Il 20 marzo, a un anno dall’inizio della guerra in Iraq, risponderemo all’appello dei pacifisti statunitensi, rilanciato dai Forum sociali di Parigi e di Mumbai, che chiedono di tornare in piazza in tutto il mondo per fermare la guerra e l’occupazione. Torneremo in piazza, a Roma, dopo aver attraversato l’Italia, con carovane di pace dal Sud e dal Nord mentre altre carovane si recheranno in Medio Oriente chiedendo pace e giustizia. Un anno fa una coalizione di Stati guidata dagli Usa decise di utilizzare tutta la sua potenza per muovere guerra all’Iraq. Lo ha fatto contro il Consiglio di sicurezza dell’Onu, sfidando il diritto internazionale e contro la volontà della grande maggioranza dei popoli del pianeta. Lo ha fatto, sapendo di mentire, dichiarando che l’Iraq possedeva armi terribili e che era pronta a usarle e dichiarando legami tra l’Iraq e il terribile attentato alle Torri gemelle. Lo ha fatto dichiarando che avrebbe portato pace e democrazia per il popolo iracheno e in tutto il Medio Oriente. Lo ha fatto teorizzando, con la “guerra preventiva”, il diritto di imporre la propria volontà e la difesa dei propri interessi, in qualunque luogo della terra. Questa guerra è già costata decine di migliaia di vittime civili e militari irachene, più di 500 vittime – tra cui 19 soldati italiani caduti a Nassiria – tra le truppe di occupazione, ha comportato distruzioni immani e devastazioni ambientali, ha bruciato miliardi di dollari. Le armi non si sono trovate. Gli attentati contro civili inermi si sono susseguiti in molte parti del mondo. Pace e democrazia non sono arrivate, né in Iraq, né in Medio Oriente. A un anno di distanza, in Iraq la guerra continua a mietere vittime. La situazione umanitaria in Iraq continua a essere terribile mentre crescono pericoli di scontro interno e minacce di balcanizzazione. Alla dittatura di Saddam si è sostituita un’occupazione militare che trova crescenti resistenze, in diverse forme, da parte della popolazione. Invece di organizzare libere elezioni si nominano governi dall’alto, si privatizzano le ricchezze irachene e si abolisce il codice di famiglia facendo arretrare lo status delle donne. La ricostruzione non è nemmeno iniziata e già è una torta da spartire con i paesi “amici”. A un anno di distanza, in Medio Oriente la pace è più lontana che mai. In Palestina l’occupazione prosegue brutale e rischia di diventare irreversibile con la costruzione del muro. In Israele si susseguono attentati contro civili inermi, cresce l’insicurezza e la crisi economica. Il governo Sharon applica la dottrina della guerra permanente, negando qualsiasi prospettiva negoziale e imponendo il terreno dello scontro militare. Il muro è una vergogna che calpesta il diritto internazionale, segrega un popolo intero, espropria altra terra, nega la possibilità di convivenza pacifica fondata sul principio di “due popoli due Stati” che è alla base di molteplici iniziative delle società civili palestinese e israeliana. A un anno di distanza, il mondo è un luogo meno sicuro e più ingiusto. La dottrina della guerra “preventiva” ci minaccia tutti. Minaccia di guerra altri paesi e legittima le guerre e le occupazioni militari, dall’Iraq alla Palestina, all’Afghanistan e alla Cecenia. Spinge al riarmo e alla militarizzazione e minaccia la democrazia in tutto il pianeta, dai paesi ricchi a quelli poveri. Rafforza, nel Nord e nel Sud del mondo, le culture che predicano lo “scontro di civiltà”, le guerre di religione, i tanti integralismi impegnati a distruggere i valori e le pratiche di convivenza. Rafforza il razzismo, la discriminazione contro i migranti e tutte le diversità e spinge verso l’omologazione sociale e culturale. Intanto, la povertà e le ingiustizie aumentano nel Nord come nel Sud del mondo (come dicono anche i rapporti dell’Organizzazione internazionale del lavoro e di altre agenzie delle Nazioni unite che dimostrano l'aumento della disoccupazione e la diminuzione dei redditi da lavoro in tutto il mondo e anche in Italia), figlie di un sistema neoliberista che la guerra preventiva perpetua, che affama i più per arricchire pochi – affratellando nella miseria e nello sfruttamento la maggioranza degli esseri umani nel pianeta. Le guerre dimenticate continuano a mietere vittime, in Africa, come in Asia, come in Sudamerica senza che nessuno intervenga per trovare le soluzioni che vi pongano fine. Anche il governo italiano è corresponsabile di tanto disastro. Un governo che, al di fuori del dettato costituzionale, nonostante la grande contrarietà della popolazione italiana, ha deciso di appoggiare la guerra in Iraq e ha inviato truppe sotto il comando britannico nei luoghi in cui giacciono i campi petroliferi destinati all’Eni, assumendosi la responsabilità di esporli a rischi altissimi. Un governo che, perpetuando lo strappo all’art. 11 della Costituzione, ha deciso di partecipare all’“Autorità provvisoria” delle forze di occupazione condividendo così la responsabilità delle sue scelte politiche. Un governo che ha esautorato il Parlamento dei suoi poteri a cominciare dalla concessione dell’uso dello spazio aereo, delle basi e delle infrastrutture per la guerra. Un governo che ha lavorato per impedire una possibile unità europea che frenasse l’unilateralismo Usa e fermasse la guerra. Un governo che ci ha ingannato: ha detto che i soldati servivano a proteggere gli aiuti umanitari, ma gli aiuti non si sono visti mentre il Pentagono si appresta ad assegnare a ditte italiane importanti contratti per la ricostruzione. Abbiamo fatto il possibile per evitare tutto questo. Dicemmo allora, in milioni in tutto il mondo, che quella potenza e quella ricchezza poteva e doveva essere utilizzata per combattere la fame e la sete che uccide milioni di esseri umani, per alleviare i popoli di un debito che non possono pagare, per sostenere lo sviluppo dei paesi del Sud del mondo. Dicemmo allora che si doveva porre fine alle tante guerre dimenticate, invece che cominciarne un’altra. Dicemmo che la produzione di armi doveva essere riconvertita in produzioni di pace invece che essere rilanciata, che sono le spese militari a dover essere tagliate piuttosto che le spese sociali. Dicemmo allora e ribadiamo oggi che queste sono azioni necessarie, perché il peso dell’ingiustizia è intollerabile. Sono azioni non rinviabili, per non scivolare in un abisso di barbarie, di disperazione, di conflitti, di insicurezza generalizzata. Noi ripudiamo tutte le forme di terrorismo sia da parte degli Stati che di organizzazioni e individui, così come ci opponiamo all’uso della “lotta al terrorismo” per giustificare le guerre, criminalizzare i movimenti popolari e restringere le libertà civili. Non abbiamo cambiato parere, e con noi non ha cambiato parere la maggioranza del popolo italiano, nonostante una sistema dell’informazione sempre più succube dei rulli di tamburo. Noi sosteniamo il diritto dei nostri fratelli e sorelle irachene a resistere all’occupazione reclamando il diritto alla pace, ai diritti sociali, alla democrazia, a governarsi da soli per decidere del proprio futuro e a controllare le proprie risorse, a ottenere risarcimento per quello che hanno patito sotto l’embargo e la guerra, a vedere la propria terra libera da eserciti stranieri. L’Iraq deve tornare agli iracheni, la legalità internazionale deve essere ripristinata e perché questo avvenga è necessario innanzitutto che cessi l’occupazione militare. Tutte le truppe occupanti devono essere ritirate. Chiediamo quindi che l’Italia rinunci a partecipare all’occupazione militare dell’Iraq e ritiri le proprie truppe. È un atto necessario per ricucire lo strappo costituzionale operato un anno fa e per aprire la strada a una nuova strategia. Chiediamo che gli ingenti fondi così risparmiati vengano destinati per veri aiuti umanitari immediati e che il governo italiano promuova una iniziativa politica internazionale, che coinvolga le Nazioni unite, la Lega araba e l'Organizzazione della conferenza islamica, per la restituzione della sovranità agli iracheni e la ricostruzione del paese guidata da un governo legittimo. Chiediamo che l’Unione europea, che vogliamo includa il ripudio della guerra nel proprio trattato costituzionale, svolga un analogo ruolo di pace. Chiediamo che le Nazioni unite rispondendo finalmente alla loro carta costitutiva promuovano il ritorno della legalità in Iraq e l'affermazione del diritto all’autogoverno del popolo iracheno garantendo il rispetto dei diritti umani di tutti e di tutte. Un intervento di garanzia dell’Onu deve in ogni caso essere concordato con le forze politiche irachene e non vedere la partecipazione delle forze occupanti. Con la stessa urgenza chiediamo che una decisa iniziativa internazionale crei le condizioni per una pace giusta in Medio Oriente, imponendo la rimozione del muro, la protezione dei civili e un negoziato fondato sulle risoluzioni dell’Onu per la fine dell’occupazione e la convivenza pacifica, ascoltando anche la voce coraggiosa dei giovani israeliani che rifiutano, pagando di persona, di partecipare alla guerra e all’occupazione. In questo lungo anno di guerra abbiamo continuato a sostenere con mezzi pacifici le ragioni della pace – progetto alternativo di civiltà – nelle scuole, nelle città, nei luoghi di lavoro, davanti alle basi militari, dai nostri balconi con le bandiere della pace, nella solidarietà internazionale, nella lotta per il disarmo, nel dibattito sul trattato costituzionale europeo, nella solidarietà con le popolazioni migranti, con la disobbedienza civile, nell’impegno quotidiano per i diritti umani, sociali e di cittadinanza. Facciamo appello perché le energie di milioni di cittadini e cittadine tornino a confluire in una nuova iniziativa di mobilitazione che culmini il 20 marzo nella giornata internazionale di lotta per la fine dell’occupazione dell’Iraq e per la pace in Medio Oriente e che prosegua nella costruzione della pace. L’impegno dei pacifisti statunitensi per riportare le truppe a casa, che reclamano “giustizia e non vendetta”, che denunciano la restrizione dei diritti civili nella loro patria, che si battono per un’altra America è anche il nostro.
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