Notizie Internazionali n.70
Bollettino bimestrale della Fiom-Cgil a cura di Pino Tagliazucchi

Un nuovo Notizie Internazionali

 di Claudio Sabattini

segretario generale della Fiom-Cgil

Da sempre nella Fiom le tematiche legate alle questioni internazionali hanno avuto largo spazio nell’ambito delle attività della nostra organizzazione. Fin dai primi anni, infatti, lo sguardo della Fiom superò i confini nazionali dando risalto alle lotte degli operai metallurgici ovunque esse si articolassero. Prima, durante e subito dopo i due conflitti mondiali, la Fiom si tirò fuori dal coro ipocrita relativo alla questione «interventismo sì, interventismo no» evidenziando la naturale propensione  della classe operaia a esercitare una politica di pace e di fratellanza e allo stesso tempo la determinazione nel rappresentare la dignità del lavoro anche in momenti di estrema difficoltà quando i più cedono al ricatto del «tutto si giustifica, si deve pur sopravvivere».

E nei diversi periodi di cento anni di storia, attraverso i propri bollettini o riviste, la Fiom ha sempre cercato di aderire a un’idea universale di diritti che legasse le lavoratrici e i lavoratori senza distinzioni. I meccanici, da questo punto di vista, hanno scritto nella storia del lavoro industriale pagine importanti, alcune di queste gloriose,  per l’insieme della società.

E questo è stato evidenziato nel corso degli anni anche dalle innumerevoli iniziative di solidarietà internazionale verso chi, nel mondo, stava peggio, molto peggio. Iniziative che non sono cessate neanche  in momenti in cui qui in Italia la situazione, per i lavoratori, era difficilissima. In questa impostazione, quindi, si spiegano le ultime a favore di lavoratori dei paesi della ex Yugoslavia immersi nell’incubo della guerra, e di quelli che oggi  vivono lo stesso dramma in Palestina. Tutte iniziative sottratte alla vetrina della retorica e della propaganda anche se, bisogna pur dirlo, non sempre adeguate alla gravità delle situazioni.

Su questa scia, nel 1988, fu proprio «Notizie Internazionali» a proporsi come catalizzatore di attenzione su fatti e questioni che pur sembrando di secondo piano avevano una rilevanza nella lettura della situazione economica mondiale nel pieno di un periodo di trasformazioni strutturali del ciclo produttivo. Il bollettino della Fiom si impose come uno strumento utile proprio quando stava crescendo l’idea di un’Europa come Comunità che troverà nel prossimo anno la sua unità monetaria. Con il tempo il livello di attenzione generale è sceso, complice la crisi profonda del rapporto tra movimento operaio e informazione. E questo non va bene. A questo opponiamo un progetto di rilancio di «Notizie Internazionali» che prende il via da questo numero e che assumerà la sua forma definitiva nel 2002.

Va da sé che il passato dei meccanici da solo non può giustificare il rilancio di uno strumento di informazioni. Anche oggi come nel passato è possibile fare affidamento alla sostanza, alla materialità dei processi e questo ci riporta a considerare fatti e questioni attuali che appartengono alla sfera internazionale.

Mi sembra opportuno ribadire che non credo che la sola conoscenza dei fatti possa costituire un discorso. Sono necessarie la critica e l’elaborazione per produrre un percorso che abbia una sua dignità e che sia riconosciuto come valido.

D’altronde, come mi ritrovo a ripetere ultimamente, il nostro essere più europei non esclude di essere più «americani» e questo non dipende esclusivamente dai processi politici. Tutto ciò dipende dal fatto che l’internazionalizzazione dell’economia in Italia ha avuto un carattere di tipo passivo. Intendo dire che siamo stati acquistati non abbiamo acquistato. Potrebbe sembrare una battuta se non fosse per le conseguenze negative che questo ha provocato e che continuerà a provocare.

Questo riguarda, per esempio, le notizie riguardanti la crisi del settore dell’auto a livello internazionale che toccano non solo la Daewoo ma anche aziende giapponesi e americane. E se sarà vero, come sembra, che l’accordo con la General Motors provocherà lo spostamento di importanti pezzi di ricerca e sviluppo dell’auto dall’Italia verso gli Stati Uniti, si comprende come il processo di internazionalizzazione che riguarda questo settore avrà effetti, questi sì globali, e ci obbligherà a valutazioni impegnative e a un adeguamento delle strategie sindacali.

Occorre considerare che un nuovo processo si è imposto come architettura della condizione «passiva» della nostra economia. Mi riferisco al fatto che il processo di finanziarizzazione da importante si è trasformato in assolutamente dominante rispetto a quello classicamente produttivo cambiando pesi e misure a danno delle condizioni di lavoro delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’occupazione.

Oltretutto, sono ormai molti i gruppi multinazionali americani, tedeschi e inglesi che si sono appropriati di importanti risorse industriali, oltreché finanziarie, del nostro paese. Dato non trascurabile visto che, in Italia, i livelli di tutela, da un punto di vista sindacale,  sono mediamente più alti se confrontati con quelli della maggior parte dei paesi citati.

Anche qui la conoscenza dei sistemi contrattuali nazionali e non, dei loro limiti potrà fornirci un quadro analitico su cui basare la nostra discussione futura. Ma non sarà sufficiente da sola.

Sto parlando di un futuro prossimo, visto che a partire dal prossimo anno i metalmeccanici europei verranno pagati in euro e che questi potranno a loro volta spendere con la stessa moneta in ogni paese della Comunità. Cambieranno le condizioni sociali per milioni di lavoratori di diverse nazioni che parlano lingue differenti, che provengono da culture differenti.

E proprio in chiave transnazionale avremo occasione di discutere anche dei limiti dei Comitati aziendali europei, che già sono emersi, e trovare la determinazione giusta nel discutere di un sindacato europeo che  ancora tarda ad apparire nelle agende sindacali come impegno prioritario.

La domanda che continua a essere attuale all’interno del quadro appena delineato è se ci sono soggetti nella società europea ancora in grado di contrattare, e per noi la contrattazione è quella collettiva; non si riduce a un rapporto tra gerarchia e lavoratore. Per noi la contrattazione collettiva significa che ci sono due soggetti autonomi che si confrontano con propri obiettivi ed esigenze, due soggetti comunque di pari dignità. Si tratterà di rappresentare il lavoro nelle sue articolazioni in un mondo che si trasforma ma che del tanto sbandierato concetto di globale ha solo l’idea, prodotta dal liberismo, che il lavoro è considerato una merce, una merce intercambiabile continuamente la cui unica mediazione è il denaro. Trovare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori dentro questa idea è impossibile; anzi i diritti diventano un impedimento e, quindi, il sindacato stesso diventa un impedimento.

Su queste tematiche apriamo a partire da oggi il dibattito. E se sono riuscito a spiegarmi bene avrete compreso che il rilancio del bollettino che Pino Tagliazucchi ha curato per tutti questi anni con competenza e generosità non è un semplice restyling. Alle sue energie se ne dovranno affiancare delle nuove per affrontare in modo adeguato la fase economica e sociale che ci si prospetta con un progetto che dovrà, come è nella tradizione della Fiom, coinvolgere tutti coloro che possono dare un contributo.  

Roma, marzo 2001


USA

La e-lezione americana

Immaginate un’elezione presidenziale in cui: vince il candidato che ha ottenuto meno voti; vince grazie a una contesa nello Stato governato da suo fratello; Stato in cui il sistema di voto è contestato perché giudicato perlomeno tecnicamente non funzionale; il vincitore è figlio di un ex presidente, magnate dell’industria petrolifera ed ex capo dei servizi segreti; il vincitore è dichiarato tale dalla Corte suprema del paese, e a maggioranza risicata. Sapete già di quale paese parliamo. E non accusateci di antiamericanismo -  che è confondere una critica aspra con una pregiudiziale ideologica; questi sono i fatti -  e li ripercorriamo fondandoci in larga parte sulla stampa americana.

La campagna

Tutto sommato, la campagna elettorale non si è distinta molto da altre campagne precedenti. Il clima elettorale non era segnato da forti contrapposizioni d’opinione e di interessi. Il Financial Times[1] osservava che sino alla vigilia del voto gli elettori non sembravano molto interessati -  e commentava che «presi dall’espansione economica più lunga di tutta la loro storia, gli americani considerano il loro futuro come brillante e invulnerabile alle scosse e agli errori politici. In privato, il presidente Clinton lamenta che il paese ritiene garantita la propria prosperità e che, di conseguenza, la maggior parte degli elettori considera l’elezione del suo successore alla stregua di un concorso liceale». Gli anni scorsi sono stati marcati da furiose lotte politiche -  basterebbe ricordare la lunga campagna per l’impeachment di Clinton -  su uno sfondo di rancori che certamente non sono spariti; questo poi dovrebbe far riflettere sulla differenza tra l’atteggiamento dell’elettore medio da un lato e la reale problematica politica ed economica. Comunque, «l’umore degli americani, alla vigilia dell’elezione, sembra essere di scontrosa soddisfazione. Essi sono soddisfatti della loro notevole prosperità, ma non sanno quale candidato prospetti la migliore linea di governo per continuarla. E la loro soddisfazione per lo stato dell’economia trova la sua controparte nel malessere per lo stato della politica».

Commento ambiguo, che però sembrava riflettere l’ambiguità di una situazione. Senza entrare nella tematica elettorale, si può rilevare che i commenti della stampa americana sottolineavano due aspetti: anzitutto, il discorso di entrambi i candidati riguardava quasi esclusivamente la politica interna, con scarsi accenni a quella internazionale -  e, per quanto notevole, questo fatto non è specifico né di questa campagna, né di una campagna elettorale americana; poi, che il tratto principale della strategia elettorale dei due contendenti era a quale strato sociale rivolgersi -  il «centro», per tutti e due, ma orientamenti divergenti per il resto -  e naturalmente gli argomenti con cui accattivarselo. Così -  per limitarci a un’indicazione d’ordine generale -  «il codice segreto della campagna di Bush era che la politica non conta niente, il paese è tranquillo, i mercati sono in ascesa, perciò puoi permetterti di votare per il guy che preferisci perché siamo tutti centristi felici, adesso. W. Bush ha sfidato Al Gore a battersi sul quel terreno, mentre lui si piazzava in mezzo al campo, alzava una tenda e invitava ogni elettore al suo party»[2]. Gore, invece, controbatteva: «La presidenza è qualcosa di più di una contesa di popolarità. E’ una lotta quotidiana per il popolo (e) rivolgeva il suo messaggio alle «famiglie operaie» (working families)  (che) cercano di far fronte al mutuo per la casa, al costo dell’auto e di metter da parte un risparmio per gli studi dei figli» -  che, detto tra noi, è un populismo molto 2000.

Il dibattito, pare, è stato particolarmente serrato sulla questione di come disporre delle eccedenze di bilancio. Secondo stime del Congressional budget office (Cbo) nel settembre scorso l’eccedenza di bilancio stava a 232 miliardi di dollari, pari al 2,4% del reddito nazionale e, sempre secondo i calcoli del Cbo, essa dovrebbe arrivare a 685 miliardi di dollari entro il 2010, cioè al 4,4% del reddito nazionale[3]. È una questione complessa -  nella quale entrano anzitutto la validità di quei calcoli, il contrappeso di un debito esterno in continua crescita, il fatto che il risparmio privato si è praticamente dimezzato dagli anni Settanta e il fatto che, aggiungendo la voce sicurezza sociale (che assorbe 2.400 miliardi) pare che si potrebbe arrivare addirittura a un’eccedenza di 4.600 miliardi. La domanda elettorale era: come utilizzarli? Scrive Le Figaro[4], riassumendo un’analisi diffusa, che Al Gore prometteva di «raddoppiare il numero di famiglie con un tasso di risparmio sui 50.000 dollari, aumentare di un terzo, in dieci anni, il reddito familiare, nonché la quota di americani proprietari della propria casa. (Prometteva inoltre) di rimborsare il debito pubblico federale entro il 2012 e di creare dieci milioni di posti lavoro nell’alta tecnologia»; infine prospettava un miglioramento dell’assicurazione malattie per gli anziani e un calo di imposte per un totale di 480 miliardi in dieci anni, ma solo per i contribuenti con un reddito annuo inferiore ai 70.000 dollari.

Bush rispondeva sventolando praticamente una bandiera: riduzione delle tasse per tutti -  e, commenta Le Figaro, «poiché l’80% delle imposte americane sono pagate dal 20% della popolazione, ne profitterebbero specialmente i più agiati». Abbiamo ridotto l’argomento all’osso, ma Time[5] fornisce alcune cifre che danno un’idea migliore delle differenza. Entrambi i candidati riservavano il 52,2% dell’eccedenza (2.400 miliardi) alla sicurezza sociale; ma mentre Bush si proponeva di incoraggiare la sua privatizzazione, Gore prometteva di ridurre il debito e di mantenere il carattere pubblico della sicurezza sociale; Gore prospettava un investimento in varie voci della sanità pubblica pari al 18,6% dell’eccedenza prospettata (cioè sugli 860 miliardi), mentre Bush limitava la spesa al 14,7% (pari a poco più di 670 miliardi di dollari); quanto alla riduzione fiscale, Gore prometteva un taglio pari al 13,5% dell’eccedenza (620 miliardi di dollari), Bush sparava invece un 34,8%, pari a 1.600 miliardi di dollari. Tutto, beninteso, proiettato sui prossimi dieci anni -  e in base a calcoli fondati su una indefettibile prosperità economica. Era infatti diffusa la convinzione che «la crescita non inflazionista (sarebbe) continuata e che la nuova economia (aveva) definitivamente superato i cicli tradizionali»[6]. Solo alcune orecchie avvertivano i primi scricchiolii dell’economia.

Sì, c’era anche la politica estera -  ma nell’angolo. «Dove Bush e Gore presentano una differenza reale è sulle questioni più astratte ma anche più vitali relative alla natura della potenza americana e su come usarla -  scriveva Time[7]. Gore ha prospettato una robusta politica estera guidata non meno dall’etica che dall’interesse strategico. "Il nostro interesse nazionale deve essere definito in termini di valori", egli ha detto. Gore e il suo vice, Joseph Lieberman, sono da tempo tra i democratici più aggressivi. Per Gore, la dottrina di "impegno avanzato" va oltre i problemi che impongono l’azione militare» -  ad esempio, l’aids in Africa e altre malattie diffuse sono «una minaccia potenziale per la sicurezza americana ed esigono un intervento». Bush, invece, insieme ai suoi advisers, in buona parte dell’epoca Reagan e Bush padre, «respingono il significato di ciò che Gore chiama "la nuova agenda strategica" e non stimano molto l’efficacia degli interventi americani. Bush accetta la linea espressa da Colin Powell, suo futuro segretario di Stato: gli interventi militari "devono rispondere a degli interessi vitali, le missioni devono essere chiare e la strategia di uscita evidente". I conflitti locali è meglio lasciarli alle potenze regionali. Bush ritiene che gli interventi di Clinton-Gore a Haiti e in Somalia siano stati dei tentativi sbagliati di "nation building" e che i bombardamenti sul Kosovo e l’Iraq siano stati insufficienti». Questo può spiegare, almeno in parte, perché nei loro bilanci di previsione Gore riservi il 2,8% dell’eccedenza (127 miliardi di dollari) alla difesa e Bush soltanto l’1% (45 miliardi).


E’ bene snocciolare delle cifre per chiarire di chi stiamo parlando. [8]

Economia.       Pil pari a 8.178 miliardi di dollari

                        Unione europea:             7.986 miliardi di dollari
                        Giappone:                      3.049                         

15% del commercio mondiale. Più di un terzo delle 500 principali multinazionali e 5 dei 10 maggiori gruppi mondiali nel settore degli armamenti. 8 milioni di lavoratori nelle società americane presenti in paesi stranieri. 23% della produzione mondiale di beni e servizi - contro il 40% nel 1950.

Forze armate.   Tra il 1990 e il 1999 la spesa militare è scesa dal 27% del bilancio federale al 17%; ma nel bilancio 2000 (votato nell’ottobre 1999) essa è risalita di 27,8 miliardi di dollari, pari a un aumento del 7% rispetto al 1999.

Gli organici delle forze armate ammontano a 1,4 milioni di uomini (oltre a 1 milione di guardie nazionali e 730.000 civili del dipartimento della Difesa). Le forze stazionate all’estero ammontano a 225.000 uomini, di cui 98.000 in Europa.

Cultura              L’industria culturale americana rende sui 18 miliardi di dollari l’anno ed è la seconda voce in fatto di esportazioni. Si calcola che negli anni Novanta gli Usa hanno esportato «image» verso l’Europa per 4 miliardi di dollari, cioè 12 volte di più di quanto abbia fatto l’Europa verso gli Stati Uniti.

Popolazione       275 milioni di abitanti. I neri sono il 12% della popolazione, cioè 31 milioni di persone. Un residente su 10 è nato fuori dagli Stati Uniti, cioè 25,8 milioni di persone. La metà di questi viene dall’America latina (tra cui 7 milioni di messicani).


Insomma, alla vigilia delle elezioni Time[9]  dava i risultati degli ultimi sondaggi su come si schieravano gli elettori. Risultava che mentre Bush controllava la propria base repubblicana con un 90%, Gore raccoglieva i consensi solo del 77% della base democratica -  e pare che questo sia stato uno degli aspetti salienti della campagna; inoltre, mentre il 54% delle donne era per Gore (contro il 40% per Bush), gli uomini (anche quelli delle «famiglie operaie») erano al 35% per Gore e al 55% per Bush. Resta un ultimo aspetto, tutt’altro che secondario, ma sul quale non abbiamo dati sufficienti: il finanziamento della campagna elettorale -  che pare abbia superato ogni precedente. Le Figaro[10] scriveva che i democratici avevano ricevuto donazioni per 474 milioni di dollari e i repubblicani per 678 milioni. Il grosso è venuto dagli industriali: 340,25 milioni e 495,99 milioni rispettivamente; seguono i sindacati con 56,31 e 52,38 milioni; poi gli «altri» con 77,76 e 128,98 milioni[11]. Sempre lo stesso quotidiano pubblicava una tabella delle donazioni industriali e sindacali da cui riprendiamo alcuni dati:

Imprese Importo 1) Democratici Repubblicani

AT$T  

   4,32  

   38%  

   62%

Microsoft  

   3,45  

   46% 

   54%

Goldman & Sachs  

2,65  

73%  

27%

Philip Morris  

2,47  

21%  

78%

Lockheed Martin  

2,00  

39%  

61%

 

Sindacati

Feder. Funzionari (AFSCME)  

4,10  

98%  

 2%                 

Dipendenti dei servizi  

3,54  

97%

 3%                 

Operai delle comunicazioni  

3,13  

99%  

 1%                 

Fraternità int. elettrici  

2,97  

97%  

 3%                 

Associazione armaioli  

2,31  

7%   

93%   

Camionisti (steamers)  

2,14  

94%  

 6%                 

Aerospaziale  

1,98  

99%  

0%

1) In milioni di dollari.

La zuffa

Conoscete i fatti. Il voto è stato dispari di poco, come tutti si aspettavano. «Dal punto di vista sociale -  scrive l’Economist[12] -  il paese si è spaccato in due parti uguali. Esattamente la metà dei votanti con un reddito annuo di 30-50.000 dollari ha votato per Gore e il 46% per Bush. A uno scalino più su il dato si rovescia: 50% dei votanti con reddito annuo di 50-75.000 dollari ha votato per Bush e il 47% per Gore. I diplomati di scuola media superiore si sono divisi a metà, con il 48% per ciascuno dei due candidati. E così via. È stata una divisione matematicamente quasi esatta. Da dietro a questa perfetta spaccatura emerge un quadro più ampio. C’è stato un forte spacco tra sessi. Le donne hanno votato al 54% per Gore e al 42% per Bush -  ma questo vantaggio è stato leggermente inferiore a quello che favorì Clinton nel 1996. Bush ha avuto risultati migliori di quelli che i repubblicani ottengono di solito tra i latinos, riducendo così il vantaggio democratico precedente di 7 a 2 a un 2 a 1. Malgrado la retorica di Gore sulle "famiglie operaie", il 46% di quelli che si definiscono come "classe operaia" ha votato per Bush».

È vero, ma è una lettura frettolosa. Osserva infatti il Financial Times[13] che «un nuovo spacco netto si è presentato tra voto urbano e voto rurale. Di solito i democratici riescono bene nelle zone urbane, mentre i repubblicani trovano un buon sostegno in quelle rurali. Ma questa volta la differenza è stata enorme. Più del 70% dei votanti nelle aree metropolitane con oltre 500.000 abitanti ha votato per Gore; quasi il 60% di quelli nelle aree rurali ha votato per Bush. Il voto degli ispanici, un blocco elettorale sempre più importante negli Stati del Sud e in California, è andato a Gore per il 67% e a Bush per il 31%. (...) Gore è stato fortemente favorito da votanti che trovavano il loro reddito familiare migliore oggi di quattro anni fa; Bush ha vinto tra coloro che invece l’hanno visto peggiorare. Quattro anni fa solo un terzo degli elettori sostenevano che la loro condizione finanziaria era migliorata; quest’anno l’ha detto la metà dei votanti. I votanti neri, che rappresentano circa il 10% dell’elettorato e che generalmente votano democratico, hanno in grande maggioranza scelto Gore (90%, contro l’8% a Bush). (...) Il voto dei cittadini ebrei è stato come al solito largamente democratico (79% per Gore), ma Bush ha raccolto un 19%, contro l’11% che andò a suo padre nel 1992. (...) I votanti per la prima volta hanno dato il 52% a Gore e il 43% a Bush». E il quotidiano fornisce questi dati, ripresi dal Voter news system:

  

   Gore

Bush

   Nader

Uomini  

  42%  

53%  

3%

Donne  

   54%  

43%  

2%

Bianchi  

 42%  

54%  

3%

Neri  

   90%  

  8%  

  1%

Ispanici  

 67%  

31%  

2%

Asiatici  

  54%  

41%  

4%

18-29 anni  

48%  

   46%  

5%

30-44     

 48%  

49%  

2%

45-59     

 48%  

49%  

2%

60 e oltre  

     51%  

   47%  

2%

15.000 e meno di reddito  

  57%  

37%  

4%

15-29.000  

   54%  

   41%  

3%

30.000-49.000  

49%  

48%  

2%

50.000 e oltre  

   45%  

52%  

2%

75.000 e oltre  

   44%  

53%  

2%

100.000 e oltre  

   43%  

54%  

2%

Votanti per la prima volta

52%   43%   4%

Sembra perciò che ci sia stata una distinzione sociale dalle motivazioni certamente complesse, che non si possono ricondurre a degli schemi -  e che andrebbero analizzate; e si può parlare di risultati quasi uguali per entrambi i candidati, ma non di parità. La parità si manifesta invece nel voto per la Camera e il Senato -  un fatto caduto nell’ombra dell’elezione presidenziale, ma da cui trae origine la zuffa sul voto elettorale:

                   

 

Camera

Senato

Prima

Adesso

 Prima

Adesso

Repubblicani  

223    

220

54

50 

Democratici  

210  

211

46

49

Indipendenti  

2

2

0

0  

Fonte: «Business Week», 20 novembre 2000. Al momento della pubblicazione, erano ancora indecisi 2 seggi alla Camera e 1 al Senato.

Insomma, concludeva l’Economist, «due problemi guasteranno il risultato e possono avvelenare il successo. Il primo riguarda soltanto Bush. Anche se vince la presidenza non otterrà la maggioranza del voto popolare. Bush ha tirato dalla sua una larga parte degli Stati piccoli (l’Arkansas e il Tennessee per quattro punti), mentre Gore ha dalla sua alcuni grandi Stati (New York per 25 punti, l’Illinois per 11 punti). Perciò è possibile il risultato che molti temevano -  un presidente eletto dall’Electoral college ma che ha perso il voto popolare. (...) Il secondo problema riguarda entrambi i candidati: la parte perdente si sentirà frodata». E ciò che a metà novembre appariva come una forte possibilità è poi divenuto realtà: un presidente che ha perso sul piano del voto popolare e uno scontro violento per non «farsi fregare». Ma che significano «voto popolare» e «Collegio elettorale»? In che cosa i democratici si sono sentiti defraudati, che cosa hanno accanitamente difeso i repubblicani? E qua entriamo nel dedalo della zuffa -  che ha sommerso ogni valutazione del voto e dei suoi motivi.

Clinton ha pronunciato una frase storica: «Il popolo americano ha parlato, ma ci vorrà un po’ di tempo per sapere cosa ha detto» -  e commentava Time[14]: «Dopo diciotto mesi di campagna elettorale e più di un miliardo di dollari, sembra che l’elezione presidenziale del 2000 sarà decisa da un pugno di voti».  Bisogna capirsi: il «pugno di voti» riguarda la Florida, dove appunto ci si è scannati per strappare quel ristretto margine che decideva la posizione del Collegio elettorale dello Stato; ma per l’insieme del voto nazionale, Gore ha battuto Bush con uno scarto di 533.002 voti[15]; non è uno scarto gigantesco, ma poiché l’accento è di solito messo sul «pugno di voti» e sulla divisione elettorale in parti uguali, questo va sottolineato. Inoltre, questo va sottolineato perché lì sta la questione centrale: il sistema elettorale.

Confessiamolo subito, qua ci troviamo in acque profonde, acque che meriterebbero di essere scandagliate per capire cosa sia davvero il potere negli Stati Uniti, ma noi nuotiamo male, perciò ci rifacciamo a una fonte americana, Business Week[16]: «Il colpo di fortuna elettorale ravviva un dibattito vecchio di un secolo sulla questione se il Collegio elettorale non debba essere buttato tra i rifiuti. Perché ci teniamo una istituzione traballante che già per tre volte nella nostra storia ha eletto presidente uno che ha perso il voto popolare? Sfacciatamente elitario, il Collegio elettorale fu creato nel 1787 dai padri fondatori come contrappeso a troppa democrazia e per proteggere gli Stati da un invadente potere federale».

«Ecco come funziona. Ogni Stato ha un numero di voti elettorali pari alla sua rappresentanza alla Camera e al Senato. Perciò uno Stato come la California, con 52  rappresentanti alla Camera e 2 senatori, ha 54 voti elettorali. Qual è il problema? Gli Stati piccoli e di dimensione media hanno più peso quando si sceglie il presidente. Per esempio, i 22 Stati più piccoli presi insieme hanno una popolazione inferiore a quella della California, ma circa il doppio dei voti elettorali. E per vincere, un candidato deve ottenere 270 dei 538 voti elettorali». Chiaro? E’ vero, osserva il settimanale, che se non fosse così un candidato non avrebbe molto interesse a condurre la sua campagna anche nei piccoli Stati e a non concentrarsi unicamente sulle grandi città, ma dall’altro canto il sistema «è sostenuto specialmente da grossi interessi come i coltivatori e i gun-rights groups (cioè gli appassionati della pistola). Poiché essi sono concentrati in zone meno popolose e rurali, questo gonfia il loro potere in Stati decisivi come lo Iowa e il Tennessee. Inoltre, entrambi i partiti sostengono il Collegio elettorale perché dato il carattere di winner-takes-all (chi vince prende tutto) del voto elettorale in quasi tutti gli Stati, un terzo partito non ha alcuna possibilità. Nel 1992, Ross Perot ricevette il 19% del voto popolare e non ebbe un solo voto elettorale». Perciò l’affermazione, ripetuta spesso anche in questa campagna, che «ogni voto conta» è vera - però...

Si spiega così la zuffa per i voti elettorali della Florida, decisivi nella scelta del presidente. Questa zuffa ha impressionato il mondo -  e, bisogna dirlo, non ha precedenti nell’intera storia elettorale americana. Casi analoghi sì -  tre, di cui due alla fine dell’Ottocento, i casi in cui un presidente è stato eletto col voto elettorale ma aveva perso quello popolare -  ma non una zuffa legale come questa.

Come stessero le cose a pochi giorni dal voto ce lo dice l’Economist[17]: «Martedì pomeriggio, una settimana dopo la notte elettorale, il segretario di Stato della Florida, Katherine Harris, ha annunciato che i risultati delle 67 contee dello Stato davano Bush vincitore per 300 su circa 6 milioni di voti. Essa ha aggiunto che certificava questo conteggio in attesa dei risultati di circa 4.000 absentee ballots da parte di votanti residenti all’e­stero. Nessuno sa che cosa porteranno questi voti. Ma Gore si attende che i voti repubblicani del personale militare all’estero battano quelli degli ebrei democratici residenti in Israele. In questo caso i 25 voti elettorali della Florida darebbero a Bush i 270 voti necessari e lo porterebbero alla presidenza». Bisogna tener presente che governatore della Florida è Jeb Bush, fratello di W. Bush -  e che Katherine Harris sta dalla sua parte.

Gore ritenne che il voto non fosse stato contato in modo esatto. «Secondo gente che gli ha parlato la settimana scorsa -  scriveva Time[18] -  egli crede che se tutti i voti fossero stati contati fairly (onestamente) egli avrebbe vinto in Florida con un vantaggio di oltre 30.000 voti. Secondo lui, il fatto di aver vinto il voto popolare su scala nazionale gli permette di dimostrare che avrebbe vinto anche in Florida, se non fosse stato per delle schede mal disegnate e per delle macchine di registrazione difettose. Gore è convinto che la sua squadra può aver scoperto perché tanti voti nella contea di Palm Beach risultano essere chiaramente punzonate in tutte le voci meno che in quella presidenziale. Gli scrutatori avevano giudicato che quella svista era un segno di indecisione dell’elettore e avevano annullato tutti quei voti; ma allora perché Palm Beach aveva un totale di questi voti di cinque volte superiore a quello di altre contee con sistemi diversi? Perché un’attrezzatura logora aveva reso difficile fare un buco netto in quel punto, dicono i sostenitori di Gore (e) i democratici hanno raccolto le dichiarazione giurate di 10.000 elettori democratici i quali dichiarano che erano stati confusi dalla conformazione della scheda, avevano avuto difficoltà nel punzonare dove volevano, non avevano avuto assistenza o avevano ricevuto istruzioni sbagliate dal personale del seggio».

Gore perciò impugnò il risultato e la Corte suprema della Florida decise che bisogna rifare a mano tutto il conteggio -  decisione che Bush dichiarò subito «illegittima». Bisogna spiegare che non soltanto ogni Stato, ma anche ogni contea, ha o può avere un sistema di voto diverso. Sono gli Stati o le contee «che fissano le regole, stabiliscono la forma della scheda e decidono in che ordine vanno presentati i candidati (non esiste scheda unica). In Oregon, i voti degli assenti devono pervenire nel giorno dell’elezione; nello Stato di Washington e in Florida basta che siano imbucati in quel giorno. Che ci crediate o no, la legge del New Mexico permette che un’elezione testa a testa sia decisa a poker o gettando una moneta. Nel marzo scorso questo è accaduto nell’elezione di un consigliere comunale: un candidato vinse a testa o croce. Una conclusione della controversia è che gli americani stanno finalmente discutendo di come razionalizzare questo guazzabuglio. La tecnologia può essere risibile. New York usa 20.000 macchine a leva meccanica che furono introdotte per la prima volta nel 1892. Circa il 12% dei seggi usa carta e matita. All’altro capo della tecnologia stanno un 9% di seggi che usano sistemi computerizzati che registrano i voti elettronicamente, come una macchina di cassa». Per un’esattezza pedante, Newsweek[19] precisa che a livello nazionale il 2% dei seggi usa il voto con matita su scheda di carta, i 9% usa sistemi misti, un altro 9% usa il voto elettronico, un 19% delle lever machines che non conosciamo, il 27% un controllo ottico e il 34% delle schede a punzonatura.

Del resto si è giustamente parlato della causa intentata da Gore per alcune contee della Florida, ma i repubblicani hanno fatto altrettanto nel Wisconsin e nello Iowa -  e di questo non si è poi saputo più niente. E il commento più mordente è dell’Economist[20]: «Immaginate che cosa sarebbe successo se nelle recenti elezioni in Yugoslavia fosse stata sollevata una contestazione analoga in una provincia governata dal fratello di Slobodan Milosevic con la decisione affidata al copresidente della campagna elettorale di Milosevic. Non sorprende che internet sia pieno di battute sulla Yugoslavia che offre di mandare in Florida delle truppe di peacekeeping».

Bisogna dirlo, siamo al ridicolo. Il Corriere della Sera[21], che citiamo in via straordinaria, si diverte a elencare i vari tipi di chad, cioè dei dischetti di carta che risultano da una insufficiente punzonatura della scheda: «Un chad può essere bilanciato, doppiobilanciato, semiimploso, scoppiato, semiscoppiato, pendulo, quasipendulo, disassato, scentrato. E chi più ne ha più ne metta».  E va precisato che come il termine chad  è divenuto corrente solo in questa occasione, così la serie di definizioni di come esso può trovarsi è stata motivo di controversie legali. Sempre Newsweek elenca: un hanging chad (dischetto o coriandolo penzolante), due tipi di swinging chad (dischetto dondolante), un tri-chad (cioè, se capiamo bene, un dischetto che si è distaccato solo in un punto) e un dimpled o pregnant chad (cioè un dischetto che si è gonfiato ma non si è staccato). Perciò se avete visto delle foto di scrutatori che guardano le schede controluce sapete perché.  

Business Week[22] -  che non è un settimanale scandalistico, ma un autorevole organo d’informazione economica -  si sente autorizzato a scrivere che «l’illecito elettorale si verifica a ogni elezione americana. Gli abusi vanno da casi minori a infrazioni gravi come le schede false e l’intimidazione dei votanti appartenenti a delle minoranze etniche»; ma stiamo parlando del voto «regolare» -  e ce n’è abbastanza per farsi molte domande sull’e­sercizio e la struttura della democrazia negli Usa.

Siamo all’atto finale, il più lungo e tormentato, della vicenda: il ricorso ai tribunali e l’intervento della Corte suprema degli Stati Uniti. A questo punto alcuni chiarimenti sono necessari. Il primo consiste nel ripercorrere tutte le sue fasi precedenti[23]:

7 novembre - i primi risultati sono favorevoli a Bush, ma appare subito che l’esito delle elezioni in Florida è incerto e che lì gira l’esito conclusivo della campagna;   
8 novembre - alle 3 del mattino, Gore telefona a Bush per riconoscergli la vittoria. Un’ora più tardi ritelefona per ritrattare la sua dichiarazione;                      
9 novembre -  Gore decide di chiedere il conteggio a mano nelle contee di Palm Beach, Miami-Dade, Broward e Volusia, poiché appare che numerosi voti non sono stati accettati;
10 novembre -  un nuovo conteggio ufficioso in Florida dà un vantaggio di Bush per 327 voti;                
11 novembre -   i legali di Bush intentano un procedimento per bloccare la mossa di Gore;
13 novembre - un giudice federale a Miami respinge il ricorso di Bush;             
17 novembre - la Corte suprema della Florida proibisce al segretario di Stato Katherine Harris di certificare i risultati del voto, in attesa di ulteriori accertamenti;                       
18 novembre - Katherine Harris, segretario di Stato per la Florida, annuncia che Bush batte Gore per 930 voti;                
20 novembre -  la Corte suprema della Florida rifiuta di convalidare la vittoria di Bush;
21 novembre -  sempre la Corte suprema della Florida decide il conteggio manuale e stabilisce che la certificazione del risultato deve avvenire tra il 26 e il 27 novembre;                       
24 novembre -  la Corte suprema degli Stati Uniti decide di esaminare il ricorso di Bush sulla legalità delle decisioni della Corte suprema della Florida;
26 novembre -  Bush è di nuovo dichiarato vincitore per 537 voti; Gore contesta per via legale;
1 dicembre -  la Corte suprema americana ascolta i legali di Bush. La Corte suprema della Florida respinge la richiesta di Gore di riprendere il conteggio a mano; i legali del partito democratico chiedono di invalidare 25.000 voti nelle contee di Seminole e Martin;
4  dicembre -  La Corte suprema americana blocca la decisione della Corte della Florida di procedere al conteggio a mano, chiedendo chiarimenti. Il giudice Sanders Sauls, della Corte distrettuale di Leon County, respinge il ricorso di Gore -  il quale procede in appello;
8 dicembre - La Corte suprema della Florida decide a maggioranza di cominciare il conteggio a mano per 45.000 schede; Bush ricorre alla Corte di appello distrettuale di Atlanta e alla Corte suprema americana per bloccare il conteggio;  
9 dicembre - la Corte suprema americana decide a maggioranza ristretta (5 contro 4) di fermare il conteggio a mano in attesa di udire i legali delle due parti;              
11 dicembre - i legali di Bush e Gore argomentano le loro posizioni davanti alla Corte suprema americana. La Camera e il Senato della Florida approvano una risoluzione che nomina il Collegio elettorale dello Stato, favorevole a Bush;             
12 dicembre - il Parlamento della Florida, riunito in sessione straordinaria, nomina i membri del Collegio elettorale. la Corte suprema americana respinge il conteggio a mano.

Il secondo chiarimento riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti -  la quale, respingendo la decisione della Corte suprema della Florida sul conteggio a mano e annunciando il suo verdetto alle 10 di sera del 12 dicembre (cioè due ore prima che comunque quel conteggio scadesse) -  ha di fatto eletto Bush. Altro aspetto peculiare: tutti i suoi membri sono eletti politicamente. Essi sono[24]:

William Renhquist presidente della Corte, 78 anni, nominato nel gennaio 1972 da Richard Nixon e promosso poi presidente da Ronald Reagan;        
John Paul Stevens       80 anni, designato nel dicembre 1975 da Gerald Ford -  e principale esponente dell’ala liberal;           
Sandra Day O’Connor  70 anni, nominata nel settembre 1981 da Ronald Reagan;        
Antonin Scalia             64 anni, nominato da Ronald Reagan nel settembre 1986 e ultraconservatore;
Anthony Kennedy        64 anni, nominato da Ronald Reagan nel febbraio 1988;             
David Souter               61 anni, nominato nell’ottobre 1988 da George Bush;                       
Clarence Thomas        52 anni, nominato nell’ottobre 1991 da George Bush;                       
Ruth Rader Ginsburg  67 anni, nominata nell’agosto 1993 da Bill Clinton;          
Stephen Breyer           52 anni, nominato nell’agosto 1994 da Bill Clinton.

Il fatto che, oltre ai tre di nomina democratica, uno degli «altri» si sia schierato con la minoranza è un fatto positivo; ma in un altro paese queste nomine sarebbero guardate perlomeno con sospetto, tanto più che la Corte deve giurare fedeltà al presidente -  che è anche primo ministro, cioè capo dell’esecutivo.                                              

Il 13 dicembre, 36 giorni dopo il voto, Al Gore riconosce la sua sconfitta. Come ne esce l’America? Non ce lo chiediamo soltanto noi. Scrive un editoriale del Washington Post[25]: «La politica in America è in uno stato di grave rovina (serious desrepair). I fatti delle ultime settimane in Florida ne sono solo la più recente manifestazione. Strappare il successo vale di più di ciò che uno può farne. L’inganno degli elettori è diventata una tattica ammessa, la norma di entrambi i partiti, contro la quale il pubblico deve difendersi. L’affidamento alla televisione più un basso rispetto per la verità producono un tipo di demagogia che è diventato il rumore di fondo delle campagne elettorali». Diciamo la verità: uno si sentirebbe di dire che è un caso unico, ma qua stiamo parlando degli Stati Uniti, il modello stesso della democrazia e dei diritti umani. E l’editoriale va oltre: «Il ritegno nell’uso del denaro per acquistare funzioni e favori politici è crollato. I gruppi d’interesse -  associazioni industriali e sindacati, organizzazioni ambientaliste, di diritto alla vita, di armi e un numero illimitato di altri scopi -  sono tutti insieme giunti a manovrare somme sempre più rilevanti e con una potenza maggiore di quella dei partiti. La politica non è mai stata una professione innocente, ma adesso è differente dal passato. (...) Il paese è scivolato in una politica mercenaria e di terra bruciata nella quale il punto sembra spesso essere di arrivare al successo, indipendentemente dal suo uso. La sola cosa che conti è quale candidato salga sul podio. Le campagne sono enormemente costose; la funzione principale del candidato, a parte le indispensabili apparizioni in pubblico, su copione, sembra spesso essere la raccolta dei fondi necessari. (...) Il paese è prigioniero di una specie di pugilismo politico che lo sta seriamente danneggiando».

I primi atti di Bush nella scelta dei membri del suo governo -  cioè dei suoi «segretari» -, le prime mosse della sua politica e quel che tutto questo prefigura sono un argomento da considerare -  ma in altra sede. Noi possiamo fermarci qua.


[1] Gerard Baker, Bored in the USA, «Financial Times», 5 novembre 2000.

[2] Nancy Gibbs, Picking a fight, «Time», 28 agosto 2000.

[3] Benjamin M. Friedman, Gore vs. Bush: the difference, «The New York Times Review of Books», otto­bre 2000.

[4] La manne fabuleuse de l’excédent budgétaire, «Le Figaro», 23 ottobre 2000.

[5] Amanda Ripley, Cut for you!, «Time», 4 settembre 2000.

[6] «Le Figaro» già citato.

[7] Romesh Ratnersar, Global warnings, «Time», 30 ottobre 2000.

[8] Da «Le Monde», 20 ottobre 2000.

[9] Nancy Gibbs, Two men, two visions, «Time», 6 novembre 2000.

[10] Pierre-Yves Dugua, Les patrons américains satisfaits de la cohabitation, «Le Figaro», 7 novembre 2000.

[11] «Le Monde Diplomatique», dicembre 2000, scrive che nel 1992 la campagna elettorale costò 1 miliardo di dollari, nel 1996 costò più di 2 miliardi di dollari e nel 2000 la spesa è stata tra i 3 e i 4 miliardi di dollari, ma non fornisce analisi e fonti.

[12] And still no winner, «Economist», 11 novembre 2000.

[13] Deborah McGregor, America’s swing voters failed to swing it, «Financial Times», 16 novembre 2000.

[14] Nancy Gibbs, Reversal of fortune, «Time», 20 novembre 2000.

[15] «Le Monde», 3 gennaio 2001. Il quotidiano si riferisce al sito internet del Collegio elettorale, che dipende dagli Archivi nazionali. Secondo i primi calcoli il vantaggio di Gore era di 337.000 voti; ma poi, spiega «Le Monde», sono stati contati i voti per corrispondenza.

[16] Why the electral college lives on, «Business Week», 20 novembre 2000.

[17] Unleashing the dogs of war, «Economist», 18 novembre 2000.

[18] Nancy Gibbs, Bush’s contested lead, «Time», 4 dicembre 2000.

[19] Evan Thomas, Shootout in the sun, «Newsweek», 27 novembre 2000.

[20] «Economist» del 18 novembre, già citato.

[21] Massimo Piattelli Palmarini, E i filosofi studiano i coriandoli elettorali, «Corriere della Sera», 11 dicembre 2000.

[22]  Sleight of hands, «Business Week», 27 novembre 2000.

[23] Lo facciamo rifacendoci all’«International Herald Tribune» del 13 dicembre 2000 e a «Le Figaro» del 14 dicembre 2000.

[24] Riprendiamo queste informazione da «Le Monde», 14 dicembre 2000.

[25] Political decadence, ripreso dall’«International Herald Tribune», 27 novembre 2000.