(tratto dalla prefazione)

 

Quando presenta questa tesi, Claudio Sabattini è appena stato eletto segretario generale della Fiom bolognese. Da tre anni lavorava alla Cgil, per otto anni era stato consigliere comunale per il Pci a Bologna. Ha alle spalle molti anni come dirigente della Fgci, l’esperienza della sezione comunista universitaria, del ’68 studentesco e del ’69 operaio. È in questo contesto che va letto uno scritto il cui titolo può apparire dottrinario: Rosa Luxemburg e i problemi della rivoluzione in Occidente. In realtà è un lavoro che si misura con l’attualità di quel periodo e che parla ancora all’oggi.

(…) Lo scopo della tesi appare essere quasi fondativo: trarre le conclusioni di un percorso di riflessione già lungo e predisporre le basi per scelte successive. Una tappa fondamentale di un percorso di formazione.

(…) Da questo punto di vista sono esplicative le ultime pagine della tesi, le conclusioni che Claudio trae dal confronto tra le diverse posizioni che ha precedentemente illustrato attingendo ai «sacri testi» della storia del movimento operaio. E vi si possono ritrovare in nuce tutte le posizioni e le pratiche che Sabattini ha messo in campo durante la sua vita e, persino, le motivazioni del suo scegliere il sindacato come luogo della propria militanza politica – in particolare quello dei metalmeccanici come cuore del movimento di classe in Italia.

(…) A rileggere oggi questa tesi dell’anno accademico ’69-70, si può arrivare a dire – anche se ad alcuni può apparire una bestemmia – che Claudio Sabattini, opera già allora una rottura netta con le tesi maggioritarie del movimento comunista, persino con quell’anomalia feconda che è stato il Partito comunista italiano. Una rottura che non è visibile solo nell’aver dichiarato – in un documento della sezione universitaria del Pci, fatto straordinario per l’epoca – «non riformabile» il socialismo reale dell’Urss e dei suoi satelliti dopo l’invasione di Praga del ’68, né solo nel suo sentirsi parte della sinistra ingraiana. Una rottura più profonda, costitutiva, perché rovescia il rapporto tra partito e masse fino ad allora prevalente. Ed è una rottura «da sinistra», non operata sul terreno dell’ideologia o della propaganda – di qui la sua polemica con i gruppi extraparlamentari – ma fatta sul terreno della pratica: la ricerca cioè di quale sia il massimo livello di democrazia possibile in ogni contesto storico, di come dare più spazio possibile ai soggetti della trasformazione per ottenere una conquista e consolidarla.