Un
nuovo Notizie Internazionali
di
Claudio Sabattini
segretario
generale della Fiom-Cgil
Da sempre nella Fiom le tematiche legate alle questioni internazionali hanno avuto largo spazio nell’ambito delle attività della nostra organizzazione. Fin dai primi anni, infatti, lo sguardo della Fiom superò i confini nazionali dando risalto alle lotte degli operai metallurgici ovunque esse si articolassero. Prima, durante e subito dopo i due conflitti mondiali, la Fiom si tirò fuori dal coro ipocrita relativo alla questione «interventismo sì, interventismo no» evidenziando la naturale propensione della classe operaia a esercitare una politica di pace e di fratellanza e allo stesso tempo la determinazione nel rappresentare la dignità del lavoro anche in momenti di estrema difficoltà quando i più cedono al ricatto del «tutto si giustifica, si deve pur sopravvivere».
E nei diversi periodi di cento anni di storia, attraverso i propri bollettini o riviste, la Fiom ha sempre cercato di aderire a un’idea universale di diritti che legasse le lavoratrici e i lavoratori senza distinzioni. I meccanici, da questo punto di vista, hanno scritto nella storia del lavoro industriale pagine importanti, alcune di queste gloriose, per l’insieme della società.
E questo è stato evidenziato nel corso degli anni anche dalle innumerevoli iniziative di solidarietà internazionale verso chi, nel mondo, stava peggio, molto peggio. Iniziative che non sono cessate neanche in momenti in cui qui in Italia la situazione, per i lavoratori, era difficilissima. In questa impostazione, quindi, si spiegano le ultime a favore di lavoratori dei paesi della ex Yugoslavia immersi nell’incubo della guerra, e di quelli che oggi vivono lo stesso dramma in Palestina. Tutte iniziative sottratte alla vetrina della retorica e della propaganda anche se, bisogna pur dirlo, non sempre adeguate alla gravità delle situazioni.
Su questa scia, nel 1988, fu proprio «Notizie Internazionali» a proporsi come catalizzatore di attenzione su fatti e questioni che pur sembrando di secondo piano avevano una rilevanza nella lettura della situazione economica mondiale nel pieno di un periodo di trasformazioni strutturali del ciclo produttivo. Il bollettino della Fiom si impose come uno strumento utile proprio quando stava crescendo l’idea di un’Europa come Comunità che troverà nel prossimo anno la sua unità monetaria. Con il tempo il livello di attenzione generale è sceso, complice la crisi profonda del rapporto tra movimento operaio e informazione. E questo non va bene. A questo opponiamo un progetto di rilancio di «Notizie Internazionali» che prende il via da questo numero e che assumerà la sua forma definitiva nel 2002.
Va da sé che il passato dei meccanici da solo non può giustificare il rilancio di uno strumento di informazioni. Anche oggi come nel passato è possibile fare affidamento alla sostanza, alla materialità dei processi e questo ci riporta a considerare fatti e questioni attuali che appartengono alla sfera internazionale.
Mi sembra opportuno ribadire che non credo che la sola conoscenza dei fatti possa costituire un discorso. Sono necessarie la critica e l’elaborazione per produrre un percorso che abbia una sua dignità e che sia riconosciuto come valido.
D’altronde, come mi ritrovo a ripetere ultimamente, il nostro essere più europei non esclude di essere più «americani» e questo non dipende esclusivamente dai processi politici. Tutto ciò dipende dal fatto che l’internazionalizzazione dell’economia in Italia ha avuto un carattere di tipo passivo. Intendo dire che siamo stati acquistati non abbiamo acquistato. Potrebbe sembrare una battuta se non fosse per le conseguenze negative che questo ha provocato e che continuerà a provocare.
Questo riguarda, per esempio, le notizie riguardanti la crisi del settore dell’auto a livello internazionale che toccano non solo la Daewoo ma anche aziende giapponesi e americane. E se sarà vero, come sembra, che l’accordo con la General Motors provocherà lo spostamento di importanti pezzi di ricerca e sviluppo dell’auto dall’Italia verso gli Stati Uniti, si comprende come il processo di internazionalizzazione che riguarda questo settore avrà effetti, questi sì globali, e ci obbligherà a valutazioni impegnative e a un adeguamento delle strategie sindacali.
Occorre considerare che un nuovo processo si è imposto come architettura della condizione «passiva» della nostra economia. Mi riferisco al fatto che il processo di finanziarizzazione da importante si è trasformato in assolutamente dominante rispetto a quello classicamente produttivo cambiando pesi e misure a danno delle condizioni di lavoro delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’occupazione.
Oltretutto, sono ormai molti i gruppi multinazionali americani, tedeschi e inglesi che si sono appropriati di importanti risorse industriali, oltreché finanziarie, del nostro paese. Dato non trascurabile visto che, in Italia, i livelli di tutela, da un punto di vista sindacale, sono mediamente più alti se confrontati con quelli della maggior parte dei paesi citati.
Anche qui la conoscenza dei sistemi contrattuali nazionali e non, dei loro limiti potrà fornirci un quadro analitico su cui basare la nostra discussione futura. Ma non sarà sufficiente da sola.
Sto parlando di un futuro prossimo, visto che a partire dal prossimo anno i metalmeccanici europei verranno pagati in euro e che questi potranno a loro volta spendere con la stessa moneta in ogni paese della Comunità. Cambieranno le condizioni sociali per milioni di lavoratori di diverse nazioni che parlano lingue differenti, che provengono da culture differenti.
E proprio in chiave transnazionale avremo occasione di discutere anche dei limiti dei Comitati aziendali europei, che già sono emersi, e trovare la determinazione giusta nel discutere di un sindacato europeo che ancora tarda ad apparire nelle agende sindacali come impegno prioritario.
La domanda che continua a essere attuale all’interno del quadro appena delineato è se ci sono soggetti nella società europea ancora in grado di contrattare, e per noi la contrattazione è quella collettiva; non si riduce a un rapporto tra gerarchia e lavoratore. Per noi la contrattazione collettiva significa che ci sono due soggetti autonomi che si confrontano con propri obiettivi ed esigenze, due soggetti comunque di pari dignità. Si tratterà di rappresentare il lavoro nelle sue articolazioni in un mondo che si trasforma ma che del tanto sbandierato concetto di globale ha solo l’idea, prodotta dal liberismo, che il lavoro è considerato una merce, una merce intercambiabile continuamente la cui unica mediazione è il denaro. Trovare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dentro questa idea è impossibile; anzi i diritti diventano un impedimento e, quindi, il sindacato stesso diventa un impedimento.
Su queste tematiche apriamo a partire da oggi il dibattito. E se sono riuscito a spiegarmi bene avrete compreso che il rilancio del bollettino che Pino Tagliazucchi ha curato per tutti questi anni con competenza e generosità non è un semplice restyling. Alle sue energie se ne dovranno affiancare delle nuove per affrontare in modo adeguato la fase economica e sociale che ci si prospetta con un progetto che dovrà, come è nella tradizione della Fiom, coinvolgere tutti coloro che possono dare un contributo.
Roma, marzo 2001
USA
Immaginate un’elezione presidenziale
in cui: vince il candidato che ha ottenuto meno voti; vince grazie a una contesa
nello Stato governato da suo fratello; Stato in cui il sistema di voto è
contestato perché giudicato perlomeno tecnicamente non funzionale; il vincitore
è figlio di un ex presidente, magnate dell’industria petrolifera ed ex capo
dei servizi segreti; il vincitore è dichiarato tale dalla Corte suprema del
paese, e a maggioranza risicata. Sapete già di quale paese parliamo. E non
accusateci di antiamericanismo -
che è confondere una critica aspra con una pregiudiziale ideologica;
questi sono i fatti -
e li ripercorriamo fondandoci in larga parte sulla stampa americana.
La
campagna
Tutto
sommato, la campagna elettorale non si è distinta molto da altre campagne
precedenti. Il clima elettorale non era segnato da forti contrapposizioni
d’opinione e di interessi. Il Financial
Times[1]
osservava che sino alla vigilia
del voto gli elettori non sembravano molto interessati - e
commentava che «presi dall’espansione economica più lunga di tutta la loro
storia, gli americani considerano il loro futuro come brillante e invulnerabile
alle scosse e agli errori politici. In privato, il presidente Clinton lamenta
che il paese ritiene garantita la propria prosperità e che, di conseguenza, la
maggior parte degli elettori considera l’elezione del suo successore alla
stregua di un concorso liceale». Gli anni scorsi sono stati marcati da furiose
lotte politiche - basterebbe
ricordare la lunga campagna per l’impeachment
di Clinton -
su uno sfondo di rancori che
certamente non sono spariti; questo poi dovrebbe far riflettere sulla differenza
tra l’atteggiamento dell’elettore medio da un lato e la reale problematica
politica ed economica. Comunque, «l’umore degli americani, alla vigilia
dell’elezione, sembra essere di scontrosa soddisfazione. Essi sono soddisfatti
della loro notevole prosperità, ma non sanno quale candidato prospetti la
migliore linea di governo per continuarla. E la loro soddisfazione per lo stato
dell’economia trova la sua controparte nel malessere per lo stato della
politica».
Commento
ambiguo, che però sembrava riflettere l’ambiguità di una situazione. Senza
entrare nella tematica elettorale, si può rilevare che i commenti della stampa
americana sottolineavano due aspetti: anzitutto, il discorso di entrambi i
candidati riguardava quasi esclusivamente la politica interna, con scarsi
accenni a quella internazionale - e,
per quanto notevole, questo fatto non è specifico né di questa campagna, né
di una campagna elettorale americana; poi, che il tratto principale della
strategia elettorale dei due contendenti era a quale strato sociale rivolgersi - il
«centro», per tutti e due, ma orientamenti divergenti per il resto -
e naturalmente gli argomenti con cui
accattivarselo. Così - per
limitarci a un’indicazione d’ordine generale -
«il codice segreto della campagna di Bush era che la politica non conta
niente, il paese è tranquillo, i mercati sono in ascesa, perciò puoi
permetterti di votare per il guy che
preferisci perché siamo tutti centristi felici, adesso. W. Bush ha sfidato Al
Gore a battersi sul quel terreno, mentre lui si piazzava in mezzo al campo,
alzava una tenda e invitava ogni elettore al suo party»[2].
Gore, invece, controbatteva: «La presidenza è qualcosa di più di una contesa
di popolarità. E’ una lotta quotidiana per il popolo (e) rivolgeva il suo
messaggio alle «famiglie operaie» (working
families) (che) cercano di far
fronte al mutuo per la casa, al costo dell’auto e di metter da parte un
risparmio per gli studi dei figli» -
che, detto tra noi, è un populismo
molto 2000.
Il
dibattito, pare, è stato particolarmente serrato sulla questione di come
disporre delle eccedenze di bilancio. Secondo stime del Congressional budget
office (Cbo) nel settembre scorso l’eccedenza di bilancio stava a 232 miliardi
di dollari, pari al 2,4% del reddito nazionale e, sempre secondo i calcoli del
Cbo, essa dovrebbe arrivare a 685 miliardi di dollari entro il 2010, cioè al
4,4% del reddito nazionale[3].
È una questione complessa -
nella quale entrano anzitutto la
validità di quei calcoli, il contrappeso di un debito esterno in continua
crescita, il fatto che il risparmio privato si è praticamente dimezzato dagli
anni Settanta e il fatto che, aggiungendo la voce sicurezza sociale (che assorbe
2.400 miliardi) pare che si potrebbe arrivare addirittura a un’eccedenza di
4.600 miliardi. La domanda elettorale era: come utilizzarli? Scrive Le
Figaro[4],
riassumendo un’analisi diffusa, che Al Gore prometteva di «raddoppiare il
numero di famiglie con un tasso di risparmio sui 50.000 dollari, aumentare di un
terzo, in dieci anni, il reddito familiare, nonché la quota di americani
proprietari della propria casa. (Prometteva inoltre) di rimborsare il debito
pubblico federale entro il 2012 e di creare dieci milioni di posti lavoro
nell’alta tecnologia»; infine prospettava un miglioramento
dell’assicurazione malattie per gli anziani e un calo di imposte per un totale
di 480 miliardi in dieci anni, ma solo per i contribuenti con un reddito annuo
inferiore ai 70.000 dollari.
Bush rispondeva sventolando praticamente una bandiera: riduzione delle tasse per tutti - e, commenta Le Figaro, «poiché l’80% delle imposte americane sono pagate dal 20% della popolazione, ne profitterebbero specialmente i più agiati». Abbiamo ridotto l’argomento all’osso, ma Time[5] fornisce alcune cifre che danno un’idea migliore delle differenza. Entrambi i candidati riservavano il 52,2% dell’eccedenza (2.400 miliardi) alla sicurezza sociale; ma mentre Bush si proponeva di incoraggiare la sua privatizzazione, Gore prometteva di ridurre il debito e di mantenere il carattere pubblico della sicurezza sociale; Gore prospettava un investimento in varie voci della sanità pubblica pari al 18,6% dell’eccedenza prospettata (cioè sugli 860 miliardi), mentre Bush limitava la spesa al 14,7% (pari a poco più di 670 miliardi di dollari); quanto alla riduzione fiscale, Gore prometteva un taglio pari al 13,5% dell’eccedenza (620 miliardi di dollari), Bush sparava invece un 34,8%, pari a 1.600 miliardi di dollari. Tutto, beninteso, proiettato sui prossimi dieci anni - e in base a calcoli fondati su una indefettibile prosperità economica. Era infatti diffusa la convinzione che «la crescita non inflazionista (sarebbe) continuata e che la nuova economia (aveva) definitivamente superato i cicli tradizionali»[6]. Solo alcune orecchie avvertivano i primi scricchiolii dell’economia.
Sì,
c’era anche la politica estera -
ma nell’angolo. «Dove Bush e Gore
presentano una differenza reale è sulle questioni più astratte ma anche più
vitali relative alla natura della potenza americana e su come usarla -
scriveva Time[7].
Gore ha prospettato una robusta politica estera guidata non meno dall’etica
che dall’interesse strategico. "Il nostro interesse nazionale deve essere
definito in termini di valori", egli ha detto. Gore e il suo vice, Joseph
Lieberman, sono da tempo tra i democratici più aggressivi. Per Gore, la
dottrina di "impegno avanzato" va oltre i problemi che impongono
l’azione militare» -
ad esempio, l’aids in Africa e
altre malattie diffuse sono «una minaccia potenziale per la sicurezza americana
ed esigono un intervento». Bush, invece, insieme ai suoi advisers,
in buona parte dell’epoca Reagan e Bush padre, «respingono il significato di
ciò che Gore chiama "la nuova agenda strategica" e non stimano molto
l’efficacia degli interventi americani. Bush accetta la linea espressa da
Colin Powell, suo futuro segretario di Stato: gli interventi militari
"devono rispondere a degli interessi vitali, le missioni devono essere
chiare e la strategia di uscita evidente". I conflitti locali è meglio
lasciarli alle potenze regionali. Bush ritiene che gli interventi di
Clinton-Gore a Haiti e in Somalia siano stati dei tentativi sbagliati di "nation building" e che i bombardamenti sul Kosovo e l’Iraq
siano stati insufficienti». Questo può spiegare, almeno in parte, perché nei
loro bilanci di previsione Gore riservi il 2,8% dell’eccedenza (127 miliardi
di dollari) alla difesa e Bush soltanto l’1% (45 miliardi).
E’
bene snocciolare delle cifre per chiarire di chi stiamo parlando. [8]
Economia.
Pil pari a
8.178 miliardi di dollari
Unione europea:
7.986 miliardi di dollari
Giappone:
3.049 “
“
15% del
commercio mondiale. Più di un terzo delle 500 principali multinazionali e 5 dei
10 maggiori gruppi mondiali nel settore degli armamenti. 8 milioni di lavoratori
nelle società americane presenti in paesi stranieri. 23% della produzione
mondiale di beni e servizi -
contro il 40% nel 1950.
Forze
armate.
Tra il 1990 e il 1999 la spesa militare è scesa dal 27% del bilancio federale
al 17%; ma nel bilancio 2000 (votato nell’ottobre 1999) essa è risalita di
27,8 miliardi di dollari, pari a un aumento del 7% rispetto al 1999.
Gli organici
delle forze armate ammontano a 1,4 milioni di uomini (oltre a 1 milione di
guardie nazionali e 730.000 civili del dipartimento della Difesa). Le forze
stazionate all’estero ammontano a 225.000 uomini, di cui 98.000 in Europa.
Cultura
L’industria culturale americana rende sui 18 miliardi di dollari
l’anno ed è la seconda voce in fatto di esportazioni. Si calcola che negli
anni Novanta gli Usa hanno esportato «image»
verso l’Europa per 4 miliardi di dollari, cioè 12 volte di più di quanto
abbia fatto l’Europa verso gli Stati Uniti.
Popolazione 275
milioni di abitanti. I neri sono il 12% della popolazione, cioè 31 milioni di
persone. Un residente su 10 è nato fuori dagli Stati Uniti, cioè 25,8 milioni
di persone. La metà di questi viene dall’America latina (tra cui 7 milioni di
messicani).
Insomma,
alla vigilia delle elezioni Time[9]
dava i risultati degli ultimi sondaggi su come si schieravano gli
elettori. Risultava che mentre Bush controllava la propria base repubblicana con
un 90%, Gore raccoglieva i consensi solo del 77% della base democratica -
e pare che questo sia stato uno degli
aspetti salienti della campagna; inoltre, mentre il 54% delle donne era per Gore
(contro il 40% per Bush), gli uomini (anche quelli delle «famiglie operaie»)
erano al 35% per Gore e al 55% per Bush. Resta un ultimo aspetto, tutt’altro
che secondario, ma sul quale non abbiamo dati sufficienti: il finanziamento
della campagna elettorale - che
pare abbia superato ogni precedente. Le
Figaro[10]
scriveva che i democratici avevano ricevuto donazioni per 474 milioni di dollari
e i repubblicani per 678 milioni. Il grosso è venuto dagli industriali: 340,25
milioni e 495,99 milioni rispettivamente; seguono i sindacati con 56,31 e 52,38
milioni; poi gli «altri» con 77,76 e 128,98 milioni[11].
Sempre lo stesso quotidiano pubblicava una tabella delle donazioni industriali e
sindacali da cui riprendiamo alcuni dati:
Imprese | Importo 1) | Democratici | Repubblicani |
AT$T |
4,32 |
38% |
62% |
Microsoft |
3,45 |
46% |
54% |
Goldman & Sachs |
2,65 |
73% |
27% |
Philip Morris |
2,47 |
21% |
78% |
Lockheed Martin |
2,00 |
39% |
61% |
Sindacati |
|||
Feder. Funzionari (AFSCME) |
4,10 |
98% |
2% |
Dipendenti dei servizi |
3,54 |
97% |
3% |
Operai delle comunicazioni |
3,13 |
99% |
1% |
Fraternità int. elettrici |
2,97 |
97% |
3% |
Associazione armaioli |
2,31 |
7% |
93% |
Camionisti (steamers) |
2,14 |
94% |
6% |
Aerospaziale |
1,98 |
99% |
0% |
1)
In milioni di dollari.
La
zuffa
Conoscete
i fatti. Il voto è stato dispari di poco, come tutti si aspettavano. «Dal
punto di vista sociale - scrive
l’Economist[12]
-
il paese si è spaccato in due parti
uguali. Esattamente la metà dei votanti con un reddito annuo di 30-50.000
dollari ha votato per Gore e il 46% per Bush. A uno scalino più su il dato si
rovescia: 50% dei votanti con reddito annuo di 50-75.000 dollari ha votato per
Bush e il 47% per Gore. I diplomati di scuola media superiore si sono divisi a
metà, con il 48% per ciascuno dei due candidati. E così via. È stata una
divisione matematicamente quasi esatta. Da dietro a questa perfetta spaccatura
emerge un quadro più ampio. C’è stato un forte spacco tra sessi. Le donne
hanno votato al 54% per Gore e al 42% per Bush -
ma questo vantaggio è stato
leggermente inferiore a quello che favorì Clinton nel 1996. Bush ha avuto
risultati migliori di quelli che i repubblicani ottengono di solito tra i latinos,
riducendo così il vantaggio democratico precedente di 7 a 2 a un 2 a 1.
Malgrado la retorica di Gore sulle "famiglie operaie", il 46% di
quelli che si definiscono come "classe operaia" ha votato per Bush».
È
vero, ma è una lettura frettolosa. Osserva infatti il Financial
Times[13]
che
«un nuovo spacco netto si è presentato tra voto urbano e voto rurale. Di
solito i democratici riescono bene nelle zone urbane, mentre i repubblicani
trovano un buon sostegno in quelle rurali. Ma questa volta la differenza è
stata enorme. Più del 70% dei votanti nelle aree metropolitane con oltre
500.000 abitanti ha votato per Gore; quasi il 60% di quelli nelle aree rurali ha
votato per Bush. Il voto degli ispanici, un blocco elettorale sempre più
importante negli Stati del Sud e in California, è andato a Gore per il 67% e a
Bush per il 31%. (...) Gore è stato fortemente favorito da votanti che
trovavano il loro reddito familiare migliore oggi di quattro anni fa; Bush ha
vinto tra coloro che invece l’hanno visto peggiorare. Quattro anni fa solo un
terzo degli elettori sostenevano che la loro condizione finanziaria era
migliorata; quest’anno l’ha detto la metà dei votanti. I votanti neri, che
rappresentano circa il 10% dell’elettorato e che generalmente votano
democratico, hanno in grande maggioranza scelto Gore (90%, contro l’8% a Bush).
(...) Il voto dei cittadini ebrei è stato come al solito largamente democratico
(79% per Gore), ma Bush ha raccolto un 19%, contro l’11% che andò a suo padre
nel 1992. (...) I votanti per la prima volta hanno dato il 52% a Gore e il 43% a
Bush». E il quotidiano fornisce questi dati, ripresi dal Voter news system:
|
Gore |
Bush |
Nader |
Uomini |
42% |
53% |
3% |
Donne |
54% |
43% |
2% |
Bianchi |
42% |
54% |
3% |
Neri |
90% |
8% |
1% |
Ispanici |
67% |
31% |
2% |
Asiatici |
54% |
41% |
4% |
18-29 anni |
48% |
46% |
5% |
30-44 “ |
48% |
49% |
2% |
45-59 “ |
48% |
49% |
2% |
60 e oltre |
51% |
47% |
2% |
15.000 e meno di reddito |
57% |
37% |
4% |
15-29.000 |
54% |
41% |
3% |
30.000-49.000 |
49% |
48% |
2% |
50.000 e oltre |
45% |
52% |
2% |
75.000 e oltre |
44% |
53% |
2% |
100.000 e oltre |
43% |
54% |
2% |
Votanti per la prima volta |
52% | 43% | 4% |
Sembra
perciò che ci sia stata una distinzione sociale dalle motivazioni certamente
complesse, che non si possono ricondurre a degli schemi -
e che andrebbero analizzate; e si può
parlare di risultati quasi uguali per entrambi i candidati, ma non di parità.
La parità si manifesta invece nel voto per la Camera e il Senato -
un fatto caduto nell’ombra dell’elezione
presidenziale, ma da cui trae origine la zuffa sul voto elettorale:
|
Camera |
Senato |
||
Prima |
Adesso |
Prima |
Adesso |
|
Repubblicani |
223 |
220 |
54 |
50 |
Democratici |
210 |
211 |
46 |
49 |
Indipendenti |
2 |
2 |
0 |
0 |
Fonte:
«Business Week», 20 novembre 2000. Al
momento della pubblicazione, erano ancora indecisi 2 seggi alla Camera e 1 al
Senato.
Insomma,
concludeva l’Economist, «due problemi guasteranno il risultato e possono
avvelenare il successo. Il primo riguarda soltanto Bush. Anche se vince la
presidenza non otterrà la maggioranza del voto popolare. Bush ha tirato dalla
sua una larga parte degli Stati piccoli (l’Arkansas e il Tennessee per quattro
punti), mentre Gore ha dalla sua alcuni grandi Stati (New York per 25 punti,
l’Illinois per 11 punti). Perciò è possibile il risultato che molti temevano
- un
presidente eletto dall’Electoral college
ma che ha perso il voto popolare. (...) Il secondo problema riguarda entrambi i
candidati: la parte perdente si sentirà frodata». E ciò che a metà novembre
appariva come una forte possibilità è poi divenuto realtà: un presidente che
ha perso sul piano del voto popolare e uno scontro violento per non «farsi
fregare». Ma che significano «voto popolare» e «Collegio elettorale»? In
che cosa i democratici si sono sentiti defraudati, che cosa hanno accanitamente
difeso i repubblicani? E qua entriamo nel dedalo della zuffa -
che ha sommerso ogni valutazione del
voto e dei suoi motivi.
Clinton
ha pronunciato una frase storica: «Il popolo americano ha parlato, ma ci vorrà
un po’ di tempo per sapere cosa ha detto» - e
commentava Time[14]:
«Dopo diciotto mesi di campagna elettorale e più di un miliardo di dollari,
sembra che l’elezione presidenziale del 2000 sarà decisa da un pugno di voti».
Bisogna capirsi: il «pugno di voti» riguarda la Florida, dove appunto
ci si è scannati per strappare quel ristretto margine che decideva la posizione
del Collegio elettorale dello Stato; ma per l’insieme del voto nazionale, Gore
ha battuto Bush con uno scarto di 533.002 voti[15]; non è uno scarto
gigantesco, ma poiché l’accento è di solito messo sul «pugno di voti» e
sulla divisione elettorale in parti uguali, questo va sottolineato. Inoltre,
questo va sottolineato perché lì sta la questione centrale: il sistema elettorale.
Confessiamolo
subito, qua ci troviamo in acque profonde, acque che meriterebbero di essere
scandagliate per capire cosa sia davvero il potere negli Stati Uniti, ma noi
nuotiamo male, perciò ci rifacciamo a una fonte americana, Business
Week[16]:
«Il colpo di fortuna elettorale ravviva un dibattito vecchio di un secolo sulla
questione se il Collegio elettorale non debba essere buttato tra i rifiuti.
Perché ci teniamo una istituzione traballante che già per tre volte nella
nostra storia ha eletto presidente uno che ha perso il voto popolare?
Sfacciatamente elitario, il Collegio elettorale fu creato nel 1787 dai padri
fondatori come contrappeso a troppa democrazia e per proteggere gli Stati da un
invadente potere federale».
«Ecco
come funziona. Ogni Stato ha un numero di voti elettorali pari alla sua
rappresentanza alla Camera e al Senato. Perciò uno Stato come la California,
con 52 rappresentanti alla Camera e
2 senatori, ha 54 voti elettorali. Qual è il problema? Gli Stati piccoli e di
dimensione media hanno più peso quando si sceglie il presidente. Per esempio, i
22 Stati più piccoli presi insieme hanno una popolazione inferiore a quella
della California, ma circa il doppio dei voti elettorali. E per vincere, un
candidato deve ottenere 270 dei 538 voti elettorali». Chiaro? E’ vero,
osserva il settimanale, che se non fosse così un candidato non avrebbe molto
interesse a condurre la sua campagna anche nei piccoli Stati e a non
concentrarsi unicamente sulle grandi città, ma dall’altro canto il sistema
«è sostenuto specialmente da grossi interessi come i coltivatori e i gun-rights
groups (cioè gli appassionati della pistola). Poiché essi sono concentrati
in zone meno popolose e rurali, questo gonfia il loro potere in Stati decisivi
come lo Iowa e il Tennessee. Inoltre, entrambi i partiti sostengono il Collegio
elettorale perché dato il carattere di winner-takes-all
(chi vince prende tutto) del voto elettorale in quasi tutti gli Stati, un terzo
partito non ha alcuna possibilità. Nel 1992, Ross Perot ricevette il 19% del
voto popolare e non ebbe un solo voto elettorale». Perciò l’affermazione,
ripetuta spesso anche in questa campagna, che «ogni voto conta» è vera - però...
Si
spiega così la zuffa per i voti elettorali della Florida, decisivi nella scelta
del presidente. Questa zuffa ha impressionato il mondo -
e, bisogna dirlo, non ha precedenti
nell’intera storia elettorale americana. Casi analoghi sì -
tre, di cui due alla fine
dell’Ottocento, i casi in cui un presidente è stato eletto col voto
elettorale ma aveva perso quello popolare -
ma non una zuffa legale come questa.
Come
stessero le cose a pochi giorni dal voto ce lo dice l’Economist[17]:
«Martedì pomeriggio, una settimana dopo la notte elettorale, il segretario di
Stato della Florida, Katherine Harris, ha annunciato che i risultati delle 67
contee dello Stato davano Bush vincitore per 300 su circa 6 milioni di voti.
Essa ha aggiunto che certificava questo conteggio in attesa dei risultati di
circa 4.000 absentee ballots da parte
di votanti residenti all’estero. Nessuno sa che cosa porteranno questi voti.
Ma Gore si attende che i voti repubblicani del personale militare all’estero
battano quelli degli ebrei democratici residenti in Israele. In questo caso i 25
voti elettorali della Florida darebbero a Bush i 270 voti necessari e lo
porterebbero alla presidenza». Bisogna tener presente che governatore della
Florida è Jeb Bush, fratello di W. Bush -
e che Katherine Harris sta dalla sua
parte.
Gore
ritenne che il voto non fosse stato contato in modo esatto. «Secondo gente che
gli ha parlato la settimana scorsa - scriveva
Time[18] - egli
crede che se tutti i voti fossero stati contati fairly
(onestamente) egli avrebbe vinto in Florida con un vantaggio di oltre 30.000
voti. Secondo lui, il fatto di aver vinto il voto popolare su scala nazionale
gli permette di dimostrare che avrebbe vinto anche in Florida, se non fosse
stato per delle schede mal disegnate e per delle macchine di registrazione
difettose. Gore è convinto che la sua squadra può aver scoperto perché tanti
voti nella contea di Palm Beach risultano essere chiaramente punzonate in tutte
le voci meno che in quella presidenziale. Gli scrutatori avevano giudicato che
quella svista era un segno di indecisione dell’elettore e avevano annullato
tutti quei voti; ma allora perché Palm Beach aveva un totale di questi voti di
cinque volte superiore a quello di altre contee con sistemi diversi? Perché
un’attrezzatura logora aveva reso difficile fare un buco netto in quel punto,
dicono i sostenitori di Gore (e) i democratici hanno raccolto le dichiarazione
giurate di 10.000 elettori democratici i quali dichiarano che erano stati
confusi dalla conformazione della scheda, avevano avuto difficoltà nel
punzonare dove volevano, non avevano avuto assistenza o avevano ricevuto istruzioni
sbagliate dal personale del seggio».
Gore
perciò impugnò il risultato e la Corte suprema della Florida decise che
bisogna rifare a mano tutto il conteggio - decisione
che Bush dichiarò subito «illegittima». Bisogna spiegare che non soltanto
ogni Stato, ma anche ogni contea, ha o può avere un sistema di voto diverso.
Sono gli Stati o le contee «che fissano le regole, stabiliscono la forma della
scheda e decidono in che ordine vanno presentati i candidati (non esiste scheda
unica). In Oregon, i voti degli assenti devono pervenire nel giorno
dell’elezione; nello Stato di Washington e in Florida basta che siano imbucati
in quel giorno. Che ci crediate o no, la legge del New Mexico permette che
un’elezione testa a testa sia decisa a poker
o gettando una moneta. Nel marzo scorso questo è accaduto nell’elezione di un
consigliere comunale: un candidato vinse a testa o croce. Una conclusione della
controversia è che gli americani stanno finalmente discutendo di come
razionalizzare questo guazzabuglio. La tecnologia può essere risibile. New York
usa 20.000 macchine a leva meccanica che furono introdotte per la prima volta
nel 1892. Circa il 12% dei seggi usa carta e matita. All’altro capo della
tecnologia stanno un 9% di seggi che usano sistemi computerizzati che registrano
i voti elettronicamente, come una macchina di cassa». Per un’esattezza
pedante, Newsweek[19] precisa che a livello
nazionale il 2% dei seggi usa il voto con matita su scheda di carta, i 9% usa
sistemi misti, un altro 9% usa il voto elettronico, un 19% delle lever
machines che non conosciamo, il 27% un controllo ottico e il 34% delle
schede a punzonatura.
Del
resto si è giustamente parlato della causa intentata da Gore per alcune contee
della Florida, ma i repubblicani hanno fatto altrettanto nel Wisconsin e nello
Iowa -
e di questo non si è poi saputo più
niente. E il commento più mordente è dell’Economist[20]:
«Immaginate che cosa sarebbe successo se nelle recenti elezioni in Yugoslavia
fosse stata sollevata una contestazione analoga in una provincia governata dal
fratello di Slobodan Milosevic con la decisione affidata al copresidente della
campagna elettorale di Milosevic. Non sorprende che internet sia pieno di
battute sulla Yugoslavia che offre di mandare in Florida delle truppe di peacekeeping».
Bisogna
dirlo, siamo al ridicolo. Il Corriere
della Sera[21],
che citiamo in via straordinaria, si diverte a elencare i vari tipi di chad,
cioè dei dischetti di carta che risultano da una insufficiente punzonatura
della scheda: «Un chad può essere
bilanciato, doppiobilanciato, semiimploso, scoppiato, semiscoppiato, pendulo,
quasipendulo, disassato, scentrato. E chi più ne ha più ne metta».
E va precisato che come il termine chad
è divenuto corrente solo in questa occasione, così la serie
di definizioni di come esso può trovarsi è stata motivo di controversie
legali. Sempre Newsweek elenca: un hanging
chad (dischetto o coriandolo penzolante), due tipi di swinging
chad (dischetto dondolante), un tri-chad
(cioè, se capiamo bene, un dischetto che si è distaccato solo in un punto) e
un dimpled o pregnant chad (cioè un
dischetto che si è gonfiato ma non si è staccato). Perciò se avete visto
delle foto di scrutatori che guardano le schede controluce sapete perché.
Business
Week[22]
-
che non è un settimanale
scandalistico, ma un autorevole organo d’informazione economica -
si sente autorizzato a scrivere che
«l’illecito elettorale si verifica a ogni elezione americana. Gli abusi vanno
da casi minori a infrazioni gravi come le schede false e l’intimidazione dei
votanti appartenenti a delle minoranze etniche»; ma stiamo parlando del voto «regolare»
-
e ce n’è
abbastanza per farsi molte domande sull’esercizio e la struttura della
democrazia negli Usa.
Siamo
all’atto finale, il più lungo e tormentato, della vicenda: il ricorso ai
tribunali e l’intervento della Corte suprema degli Stati Uniti. A questo punto
alcuni chiarimenti sono necessari. Il primo consiste nel ripercorrere tutte le
sue fasi precedenti[23]:
7
novembre - i
primi risultati sono favorevoli a Bush, ma appare subito che l’esito delle elezioni in Florida è incerto e che lì gira l’esito conclusivo
della campagna;
8 novembre - alle 3 del mattino, Gore
telefona a Bush per riconoscergli la vittoria. Un’ora più tardi ritelefona
per ritrattare la sua dichiarazione;
9 novembre - Gore decide di chiedere il conteggio a mano nelle contee
di Palm Beach, Miami-Dade, Broward e Volusia, poiché appare che numerosi voti
non sono stati accettati;
10 novembre - un nuovo conteggio ufficioso in Florida dà un vantaggio
di Bush per 327 voti;
11 novembre - i
legali di Bush intentano un procedimento per bloccare la mossa di Gore;
13 novembre - un giudice federale a
Miami respinge il ricorso di Bush;
17 novembre - la Corte suprema della
Florida proibisce al segretario di Stato Katherine Harris di certificare i
risultati del voto, in attesa di ulteriori accertamenti;
18 novembre - Katherine Harris,
segretario di Stato per la Florida, annuncia che Bush batte Gore per 930 voti;
20 novembre - la
Corte suprema della Florida rifiuta di convalidare la vittoria di Bush;
21 novembre -
sempre la Corte suprema della Florida decide il conteggio manuale e
stabilisce che la certificazione del risultato deve avvenire tra il 26 e il 27
novembre;
24 novembre - la Corte suprema degli Stati Uniti decide di esaminare il
ricorso di Bush sulla legalità delle decisioni della Corte suprema della
Florida;
26 novembre - Bush è di nuovo dichiarato vincitore per 537 voti; Gore
contesta per via legale;
1 dicembre - la Corte suprema americana ascolta i legali di Bush. La
Corte suprema della Florida respinge la richiesta di Gore di riprendere il
conteggio a mano; i legali del partito democratico chiedono di invalidare 25.000
voti nelle contee di Seminole e Martin;
4 dicembre
- La Corte suprema americana
blocca la decisione della Corte della Florida di procedere al conteggio a mano,
chiedendo chiarimenti. Il giudice Sanders Sauls, della Corte distrettuale di
Leon County, respinge il ricorso di Gore - il
quale procede in appello;
8 dicembre - La Corte suprema della
Florida decide a maggioranza di cominciare il conteggio a mano per 45.000
schede; Bush ricorre alla Corte di appello distrettuale di Atlanta e alla Corte
suprema americana per bloccare il conteggio;
9 dicembre - la Corte suprema
americana decide a maggioranza ristretta (5 contro 4) di fermare il conteggio a
mano in attesa di udire i legali delle due parti;
11 dicembre - i legali di Bush e Gore
argomentano le loro posizioni davanti alla Corte suprema americana. La Camera e
il Senato della Florida approvano una risoluzione che nomina il Collegio
elettorale dello Stato, favorevole a Bush;
12 dicembre - il Parlamento della
Florida, riunito in sessione straordinaria, nomina i membri del Collegio
elettorale. la Corte suprema americana respinge il conteggio a mano.
Il
secondo chiarimento riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti -
la quale, respingendo la decisione
della Corte suprema della Florida sul conteggio a mano e annunciando il suo
verdetto alle 10 di sera del 12 dicembre (cioè due ore prima che comunque quel
conteggio scadesse) -
ha di fatto eletto Bush. Altro
aspetto peculiare: tutti i suoi membri sono eletti politicamente. Essi sono[24]:
William
Renhquist presidente della Corte, 78 anni, nominato nel gennaio 1972 da Richard
Nixon e promosso poi presidente da Ronald Reagan;
John Paul Stevens
80 anni, designato nel dicembre 1975 da Gerald Ford -
e principale esponente dell’ala liberal;
Sandra Day O’Connor
70 anni, nominata nel settembre 1981 da Ronald Reagan;
Antonin Scalia
64 anni, nominato da Ronald Reagan nel settembre 1986 e ultraconservatore;
Anthony Kennedy
64 anni, nominato da Ronald Reagan
nel febbraio 1988;
David Souter
61 anni, nominato nell’ottobre
1988 da George Bush;
Clarence Thomas
52 anni, nominato nell’ottobre 1991 da George Bush;
Ruth Rader Ginsburg
67
anni, nominata nell’agosto 1993 da Bill Clinton;
Stephen Breyer
52 anni, nominato nell’agosto 1994 da Bill Clinton.
Il
fatto che, oltre ai tre di nomina democratica, uno degli «altri» si sia
schierato con la minoranza è un fatto positivo; ma in un altro paese queste
nomine sarebbero guardate perlomeno con sospetto, tanto più che la Corte deve
giurare fedeltà al presidente -
che è anche primo ministro, cioè
capo dell’esecutivo.
Il
13 dicembre, 36 giorni dopo il voto, Al Gore riconosce la sua sconfitta. Come ne
esce l’America? Non ce lo chiediamo soltanto noi. Scrive un editoriale del Washington
Post[25]:
«La politica in America è in uno stato di grave rovina (serious desrepair). I fatti delle ultime settimane in Florida ne
sono solo la più recente manifestazione. Strappare il successo vale di più di
ciò che uno può farne. L’inganno degli elettori è diventata una tattica
ammessa, la norma di entrambi i partiti, contro la quale il pubblico deve difendersi.
L’affidamento alla televisione più un basso rispetto per la verità producono
un tipo di demagogia che è diventato il rumore di fondo delle campagne
elettorali». Diciamo la verità: uno si sentirebbe di dire che è un caso
unico, ma qua stiamo parlando degli Stati Uniti, il modello stesso della
democrazia e dei diritti umani. E l’editoriale va oltre: «Il ritegno
nell’uso del denaro per acquistare funzioni e favori politici è crollato. I
gruppi d’interesse - associazioni
industriali e sindacati, organizzazioni ambientaliste, di diritto alla vita, di
armi e un numero illimitato di altri scopi -
sono tutti insieme giunti a manovrare
somme sempre più rilevanti e con una potenza maggiore di quella dei partiti. La
politica non è mai stata una professione innocente, ma adesso è differente dal
passato. (...) Il paese è scivolato in una politica mercenaria e di terra
bruciata nella quale il punto sembra spesso essere di arrivare al successo,
indipendentemente dal suo uso. La sola cosa che conti è quale candidato salga
sul podio. Le campagne sono enormemente costose; la funzione principale del
candidato, a parte le indispensabili apparizioni in pubblico, su copione, sembra
spesso essere la raccolta dei fondi necessari. (...) Il paese è prigioniero di
una specie di pugilismo politico che lo sta seriamente danneggiando».
I
primi atti di Bush nella scelta dei membri del suo governo -
cioè dei suoi «segretari» -,
le prime mosse della sua politica e quel che tutto questo prefigura sono un
argomento da considerare -
ma in altra
sede. Noi possiamo fermarci qua.
[1] Gerard Baker, Bored in the USA, «Financial Times», 5 novembre 2000.
[2] Nancy Gibbs, Picking a fight, «Time», 28 agosto 2000.
[3] Benjamin M. Friedman, Gore vs. Bush: the difference, «The New York Times Review of Books», ottobre 2000.
[4] La manne fabuleuse de l’excédent budgétaire, «Le Figaro», 23 ottobre 2000.
[5] Amanda Ripley, Cut for you!, «Time», 4 settembre 2000.
[6] «Le Figaro» già citato.
[7] Romesh Ratnersar, Global warnings, «Time», 30 ottobre 2000.
[8] Da «Le Monde», 20 ottobre 2000.
[9] Nancy Gibbs, Two men, two visions, «Time», 6 novembre 2000.
[10] Pierre-Yves Dugua, Les patrons américains satisfaits de la cohabitation, «Le Figaro», 7 novembre 2000.
[11] «Le Monde Diplomatique», dicembre 2000, scrive che nel 1992 la campagna elettorale costò 1 miliardo di dollari, nel 1996 costò più di 2 miliardi di dollari e nel 2000 la spesa è stata tra i 3 e i 4 miliardi di dollari, ma non fornisce analisi e fonti.
[12] And still no winner, «Economist», 11 novembre 2000.
[13] Deborah McGregor, America’s swing voters failed to swing it, «Financial Times», 16 novembre 2000.
[14] Nancy Gibbs, Reversal of fortune, «Time», 20 novembre 2000.
[15] «Le Monde», 3 gennaio 2001. Il quotidiano si riferisce al sito internet del Collegio elettorale, che dipende dagli Archivi nazionali. Secondo i primi calcoli il vantaggio di Gore era di 337.000 voti; ma poi, spiega «Le Monde», sono stati contati i voti per corrispondenza.
[16] Why the electral college lives on, «Business Week», 20 novembre 2000.
[17] Unleashing the dogs of war, «Economist», 18 novembre 2000.
[18] Nancy Gibbs, Bush’s contested lead, «Time», 4 dicembre 2000.
[19] Evan Thomas, Shootout in the sun, «Newsweek», 27 novembre 2000.
[20] «Economist» del 18 novembre, già citato.
[21] Massimo Piattelli Palmarini, E i filosofi studiano i coriandoli elettorali, «Corriere della Sera», 11 dicembre 2000.
[22] Sleight of hands, «Business Week», 27 novembre 2000.
[23] Lo facciamo rifacendoci all’«International Herald Tribune» del 13 dicembre 2000 e a «Le Figaro» del 14 dicembre 2000.
[24] Riprendiamo queste informazione da «Le Monde», 14 dicembre 2000.
[25] Political decadence, ripreso dall’«International Herald Tribune», 27 novembre 2000.