alimentata dall’intervento governativo e da un ritorno della electronic herd (mandria elettronica), pronta a pascolare su prati erbosi – e sempre pronta a filar via. In altre parole, la crisi di alcuni anni fa non è mai stata veramente superata.
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ulent Eceveit, primo ministro, e Necdet Sezer, Presidente della Repubblica, s’incontrano a metà febbraio per discutere di come combattere la corruzione – e litigano violentemente, il perché ci interessa poco. Scoppia subito un caos finanziario. La Borsa perde in due giorni il 63% del suo valore, i tassi d’interesse salgono del 144%, il governo deve cercare a prestito almeno 2,2 miliardi di dollari, la lira turca sprofonda, l’Fmi deve ancora una volta correre ad Ankara, diverse banche europee s’aggrappano alle sedie. Sì, una crisi politica che provoca un panico finanziario, perché la situazione politica è fragile; ma ciò che qua interessa sono le condizioni di un’economia che può così facilmente essere sconvolta da una lite personale, e specialmente le possibili ripercussioni di crisi di questo genere. E non dite che la Turchia è un paese secondario; nel 1997, la Tailandia lo era ancor di più.
Anzitutto, la lite non era occasionale. La corruzione è seria, tocca la struttura politica, incide sulla posizione internazionale del paese, ovviamente influenza la stessa struttura finanziaria – e l’impegno del governo va aldilà di un risanamento occasionale. «Stiamo parlando di una revisione dell’intera società nazionale, ma questo scuote la struttura stessa della società nonché la gente abituata a profittare di quella struttura», dice un’autorevole personalità turca47. In secondo luogo, la crisi è improvvisa ma non nuova. Già nel novembre scorso una crisi bancaria aveva portato il paese sull’orlo del collasso – e l’Fmi era accorso con un prestito di 7,5 miliardi di dollari e si stabilì un programma di risanamento, che nei mesi successivi parve funzionare; il tasso d’inflazione scese dal 100% al 30%, il governo mostrò un attivo di bilancio (a parte il servicing del debito estero), l’economia riprese.
Ma, scrive l’Economist48, davanti all’aumento delle importazioni «gli investitori cominciarono a dubitare che l’afflusso di capitali stranieri bastasse a finanziare contemporaneamente un consumo scialacquatore e un governo perennemente bisognoso. Il costo del credito riprese a salire, una grande banca che aveva scommesso sul denaro a basso costo fallì, il capitale straniero scappò e la Turchia si trovò in un cerchio vizioso di banche traballanti e di tassi d’interesse che salivano a spirale». Come condizioni per il suo prestito, l’Fmi aveva chiesto che il governo ripulisse il sistema bancario e accelerasse la privatizzazione – e su questi due punti un governo che per stare in piedi deve far combaciare interessi contrastanti ci è andato con i piedi di piombo, a dire poco.
Le banche. Scrive il Financial Times49 che quattro di esse sono proprietà dello Stato, una dozzina sono sotto amministrazione statale e tra le 27 banche private parecchie andrebbero liquidate. «Le banche hanno tradizionalmente prosperato prendendo prestiti in valuta straniera a costo relativamente basso per investirli nel debito interno ad alto rendimento alimentato da governi spendaccioni» – e stiamo parlando di un debito sui 50 miliardi di dollari. Ristrutturare questo sistema, a parte i conflitti d’interesse, «potrebbe costare allo Stato, che ha garantito tutti i depositi, tra 15 e 20 miliardi di dollari. Per evitare di stampare moneta, la Turchia avrà probabilmente bisogno di altri fondi dell’Fmi e della Banca mondiale, come pure del sostegno di banche occidentali. Ma la grande domanda che si fanno l’Fmi e i creditori privati è se ci si può fidare dell’impegno di Ankara».
Bene, il programma concordato con l’Fmi a novembre comportava l’ancoraggio della lira turca al dollaro e all’euro. L’Fmi aveva applicato lo stesso criterio alle crisi in Asia, Messico, Russia e Brasile – per trovarsi ogni volta davanti alla necessità di lasciar fluttuare la moneta, cioè svalutarla bruscamente. Pare che questa volta sia stato il governo turco a insistere per un crawling peg che desse alla lira turca una fascia di oscillazione del 15% l’anno, perciò una svalutazione graduale – e, benché dubbioso, l’Fmi aveva accettato. Risultato: quell’ancoraggio «ha indotto gli investitori a una condotta spericolata, esponendo così il peg alla speculazione, che cresce man mano che crescono i dubbi sulla sua durata» – e con quella garanzia ufficiale alle spalle, le banche prendevano dollari a prestito e acquistavano titoli di Stato ad alto rendimento. «Adesso che la lira è caduta, la banche si trovano in mano dei debiti scoperti per un 10 miliardi di dollari – cioè non i 150 miliardi di dollari della crisi coreana del 1997, ma abbastanza per aprire dei grossi buchi nei loro bilanci»50. Il 28 febbraio la lira turca perse di botto il 28% del suo valore.
Che cosa può significare la crisi turca in termini generali? Vi passiamo ciò che ne dice la stampa internazionale. «Nella crisi attuale – scrive Le Figaro51 – gli economisti trovano alcuni punti in comune con quelle che hanno colpito l’Asia, la Russia e il Brasile tra il 1997 e il 1999, le quali hanno sempre portato a una fluttuazione della moneta» – e ripete che in Turchia «le banche sono colme di obbligazioni di Stato per finanziare i deficit colossali del settore pubblico (9,4% del pil nel 2000), e questo ricorda la situazione russa del 1998». Ma ci sono altri segni: «un importante deficit della bilancia dei pagamenti (più del 5% del pil entro il 2002), un’inflazione sempre eccessiva (40% alla fine del 2000, mentre il piano Fmi prevedeva un 20%), e il ritardo delle riforme strutturali, specialmente in fatto di privatizzazione».
Niente di nuovo per l’Fmi. Tra il 1975 e il 1997, osserva il quotidiano, ci sono state 158 crisi nei cambi e 54 crisi bancarie – nonché 32 casi di crisi bancaria e dei cambi. Ma questa volta «gli specialisti temono che una scintilla non faccia dell’Argentina il prossimo candidato a questa lunga lista, a dispetto del piano internazionale di aiuti del dicembre scorso (con 39 miliardi di dollari, di cui quasi 14 dell’Fmi). “È sempre difficile prevedere il modo di trasmissione delle crisi, perché tutto dipende dal comportamento dei mercati di capitali”, dice un banchiere». «Le scosse – osservava Le Monde52 – sono state rapide: una caduta delle Borse nei paesi emergenti (Russia, Repubblica ceca, Polonia, Ungheria, Argentina), un calo della moneta brasiliana, un forte aumento del dollaro, tornato a essere moneta di rifugio.»
Ma anche nei paesi avanzati qualcuno ha aggrottato i sopraccigli. Gli impegni finanziari occidentali in Turchia ammontavano in febbraio a quasi 44 miliardi di dollari; le banche tedesche sono impegnate per oltre 12 miliardi di dollari, quelle americane per quasi 5 miliardi, quelle olandesi per circa 3 miliardi, quelle svizzere per altri 3 miliardi circa, quelle giapponesi per quasi 2 miliardi, quelle italiane per 1,5 miliardi – e così via53. Inoltre, osservava sempre Le Monde, c’è da vedere che effetto avrà il rallentamento dell’economia americana. Insomma, può darsi che ancora una volta vengano arrestati gli effetti della crisi, ma sono ormai una banale constatazione due fatti: le crisi sono sempre di carattere finanziario; i loro effetti sono scarsamente prevedibili e ricadono su una lunga fila di economie traballanti.
E allora?
Chiedevamo
all’inizio: quali previsioni per l’economia? Ma non abbiamo nessuna risposta
conclusiva. Mentre stiamo scrivendo, i commenti della stampa internazionale
possono essere riassunti in ciò che scrive Le Figaro54 a proposito dello
sballottamento dei mercati azionari americani, europei, giapponesi: «Per una
volta tanto, all’origine della tempesta non ci sono i valori tecnologici. I
mercati hanno ormai gli occhi puntati sulla crescita mondiale della cui solidità
dubitano più che mai». Il motivo immediato è il timore di una crisi bancaria
in Giappone, con una possibile svalutazione dello yen; ma abbiamo visto che
altri motivi di timore non mancano. E il perno del nostro discorso sta in questa
continua situazione d’incertezza.
Due anni fa, poco tempo dopo una crisi che per mesi aveva scosso il mondo, la stampa segnalava uno stato generale di soddisfazione. «Un anno dopo la crisi russa del 1998 e dopo che, ancora sei mesi fa, tutti temevano un’apocalisse economica, gli scenari neri sono dimenticati», scriveva Le Monde55 – ed è soltanto un esempio. La Russia si stava riprendendo, l’Europa stava imboccando la buona strada, in America latina le cose non andavano a gonfie vele, ma si prevedeva che nel 2000 anche questo sarebbe passato – e la sola preoccupazione negli Stati Uniti era di evitare un surriscaldamento della crescita. Non mancavano gli avvertimenti. «Quel che sappiamo della crisi finanziaria globale è che non ne sappiamo molto», osservava un commentatore su Newsweek56. «Nessuno la vide arrivare a metà del 1997, né alcuno previde i suoi momenti più drammatici, dalla caduta di Suharto all’inadempienza russa sul debito, che pure non era inattesa. Perciò c’è ampio spazio per essere scettici su quest’ultima espressione di conventional wisdom: che il peggio è passato e che l’economia mondiale è riparata. Può essere vero – ma può essere un pio desiderio.»
In effetti, mentre nel 1999 tutti si rallegravano di averla scampata bella, nel 2000 il tono tornava a essere preoccupato. All’annuale riunione di Davos «il reale messaggio era: fateci l’abitudine. I trambusti e i guai finanziari resteranno a lungo e il mondo dovrà farci l’abitudine. Una cosa è chiara, ha detto Robert Rubin, ministro americano alle Finanze. Non ci sono “risposte facili e bacchette magiche” per revisionare le istituzioni finanziarie in modo da stabilizzare il capitalismo globale. Questo perché nessuno sa cosa fare. Per il momento, hanno detto molti partecipanti, il meglio è sperare che si impari abbastanza sui mercati globali e sulle tecnologie da superare gli inevitabili cicli di crisi».57
Uno può dubitare che il reale motivo sia che non si sa che cosa fare (viene piuttosto da pensare che, visti gli interessi in gioco, nessuno abbia realmente voglia di metterci le mani), e si può osservare che, in fondo, anche quel pessimismo era di convenienza; se piove spesso uno si abitua, non casca il mondo. Pare che l’opinione diffusa resti ancor oggi la stessa. Ma il punto che vogliamo sottolineare è sempre lo stesso: viviamo in zona sismica, però non abbiamo strumenti per anticipare le scosse e nessuna costruzione è antisismica. L’anno scorso, all’annuale riunione di banchieri centrali e di economisti convocata dalla Federal reserve bank di Kansas City, Paul Krugman presentò un paper per dire che «uno degli effetti della maggiore integrazione economica tra paesi è la più frequente ricorrenza di crisi finanziarie (e che) gli economisti non sono affatto d’accordo sulle cause dei guai che cominciarono in Asia nel 1997, né hanno elaborato alcunché su una nuova architettura finanziaria, o su un ricettario di risposta alle crisi».58
Se perciò noi, che siamo soltanto degli attenti lettori di giornali, chiudiamo questa rassegna senza giungere ad alcuna conclusione, siamo perlomeno scusati. Il problema non sta nella nostra ignoranza, sta nelle radici della globalizzazione.
NOTE!!!!!
1Mr Greenspan’s warning, editoriale del «Financial Times», 21 gennaio 1999.
2Gerard Baker, Irrepressible exuberance, «Financial Times», 26 febbraio 1999.
3Misterious prosperity, «International Herald Tribune», 3 febbraio 1999.
4U.S. trade deficit soars as imports hit a record, «International Herald Tribune», 22 gennaio 1999.
5Martin Wolf, Pruning America’s paper riches, «Financial Times», 19 aprile 2000.
6Allan Sloan, The $2.1 trillion market tumble, «Newsweek», 24 aprile 2000.
7Vedi la sezione E oggi... in «Notizie Internazionali» n. 70, febbraio 2001.
8George Meolloan, What about those sound economic fundamentals?, «Wall Street Journal», 17 aprile 2000.
9Régis Khaber, Etats-Unis: les grandes illusions, «Le Figaro», 12 marzo 2001.
10Patrice de Beers, La Rèserve Fédérale tente de freiner l’emballement de la croissance américaine, «Le Monde», 23 marzo 2000. 11Gerard Baker, Greenspan gets to grips with his next Mission Impossible, «Financial Times», 29 maggio 2000.
12Patrick Artus, Une conjoncture paradoxale, «Le Figaro», 26 maggio 2000.
13Soft or hard?, «Economist», 22 aprile 2000.
14Muriel Motte, La croissance américaine très déséquilibrée, «Le Figaro», 24 giugno 2000. 15Pierre-Yves Dugua, Coup de frein brutal à la croissance américaine, «Le Figaro», 28 ottobre 2000.
16Eric Leser, Après neuf ans de croissance ininterrompue, le pays connaît une prospérieté sans précédent, «Le Monde», 20 ottobre 2000.
17Profits? What profits?, «Economist», 21 ottobre 2000.
18Rich Miller, Still pumped up?, «Business Week», 13 novembre 2000.
19Sull’andamento delle vendite di calcolatori e tecnologia informatica vedi la sezione Bazaar, «Notizie Internazionali» n. 70, febbraio 2001. 20Michael J. Mandel, The economy passing a dimmer torch, «Business Week», 27 novembre 2000.
21Pierre-Yves Dugua, L’Amérique se réveille en sursaut, «Le Figaro», 8 dicembre 2000.
22Gerard Baker, A bumpy landing, «Financial Times», 2 dicembre 2000.
23James C. Cooper, Will the slowdown become a slump?, «Business Week», 25 dicembre 2000.
24Gerard Baker, The unexpected storm, «Financial Times», 29 dicembre 2000.
25Mitchell Martin, Fed chairmain warns growth «is close to zero», «International Herald Tribune», 26 gennaio 2001.
26Stéphane Marchand, Le miracle américain s’effiloche, «Le Figaro», 16 gennaio 2001
27Hard luck, hard landing?, «Economist», 24 febbraio 2001.
28A nasty but short slowdown, «Business Week», 19 febbraio 2001.
29Peronet Despeignes, US jobs growth defies talk of recession, «Financial Times», 10 marzo 2001.
30Debt trap!, «Economist», 27 gennaio 2001.
31Albert B. Crenshaw, After 2 bullish decades, market risk becomes an unpleasant reality again, «International Herald Tribune», 12 marzo 2001.
32L’«International Herald Tribune» del 13 marzo 2001 informava che il Nasdaq era calato di altri 118 punti, a 1.934 (esattamente un anno dopo aver raggiunto i 5.048); e che l’indice industriale Dow Jones era sceso di 387 punti, a 10.257 – sempre molto alto, ma non più in ascesa.
33David Henry, How bad will it get?, «Business Week», 12 marzo 2001.
34Dominique Gallois, Le ralentissement de la nouvelle économie continue à déstabiliser la Bourse américaine, «Le Monde», 11 marzo 2001.
35Brian Bremner, Why Japan is stuck, «Business Week», 12 aprile 1999.
36Paul Krugman, Recovery? Don’t bet on it, «Time», 21 giugno 1999.
37Into the whirlwind, «Economist», 22 gennaio 2000.
38Tokyo’s fiscal fudge, «Financial Times», 9 marzo 2001.
39Arnaud Rodier, La récession rattrape le Japon, «Le Figaro», 9 febbraio 2001.
40Rahul Jacob, Clouds gather again over Asian tigers, «Financial Times», 12 marzo 2001.
41Brian Bremner, Asia: how real is its recovery?, «Business Week», 3 maggio 1999.
42David E. Sanger, Crisis appears over, but Asia’s ills linger, «International Herald Tribune», 13 luglio 1999.
43Brian Bremner, Recovery without reform, «Business Week», 9 agosto 1999.
44John Plender, Emerging from gloom, «Financial Times», 11 aprile 2000.
45Paul Krugman, articolo già citato.
46Asia’s bounce-back, «Economist», 21 agosto 1999.
47Leyla Boulton, Turkish turmoil, «Financial Times», 22 febbraio 2001.
48On the brink again, «Economist», 24 febbraio 2001.
49Leyla Boulton, Picking up the pieces, «Financial Times», 8 marzo 2001.
50Alan Beattie, Turkey tests currency pegs to destruction, «Financial Times», 23 febbraio 2001.
51Muriel Motte, Le Fmi face à une nouvelle crise monétaire, «Le Figaro», 23 febbraio 2001.
52Cécile Prudhomme, La dévaluation en Turquie ravive les craintes d’une crise financière généralisée, «Le Monde», 24 febbraio 2001.
53Cifre fornite dal «Financial Times», 23 febbraio 2001.
54Anne Salomon, Europe, Etats-Unis, Japon, les marchés crequent, «Le Figaro», 15 marzo 2001.
55Babette Stern, Fin d’éclipse pour l’économie mondiale, «Le Monde», 18 agosto 1999.
56Robert J. Samuelson, Sunrise – or false dawn?, «Newsweek», 3 maggio 1999.
57Jonathan Gage, Message to shaky world economies: you’d better get used to it, «International Herald Tribune», 3 febbraio 1999.
58Richard W. Stevenson, «Low-grade anxiety» as rich nations wonder about next crisis, «International Herald Tribune», 28 agosto 2000.