Le tessitore
Vita, lavoro e lotte delle donne dello Jutificio di Terni
Mirella Pioli
INDICE
Prefazione di Alessandra Mecozzi
1. Da fabbrica «chiassaiuola» a fabbrica «muta e passiva»
2. Dalla ricostruzione alla chiusura
2. Le lotte, le illusioni, il ritorno a casa
di Alessandra Mecozzi
Ero a Torino, il 4 giugno del 1991, quando mi arrivò la notizia improvvisa e terribile della morte di Alfonsina Casamobile, un'operaia e delegata della Italtel dell'Aquila, segretaria regionale e dirigente del Comitato centrale della Fiom, con cui avevo condiviso, insieme a molte altre donne, non solo della nostra organizzazione, almeno sette, otto anni di lavoro e di battaglie comuni.
Era la fase delle assemblee congressuali e fu proprio al XX Congresso, che si svolse dopo poche settimane, che la Fiom decise di istituire una borsa di studio a nome di Alfonsina, con il titolo Vita, Lavori, Lotte delle donne.
Fu un modo, anche se sproporzionato rispetto ad un evento assoluto come la morte, per cercare di rispondere al senso di vuoto e di incompiuto nella storia delle relazioni, che la fine di una vita lascia.
Volevamo non solo ricordare Alfonsina, ma farla conoscere e nello stesso tempo, sollecitare altre donne a quello studio, ricerca e scrittura che servono a lasciare tracce più forti dei soli ricordi, per quanto persistenti essi siano.
Questo libro nasce dunque da questa intenzione e, per i profili di donne che rappresenta, per la storia che racconta, è vicino alla storia e alla personalità di Alfonsina, di una operaia metalmeccanica, in una fabbrica popolata di donne, coinvolta nel corso del tempo da molte lotte, prima per far entrare le donne al lavoro, poi perché potessero rimanerci e lavorare meglio.
Una donna protagonista, in primo luogo, della propria vita, fedele a se stessa, di poche parole e di molta energia attiva, piena di amore per il suo compagno e i suoi figli.
Una donna appassionata e ironica che aveva la capacità di esprimere se stessa in modo creativo e forte, nel lavoro e nel sindacato, nella poesia e nella pittura. In questo, animata sempre dalla consapevolezza delle necessità di un rapporto stretto tra lavoro quotidiano e un orizzonte più ampio che ad esso e all'esperienza individuale e collettiva trasmette luce e alimento.
L'orizzonte di una cultura che si produce anche dalle aspirazioni e dai desideri di donne e uomini, attraverso il lavoro, la vita, le lotte di ogni giorno, e la riflessione su di esse. Leggendo e ascoltando le voci di queste «tessitore» di una fabbrica antica, ho ritrovato un filo ideale che le lega alla figura di Alfonsina, nella voglia di lavorare, nel coraggio di lottare, nella solidarietà o nei conflitti con le compagne di lavoro.
Ho ritrovato un filo comune in quella definizione di «operaie ribelli e chiassose» che un'opinione pubblica benpensante aveva attribuito alle «tessitore», ma che anche molte metalmeccaniche hanno sperimentato, in tempi ben più recenti.
Ecco due voci: quella di Maria, operaia: «Le manifestazioni le abbiamo organizzate sempre con i sindacati, ci siamo sempre mosse con loro. Certo, quando venivano su e facevano discorsi, c'erano momenti di attrito (...) Noi avevamo la necessità che la cosa si fosse risolta al più presto. Quando si prendevano tempo e dicevano tra un mese, tra quindici giorni c'abbiamo questo incontro, viene il tot ministro, noi non è che l'accettavamo di buon grado, perché naturalmente era in gioco il nostro posto di lavoro...»; quella di Mario, sindacalista: «Durante la lotta ci furono episodi che si possono inquadrare in una vivacità un po' particolare delle donne. Sono atteggiamenti assunti da alcuni gruppi di donne al di fuori delle direttive sindacali... Poi in una manifestazione a Roma si bloccò via Veneto e devo dire che con le donne facevamo fatica ad evitare storie...».
Siamo agli inizi degli anni Settanta, momento in cui finisce la vicenda delle tessitore, con la chiusura della fabbrica, ma comincia un periodo d'oro di lotte sindacali e di lotte femminili nei posti di lavoro, dentro e fuori il sindacato, che segneranno con alterne vicende i due decenni successivi.
In questo percorso, Alfonsina, e tantissime come lei, prendono idealmente il testimone dalle «tessitore».
Oggi, ad oltre 20 anni di distanza, molte cose sono cambiate; le esperienze di autonomia individuale e collettiva di donne nel sindacato, cercano nuove strade, messe a dura prova da una ristrutturazione economica e da una trasformazione politica, ma anche da un accresciuto protagonismo individuale che, per affermarsi, fatica a riconoscere come proprie radici «la chiassosità e la ribellione», in un sindacato tutt'altro che ribelle e chiassoso, e in una società che sembra dominata in gran parte, dalla sola voce televisiva. Ma se è vero che la memoria del passato serve anche per costruire pezzi di presente e futuro, la ricerca di Mirella Pioli ha un valore anche per questo e fornisce a uomini e donne spunti di riflessione importanti.
Come dice la motivazione del premio, essa infatti «contribuisce
a gettare luce, non solo sulla storia del lavoro femminile, ma anche e
soprattutto su quella, in Italia molto più ignorata, del difficile rapporto tra
lavoratrici e movimento operaio. Risulta infatti da questa ricerca una
ricorrente separazione tra quest'ultimo e l'alta conflittualità espressa dalle
operaie dello jutificio (bollata con il termine riduttivo di una loro
tradizionale «chiassosità»): dalle cronache distanti e sprezzanti delle loro
lotte su «l'Avanti!» alla fine del secolo alle incomprensioni tra base operaia
femminile e Commissione Interna esclusivamente maschile negli anni 60 e fino ai
licenziamenti di tutte le operaie al momento della chiusura della fabbrica.
Anche la solidarietà che le operaie dello Jutificio danno alle lotte di altre
fabbriche della città si dimostra, nel corso del tempo, superiore a quella che
esse ricevono. Su questi temi la ricerca di Mirella Pioli porta un contributo
originale di storia locale a un filone storiografico che conosce oggi un grande
sviluppo sul piano internazionale».
La commissione che ha esaminato gli undici lavori pervenuti e che ha premiato il lavoro di Mirella Pioli era composta da Anna Rossi Doria (Storica), Adele Pesce (Sociologa), Carol Beebe Tarantelli (Psicologa), Franca Fossati (Giornalista), e Alessandra Mecozzi (sindacalista della Fiom-Cgil).
Questa storia è una testimonianza (quante altre se ne potrebbero raccogliere?) della forzata esclusione femminile dal mondo del lavoro, della rimozione del problema dell'occupazione delle donne dal tavolo tutto maschile delle decisioni in questa provincia (siamo a Terni) per tradizione emancipazionista.
Le vicende legate alla chiusura della fabbrica tessile Jutificio di Terni, vecchie ormai di venti anni ma ancora molto vive e brucianti e non solo nel racconto delle protagoniste, costituiscono una prova di esclusione e di sopraffazione, impossibile da occultare. Anzi, fanno emergere domande sul senso e sull'esito delle lotte delle donne, sulla profonda frattura tra le ragioni e le passioni di esse e le soluzioni che hanno ignorato quelle ragioni e quelle lotte.
I fatti che ho cercato di raccontare si sottraggono a discussioni rituali e pretestuose sul protagonismo femminile. La loro forza ed evidenza le sovrasta. Una forza che emerge soprattutto dalle testimonianze dirette delle donne, a cui hanno fatto da lucida guida per la lettura e la comprensione i documenti conservati presso l'Archivio della Camera del lavoro di Terni.
Suggerimenti utili sono venuti dall'Archivio della Società Jutificio di Terni conservato presso l'Archivio di Stato di Terni.
Questo lavoro non sarebbe stato comunque possibile senza il prezioso aiuto fornito da Maura Raminelli.
Mirella Pioli
Mirella Pioli è nata a Narni il 27 agosto 1958, città dove vive e lavora. Militante del Partito comunista italiano ha ricoperto la carica di assessore alla Cultura e all'Ecologia del Comune di Narni dal 1981 al 1988.
«Operaie ribelli e chiassose» sono state definite le donne dello Jutificio di Terni1, fabbrica per la produzione di sacchi di imballaggio e tessuti di juta sorta nel 1886, con una occupazione iniziale di 315 unità (di cui 280 donne adulte e 16 con età inferiore ai 14 anni). Nel 1927 arriva a 1.522 addetti, precipita a 551 nel 1932 e a 374 nel 1933, per poi risalire a 822 nel 1935 e stabilizzarsi sulle 400 unità. Fino agli anni Cinquanta conta circa 600 addetti, nei primi anni Sessanta l'occupazione diminuisce a 350 unità e su questa cifra si attesta fino al momento della sua chiusura nel 1972.
Studiose e ricercatrici si sono soffermate sulla «chiassosità» come tratto tipico delle operaie dello Jutificio Centurini, poi Jutificio di Terni, in riferimento alla storia della fabbrica dalla sua nascita fino all'avvento del fascismo.
Alla fabbrica chiassaiuola segue la fabbrica «muta e passiva», come lo Jutificio fu dagli anni Trenta alla prima metà degli anni Sessanta.
Poi è di nuovo conflittualità, ma la crisi difficilissima che la fabbrica attraversa, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, si concluderà, dopo un anno di occupazione, con il licenziamento per tutte.
La prima parte di questo lavoro racconta brevemente il succedersi degli avvenimenti. La storia della fabbrica chiassaiuola è stata ripercorsa seguendo la traccia del rapporto-contrasto donne-movimento operaio-organizzazioni sindacali, utilizzando come fonti gli organi di stampa locali di fine Ottocento inizio Novecento, e saggi, ricerche e contributi già pubblicati. Per le vicende che dalla Seconda guerra mondiale conducono alla chiusura dello Jutificio, si è fatto riferimento ai documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Terni, e soprattutto a quelli conservati presso l'Archivio storico della Cgil di Terni, con l'integrazione di numerose testimonianze dirette.
La seconda parte, che costituisce più propriamente l'oggetto dello studio, di argomento inedito, riporta le interviste ed i colloqui avuti con alcune donne dello Jutificio sulla dura lotta sostenuta negli anni 1969/1971, sulla natura e sulla qualità del loro lavoro, sul sofferto intreccio tra il lavoro e la loro vita privata e familiare. Ex operaie hanno raccontato del loro accanimento a mantenere un posto di lavoro così pesante e mal pagato, eppure così prezioso; delle illusioni consumate giorno dopo giorno durante la fase dell'occupazione; della solidarietà vera e delle resistenze; del darsi forza reciprocamente ma al tempo stesso di non assumere su di sé la responsabilità della rappresentanza, affidandosi completamente al sindacato maschile. Le testimonianze di alcuni protagonisti (tutti uomini) di quelle battaglie, motivano con ragioni politiche più generali, la fedeltà indiscussa alla vocazione siderurgica e chimica del territorio. Le stesse ragioni che hanno determinato, alla fine, la chiusura dello Jutificio, compromettendo la vita e il futuro di tante donne.
Con la chiusura di quella fabbrica, il 15 luglio 1972, non rimane a Terni nessun nucleo di classe operaia femminile. È una vicenda per certi aspetti rimossa dalla coscienza del movimento operaio ternano, ma che rimane molto viva nella coscienza popolare.
Lucilla Galeazzi «... Io guardo le lotte che mi ricordo più accanite, con sassaiuole, casini, furono quando chiuse Centurini. Erano le prime lotte che facevo da grande, me le ricordo 'ste manifestazioni co' st'operaie che erano proprio avvelenate. Credo che tanta confusione, tanti slogan, tanti canti, tanto casino, tanta arrabbiatura, tanta decisione, non me li ricordo più» 2.
1 M.L. Porcaro, Operaie ribelli e chiassose: le centurinarie, in Storia d'Italia - Le Regioni. Dall'unità ad oggi. L'Umbria, Einaudi, 1989.
2 Testimonianza raccolta in A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, 1985.
1. Da fabbrica «chiassaiuola» a fabbrica «muta e passiva»
«È una fabbrica che si configura come un carcere, in cui domina clorosi, anemia, tubercolosi, da cui le donne, non potendosi fermare allo stabilimento per effettuare le pulizie personali, escono fuori irriconoscibili, tanto sono sporche e dimesse con quelle teste infarinate.»1
«Una disgrazia (...) incolse (...) ad una giovanetta lavorante nello Jutificio Centurini, mentre lavorava attorno ad una macchina. Essendosi abbassata con la persona per raccogliere qualche cosa, fu dagli ordigni di detta macchina presa per i capelli ed ebbe svelta la cute dai sopraccigli fin dietro la nuca insino al collo...»2
«In questo stabilimento sono impiegate, nella maggior parte, le donne, per riguardo alle quali si è stabilito un orario minimo di dodici ore al giorno di lavoro, e le mercedi, con cui esse vengono retribuite non lasciano nulla a desiderare, perché sufficienti ai bisogni necessari della vita individuale e della famiglia. (...) Queste paghe vanno talvolta soggette, sempre a fin di bene, anche a qualche piccola riduzione, sottoforma di multa (...) non solo per ritardi, ma più specialmente per anticipazione di lavoro, non essendo permesso (...) di presentarsi allo stabilimento una mezz'ora prima del tempo fissato, perché ciò andrebbe a detrimento di quel riposo che il proprietario, nelle sue paterne viscere, desidera che abbiano i suoi dipendenti (...) Non resta che levare incensi al proprietario dello jutificio...3
Così, con forza di ironia, la stampa locale denuncia le pessime condizioni degli ambienti di lavoro, le condizioni di estrema insicurezza, i brutali metodi di sfruttamento in cui, sin dall'inizio, sono costrette a lavorare le donne dello Jutificio Centurini. Sono contadine provenienti dai comuni vicino a Terni, senza qualificazione professionale e prive di esperienza di fabbrica. In quegli anni di crisi agraria4 le donne, soprattutto giovani e nubili, e i figli, sono chiamati a sostenere l'economia familiare attraverso il lavoro fuori casa. Sul mercato si riversa abbondante offerta di manodopera che «è pagata meno, non fa il lunedì, è più docile e sciopera raramente.»5
Fino alla fine della Prima guerra mondiale la storia dello Jutificio Centurini è storia ininterrotta di lotte6. Sono esplosioni improvvise, accentuate dal rapporto intensamente personale coi padroni e coi capi, raramente incanalate nelle organizzazioni sindacali e politiche. Le operaie lottano per ottenere miglioramenti a breve termine: vogliono aumenti di salario, la riduzione dell'orario di lavoro, gabinetti, refettori, ambulatori. Esigono risposte immediate ad un problema, ad un bisogno. Le centurinarie sono per la maggior parte giovani. Si preoccupano più del presente che del futuro, anche perché sperano che il loro futuro non sia più la fabbrica (ed infatti non sono d'accordo sulla ritenuta in vista della pensione, e preferiscono il salario immediato a quello differito). L'esperienza della fabbrica la considerano temporanea e non esaustiva né della loro vita né della loro giornata. Si sentono perciò estranee alle ragioni di lungo termine del movimento operaio.
Il movimento operaio, da parte sua prende spesso le distanze dalle loro lotte, considerate quasi sempre irrituali e incontrollate. Sono «capricci chiassaiuoli di un po' di ragazze» che annoiano la gente con troppi scioperi invece di «tenere un contegno serio»7.
Illuminanti al riguardo sono due articoli comparsi su l'«Avanti!», giornale socialista. «Quando il malessere e lo scontento, davanti alle condizioni tristissime di lavoro faticoso, sfibrante e mal remunerato, si acutizzano per una causa qualunque, prendono la forma dello sciopero più dannoso che inutile...»8 «Non hanno scelto un momento buono per fare lo sciopero9 ma giacché l'avete fatto siate più calme e serie che potete. Invece di recarvi a frotte davanti lo stabilimento state a casa e aspettate la soluzione. Solidarietà, calma e serietà soprattutto...»10
Le lotte delle centurinarie falliscono quasi sempre. «Gli scioperi si fanno per resistere e si resiste (...) quando c'è organizzazione forte e seria. (...) Cose che voi non avete (...) e senza delle quali (...) gli scioperi riescono a dànno delle operaie.»11 Perdono perché «sono donne, debole il corpo, debole e non coltivato l'intelletto». «...Possono chiamarsi lotte e vittorie operaie, queste agitazioni (...) disorganizzate, slegate, senza capo né coda, senza sicuro indirizzo, senza preventiva preparazione?»12
Solo quando ottengono importanti riconoscimenti passando attraverso le organizzazioni sindacali (è il caso dello sciopero di 28 giorni del 1901) il giudizio è diverso: «Le operaie cominciano ad imparare il meccanismo delle lotte; se vinceremo questa prima battaglia, avranno preparato il terreno a quella coscienza di classe, cui parevano sorde le povere menti dello Jutificio»13.
Forte e generosa è la solidarietà delle operaie dello Jutificio con i lavoratori delle altre fabbriche ternane. Nel 1907 in occasione di un grande sciopero e della serrata delle Acciaierie «un gruppo di donne (...) per impedire che gli operai si recassero con il tram al lavoro alle Acciaierie ed a Papigno, si sdraiarono sui binari impedendo al convoglio di transitare»; fanno «uscire a forza dalla fabbrica chi non voleva scioperare» e buttano all'aria i banchi dei contadini al mercato. A l'«Avanti!», che le invita alla calma, le donne rispondono «È ora di finirla, di calma ne abbiamo avuta fin troppa. Lasciamo a casa i nostri uomini. Andiamo noi»14. La Camera del lavoro «prega le operaie e gli operai degli stabilimenti Centurini, Kossler, Bosco e Fabbrica d'Armi, a rientrare (...) alle officine»15.
«Il movimento femminista abortisce – ironizza il “Messaggero” – il governo delle donne è cessato: sia lodato Iddio!». «Dopo la tempesta il sole», annuncia l'«Avanti!».
Sono ancora le donne di Centurini ad essere protagoniste della settimana rossa del giugno 191416 «... Specie quelle del Centurini. Sa' come facevano? Allora si usavano portare gli zinali; s'erano messa la cenere sugli zinali; c'era la cavalleria e riuscirono a sfondare (tirandola sugli occhi dei cavalli, nda)... I rinforzi ad Ancona non potevano andare. Questo è merito delle donne, più che degli omini. Bisogna vedere che combattività!»17.
Il contrasto tra le organizzazioni sindacali e le operaie di Centurini si attenua nel momento in cui sindacalisti rivoluzionari assumono il controllo della Camera del lavoro di Terni. L'iniziativa della Camera del lavoro non si fonda più sulla ricerca della mediazione e di conseguenza il livello della conflittualità si alza, assumendo le forme tipiche delle centurinarie. Nel 1914 la Camera del lavoro aderisce all'Unione sindacale italiana, contrapposta alla Confederazione ispirata al socialismo riformistico. Nel 1916 proprio una operaia dello Jutificio, Carlotta Orientale, ne diventa segretaria.
Carlotta Orientale, figlia di padre armaiolo e di madre casalinga, «ragazza alta, slanciata, con gli occhi chiari e i capelli folti, che veste assai modestamente, a 16 anni entra come operaia nello Jutificio, poi ottiene la qualifica di tessitrice». Collaboratrice e poi redattrice del giornale «La Sommossa», organo della Camera del lavoro, svolge un'attivissima propaganda tra le donne. Come segretaria organizza e sostiene le lotte di tutte le fabbriche ternane, scatenando le ire del presidente della Terni Acciaierie, commendatore Giuseppe Orlando «Chi è questa signorina Orientale? Chi la conosce? Noi conosciamo solo i nostri operai, e voi non vi lasciate trasportare dai dirigenti della Camera del lavoro, essi vi rovinano. Noi, noi soli, che siamo i vostri padroni vi vogliamo bene, e quindi a noi dovete dare retta! ...».
«Rispondiamo. La signorina Orientale è la segretaria camerale e rappresenta la persona di fiducia del proletariato ternano, né ha bisogno delle conoscenze di sì altolocati personaggi per essere tale. Essa è un'autentica operaia che da mane a sera suda e fatica e che si sente tanto in alto moralmente, da non temere la discussione ed il fronte avversario. La conoscenza ci sembra fatta...»18
Carlotta Orientale si impegna tenacemente per stabilire e
consolidare un rapporto di solidarietà tra donne ed organizzazione sindacale.
Durante gli anni della guerra fa assumere alle donne per la prima e forse unica
volta un livello di direzione su buona parte del movimento operaio ternano. La
forza che le centurinarie ne traggono le porta a inasprire la conflittualità e
le lotte in fabbrica, e a ottenere significative conquiste.
L'avvento del fascismo ed il nuovo clima politico che si instaura anche a Terni, la situazione di incertezza produttiva e finanziaria della fabbrica19, le nuove forme assunte dalla proprietà20, l'ideologia corrente che esalta il ruolo della donna all'interno della famiglia, a considerare il matrimonio atto finale dell'esperienza di fabbrica ed il lavoro una soluzione temporanea per integrare il reddito familiare, sono tutti elementi che determinano una svolta nella storia delle centurinarie. Rapidamente lo Jutificio da fabbrica «chiassaiuola» diventa fabbrica «muta e passiva». Al contrario, nelle altre fabbriche ternane, nonostante il fascismo, si diffondono una capillare opposizione e sotterranee forme di lotta.
Emerge una nuova debolezza del nucleo femminile della classe operaia ternana, e si consumano le già precarie forme di solidarietà interne alla fabbrica, che si erano costruite nel primo ventennio del secolo.
Angela Locci «... (Allo Jutificio, nda) come si viveva, come prima. Ma insomma, c'era sempre paura perché non c'era più quell'affidamento fra l'una e l'altra, perché chi ci aveva il marito (fascista), chi c'aveva il fidanzato, chi c'aveva il fratello... Allora era divenuto uno spezzamento, una serietà l'una coll'altra. Era diventata una cosa fredda che ci avevi paura. De l'amiche stesse...»21.
Il bombardamento del 1943 distrugge macchinari e capannoni dello Jutificio. Lo stabilimento viene rimesso in vita, dopo la liberazione, dalle lavoratrici e dai lavoratori trasformati, per l'occasione, in manovali comuni con pale e carriole.
Agata Reginelli «... Quel giorno che ci sono stati i bombardamenti siamo andate a casa, era tutto distrutto. Per riattivarlo c'è voluto! Era il 14 agosto, era il primo bombardamento su Terni. Cataste di juta sono andate a fuoco. Dopo è stato riattivato un pezzo per volta. M'hanno chiamato e portavo su dentro i pezzi delle macchine che stavano giù fuori tutti arruginiti, ai meccanici che le rimettevano a posto.
Due anni ci sono voluti. A ottobre del 1945 abbiamo ripreso a lavorare».
1 «La Turbina», giornale locale che si batte per la causa operaia, 14 dicembre 1901.
2 «L'Unione liberale», 14 febbraio 1986, dà l'annuncio dell'apertura dello Jutificio Centurini.
3 «Il Veritiero», giornale socialista, 13 ottobre 1892.
4 L'invasione del grano americano anche in Italia ne aveva provocato una forte riduzione, al punto da rendere la sua coltura non remunerativa nelle terre più povere.
5 «La Turbina», 27 luglio 1899.
6 Nel periodo 1884-1913 tra le fabbriche ternane la maggiore frequenza degli scioperi si registra allo Jutificio: 19 scioperi contro gli 11 del Lanificio (occupa manodopera prevalentemente femminile) e 14 della Società Anonima degli Altiforni (Saffat) che occupa tutti maschi. Le giornate di sciopero complessive della Terni e della Carburo messe insieme sono poco più della metà di quelle dello Jutificio Centurini.
7 «La Turbina», 21 settembre 1901.
8 L'«Avanti!», 20 febbraio 1899.
9 Gli anni 1896-1900 sono tra i più tumultuosi e spettacolari di tutta la storia dell'Italia unitaria. Moti di piazza repressi nel sangue, parlamentari che rompono le urne, attentati anarchici, un regicidio.
10 L'«Avanti!», 24 maggio 1898.
11 L'«Avanti!», 24 maggio 1898.
12 L'«Avanti!», 22 luglio 1900.
13 L'«Avanti!», 1° luglio 1901.
14 L'«Avanti!», 23 maggio 1907.
15 In quegli anni, a gestione repubblicana e socialista, è molto cauta, più attenta a mediare i conflitti che a provocarli. L'attenzione dei sindacalisti è concentrata più sugli aspetti normativi che su quelli salariali.
16 Sotto questo nome si designa un moto di piazza che, con improvvisazione e spontaneità, sconvolse per una settimana l'Italia, e soprattutto le zone in cui aveva profonde radici l'opposizione repubblicana, socialista ed anarchica.
17 Testimonianza di Arnaldo Lippi, militante socialista ternano, raccolta da Alessandro Portelli e inserita in Biografia di una città, op. cit.
18 «La Sommossa», 24 marzo 1917.
19 Dopo la fase di grande prosperità durante la Prima guerra mondiale (era stato dichiarato stabilimento ausiliario per la produzione di sacchi per le trincee e altri servizi logistici per l'esercito) comincia ad accusare colpi per la carenza di domanda. Si trova inoltre coinvolta nella crisi bancaria a causa del crollo della Banca italiana di Sconto, di cui era creditrice per ingenti somme di denaro.
20 Lo Jutificio Centurini passa sotto il controllo della Banque d'Escompte Suisse, cambiando la denominazione in Jutificio di Terni.
21 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
2. Dalla ricostruzione alla chiusura
Durante la Seconda guerra mondiale c'era stato in Italia un considerevole aumento dell'occupazione femminile, ma dal 1948 le donne vengono rispedite a casa. Nell'industria tessile si comincia a parlare di crisi, attribuendo le difficoltà di mercato all'aumento dei costi di produzione causato, dicono gli industriali, dagli alti salari. In realtà il salario medio giornaliero di una tessitrice è di 947 lire (1.343 per gli uomini), dalle 18 mila alle 23 mila lire mensili; è cioè un salario da fame se la tessitrice ne deve vivere totalmente, e magari con qualche familiare a carico. Inoltre mentre si vuole licenziare le operaie, si chiede loro di lavorare 60 o 70 ore la settimana, pagando il lavoro straordinario meno del lavoro normale, e si esige un aumento notevole di produzione accrescendo il numero dei telai e delle macchine affidato ad ogni operaia. Nei primi anni Cinquanta le lavoratrici tessili devono lottare duramente contro i licenziamenti e il supersfruttamento.
Per le lavoratrici dello Jutificio il 1953 è un anno particolarmente buio. Il primo luglio viene sospesa la produzione. L'azienda afferma la necessità della chiusura per il rinnovamento del macchinario.
«La direzione dell'azienda ha giustificato la sospensione del lavoro con l'ammodernare degli impianti e immettere nuove macchine. La nostra organizzazione non è contraria anzi sollecita; però l'ammodernamento e questo miglioramento non deve andare a discapito dei lavoratori ma a diminuire il loro sforzo fisico e ad aumentare la produzione...»1.
Sei mesi dopo le macchine sono a posto eppure non si parla ancora di riassunzione. Soltanto una sessantina di lavoratrici sono state richiamate.
Il direttore ingegnere Chiappero ad una delegazione di operaie che si recano da lui per essere riassunte al lavoro dice apertamente che per rientrare in fabbrica non dovevano aver commesso nulla contro la sua volontà: «... se vi siete comportate bene e non avete fatto sprechi sul lavoro in fabbrica; se non avete fatto propaganda su questioni politiche; se non vi siete mosse per chiedere lavoro, avete protestato e così via». Avverte poi che se la direzione della fabbrica darà l'ordine di riprendere il personale, sarà lui a decidere sulla scelta delle operaie; è inutile rivolgersi a destra e a sinistra e lottare per ritornare al lavoro, tanto lui fa quello che vuole.
Una mattina l'ingegnere Chiappero si reca alla Previdenza
sociale, dove incontra alcune donne che firmavano la disoccupazione «stare a
casa senza lavoro vi fa bene perché vi trovo tutte ingrassate».
Su Chiappero sono state espresse opinioni diverse.
Luciana Tarquini «... Ai tempi di Chiappero, durante la guerra e poco prima della guerra, le maestranze si portavano i figli a lavorare, e li appoggiavano in una stanza, e continuavano a lavorare. Di tanto in tanto si scambiavano i ruoli tra di loro per controllare. Una ci stava mezz'ora, poi subentrava la prossima, dalle vecchie sapevo che era così. C'era anche altro. La mattina, quando era freddo, magari il caffé caldo, il latte caldo faceva trovare. Quando c'ero io questo non succedeva più (...) E però prima c'era in alto una piccola passerella, l'hanno tolta verso la fine del 1965. Serviva a Chiappero, passava direttamente lui per controllare».
Agata Reginelli «... Quello era un fascistone...».
Maria Petrocchi «... Chiappero sfruttava gli operai si (...) molti lo ricordano però come una persona umana. Magari sì, gli piacevano le donne, avrà fatto e disfatto, però era più umano, e se avevamo bisogno, lui (...) Maria Cittadini, una che lavorava lì, era più vecchia di me, mi diceva che Chiappero se qualcuna stava male e non poteva andare a lavorare, gli dava lo stipendio lo stesso, perché capiva la situazione della famiglia. Gli operai vecchi dicevano che se ci fosse stato ancora lui non sarebbe finita in quella maniera. Dicevano che Chiappero i soldi li ha spesi, ma li ha spesi per la fabbrica. Altre persone mi hanno raccontato che se le operaie erano belle donne e non passavano per il suo letto, lui gli dava vita difficile. Mi ricordo sempre Maria Cittadini, quando l'ho conosciuta io era ancora una bella donna, che mi diceva figlia mia, quando ci sono stata io, tu pensa sono entrata là dentro a 15 anni, quello che non ho sofferto! E per tutte era così. Ti dava la vita difficile».
2.3 La seconda ondata di crisi
Nei primi mesi del 1954 vengono licenziate 280 persone, cui se ne aggiungono altre 70 circa costrette a dimettersi per avere la disponibilità immediata della liquidazione e con questa far fronte alle necessità economiche della famiglia. Si tratta di una riduzione di manodopera di circa il 70% (da 600 a 130-150 unità). Dei 280 licenziati ne verrano riassunti soltanto 20. Nel 60% dei casi i licenziati sono donne capofamiglia. Nel 12% dei casi componenti dello stesso nucleo familiare sono licenziati dallo Jutificio e dalle Acciaierie. La Terni Acciaierie aveva licenziato complessivamente 2.700 operai: 500 nel 1948, 700 nel 1952, 2.000 nel 1953.
«Duemila lettere. Le donne aspettavano, sedute, non avendo il coraggio di domandare, sobbalzando al rumore di ogni passo e scrutando ferme in crocchio agli angoli delle strade, se il postino arrivasse, con il suo messaggio. E in duemila case il messaggio è arrivato, a Papigno, a Borgo Bovio, al Villaggio Matteotti, alla Cianferini. A Borgo Bovio il postino, un giovane, piangeva e diceva alle donne: «Non è colpa mia, non è colpa mia!»2.
Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta arriva anche a Terni l'eco del dibattito sulla parità di salario tra uomo e donna3. La X sessione della Commissione sulla condizione della donna all'Onu (Ginevra, marzo 1956) aveva indicato l'espressione «lavoro di valore uguale»4, le organizzazioni sindacali avevano aggiunto che l'uguaglianza di retribuzione deve essere ammessa quando la qualificazione è la stessa per gli uomini e per le donne, anche se il lavoro effettuato non è di carattere assolutamente uguale5.
Il 5 febbraio 1960 viene approvato in Italia il Testo unico degli accordi per la parità retributiva tra uomo e donna. Solo 5 mesi più tardi (16 luglio 1960) viene introdotta una nuova distinzione discriminatoria tra mansioni femminili, cioè quelle tipicamente svolte da donne, mansioni promiscue, cioè quelle effettuate indifferentemente da uomini e donne, e mansioni maschili, cioè quelle espletate in genere dagli uomini e solo eccezionalmente dalle donne. Distinzione che naturalmente si riflette sul trattamento retributivo6.
Il sindacato tessile pone in discussione tra le lavoratrici dello Jutificio la rivendicazione della parità di trattamento economico in tutti i casi in cui si verifica che la donna compia lo stesso lavoro specifico dell'uomo, o esplichi la sua attività in un posto di lavoro tradizionalmente maschile; la parità del punto di scala mobile, l'inquadramento unico di tutti i lavoratori, uomini e donne, sulla base delle mansioni svolte, indipendentemente dal sesso7.
Mentre le donne avanzano queste richieste, non conosce tregua l'offensiva padronale di aumentare il macchinario in assegnazione, di accelerare i ritmi di lavoro, di ridurre gli organici. Le operaie lavorano già in condizioni di sfruttamento disumano (una donna su sei telai) ed in assenza di un premio di produzione collegato con il rendimento.
Il sindacato era allora organizzativamente debolissimo.
«In quegli anni il sindacato non era molto forte, anzi, e in una debolezza sindacale generale c'era una debolezza sindacale specifica della Cgil. Le fatiche che facemmo per costruire la presenza della Cgil furono immani. Allo Jutificio la Cgil non esisteva. Andai a trovare una vecchia compagna di Rocca San Zenone, Costantini Irma, e con lei cominciai a prendere alcuni contatti...» (Testimonianza di Mario Bartolini, allora segretario provinciale della Cgil).
Elsa Porrati «... Quando ci sono state le persone di una certa età, che poi man mano sono andate via, era molto difficile che fossero sindacalizzate; ce n'era una, comunista, la Costantini Irma, ma sennò...».
Dal decennio di crisi lo Jutificio di Terni cerca di uscire nel 1965 attraverso l'ammodernamento degli impianti e una loro maggiore produttività. Ma la ripresa è solo momentanea. Il panorama nazionale è preoccupante. Nel decennio 1959/69 la produzione e l'assorbimento interno nazionale della juta si contraggono del 50-60%; il numero delle aziende che producono manufatti di juta passa da 14 a 10. In realtà la domanda di manufatti non diminuisce, ma ormai di questa domanda la produzione nazionale copre solo la metà.
«Il settore della juta risente in modo particolare la crisi che ha colpito l'intero settore tessile, con un aggravamento dato dall'importazione di manufatti indiani8 e dalla contemporanea sostituzione dei sacchi di juta con altri tipi di imballaggio (...). Nell'attuale situazione è materialmente impossibile una ristrutturazione dell'azienda nell'ambito del settore, ove essa opera da molti decenni e ciò tenuto conto in particolare delle attrezzature e del tipo di manodopera di cui dispone...»9
Allo Jutificio di Terni alla situazione generale di difficoltà si aggiunge un ulteriore motivo di preoccupazione e di incertezza. Circa un terzo della sua produzione era allora assorbita da un solo cliente, la Snia Viscosa, sottoforma di tela per l'imballaggio del fiocco di fibra artificiale. La Snia Viscosa decide di sostituire la tela di juta con tela di rafia sintetica, prodotta in una azienda del proprio gruppo. Lo Jutificio non fa altro che ridimensionare l'attività produttiva a partire dalla fine di ottobre 1968 (si andrà avanti fino a febbraio 1969).
Comincia una lunga fase di agitazioni.
Luciana Lucci «... Mi ricordo che quando c'era qualche sciopero e noi volevamo entrare per guadagnare qualche cosina ci gridavano morti di fame, ci tiravano pezzi di pane, nel 1968. La maggioranza aveva scioperato. Eravamo pochi ad entrare...».
A febbraio 1969 viene avviata la procedura per 120 licenziamenti. Il 14 marzo le maestranze occupano la fabbrica. L'occupazione durerà due settimane. Risultato sospensione per nove mesi e poi licenziamento per 90 dipendenti, 14 uomini e 76 donne.
Oresta Sabatini «... Quando la fabbrica è stata occupata nel 1969, io mi trovavo sotto infortunio, mi ero rotta il menisco. Avevo sbattuto sullo sgabello su cui ero salita per vedere che era successo alla macchina, perché si era inceppata una rondella. Sono stata 7 o 8 mesi sotto infortunio. Mi sono licenziata io perché tanto la fabbrica andava in malora e io non potevo lavorare. Le conseguenze le pago ancora oggi perché ho una gamba più corta di tre centimetri. Da allora non ho più lavorato. Non potevo camminare, e anche per questo non l'ho cercato. Dove andavo? Mi faceva male, mi stancavo facilmente (...) Mi hanno dato all'inizio una pensione di 12 mila lire al mese, poi via via è aumentata, ma è sempre poca....».
Ivana Lunghi «... Nel 1969 prima mi hanno licenziata, sulla bacheca c'era scritto che mi avevano licenziata. Io ero giovane e non capivo perché volevano buttare fuori me; c'erano tante persone. Ho fatto un casino che non si sa. Dopo hanno detto che c'era stato uno sbaglio, e mi hanno riammessa. Io non mi sposto da qua dentro, avevo detto. Ho fatto tutto da sola. Io sto qui dentro. Dopo hanno tolto me e hanno messo un altro».
Maria Petrocchi «... Dovevano ridurre. Di conseguenza, secondo i loro discorsi, avrebbero preso quelle persone che potevano vivere senza quel lavoro. Perché parliamoci chiari, è vero che una donna ha i diritti perché è incinta o perché ha un bambino piccolo. Però lì si trattava magari di fare la scelta tra una donna capofamiglia e una donna che a casa c'era il marito che poteva assicurare un altro stipendio. Anche questo è da tenere un pochino in considerazione e, forse parlo in buona fede, mi sembra che di questo ne abbiano tenuto conto...».
Elsa Porrati «... Quando si fanno dei licenziamenti, si screma, e si tengono le persone che sono più valide e si cerca di mettere fuori quelle che sono meno valide. C'è stato un periodo che da noi nascevano tutti bambini di dieci mesi, perché dovevano stare a casa sei mesi, il certificato medico diceva che erano incinte di sei mesi, ma in realtà erano di cinque mesi...».
Agata Reginelli «... Hanno cacciato via quelle che facevano più
festa, che chiacchieravano di più. Anche 12 donne incinte perché gli davano
fastidio...».
Nell'elenco dei 90 licenziati il 29 dicembre 1969 figurano 12 lavoratrici che si trovano a casa per maternità. È una violazione della legge che sancisce il diritto alla conservazione del posto di lavoro fino al compimento del primo anno di età del figlio.
Agata Reginelli «... Non potevano essere licenziate, ma siccome là dentro c'era la dittatura, allora tutti zitti, perché sennò non rientravi neanche dopo partorito...».
Su intervento dell'Ispettorato del lavoro e su pressione delle organizzazioni sindacali, la direzione dello Jutificio procrastina il licenziamento alla data prevista dalla legge. Ma nel frattempo induce le 12 lavoratrici a firmare una dichiarazione di dimissioni volontarie, in cambio di modeste 50 mila lire. Tre lavoratrici non si sottomettono a questo abuso.
Graziella Caprini «... Sono stata licenziata nel 1969. Io stavo a casa che avevo partorito di mia figlia. Mia figlia è nata il 10 marzo 1969. Dopo 9 mesi dalla nascita sono stata licenziata. Non mi ricordo precisamente come è andata. Mi ricordo comunque che m'hanno fatto firmare una lettera perché dicevano che il posto di lavoro non c'era più, c'era stata già un'occupazione di fabbrica. Mentre facevano l'occupazione io stavo all'ospedale che avevo partorito. Questo stabilimento chiude, mi hanno detto, lei stava a casa (...) Purtroppo ci sono capitata io. Se non mi licenziavo io, mi licenziavano loro. Ma io che dovevo fare? Non è che potevo andare a lavorare in quel periodo. Alcune non hanno firmato la lettera di dimissioni, tanto sono state licenziate lo stesso (...) In quella occasione tutte quelle che stavano sotto buono malattia, tutte quelle che stavano sotto infortunio, e in maternità, tutte licenziate. Non è rientrata nessuna, dopo. Le prime che stavano a casa sono state tutte licenziate».
Gianna Proietti «... Ero incinta, mi hanno chiamata per farmi firmare una lettera che accettavo di andare via dalla fabbrica. Mi hanno detto che se firmavo io avrei avuto dei vantaggi. Solo anni dopo ho scoperto che invece licenziandomi in quel periodo, in quello stato, ho perso dei vantaggi reali. Ormai era troppo tardi».
Graziella Zavarelli «... Nel '69 non mi hanno potuto licenziare perché stavo in maternità. Ero compresa tra quei 90. Il nominativo mio c'era, solo che m'hanno dato un anno di aspettativa perché non mi potevano licenziare finché la figlia non compiva un anno. Il giorno che la figlia ha fatto l'anno m'hanno mandato la lettera di licenziamento».
Inizialmente la Cgil aveva invitato la direzione a riassumere in
servizio tutte le lavoratrici madri considerando nulle le dimissioni cosiddette
volontarie. Poi interviene l'accordo dell'8 aprile 1970 con cui le parti,
Associazione industriali, Jutificio e organizzazioni sindacali convengono sulla
legittimità del provvedimento di licenziamento collettivo; si impegnano, ognuna
relativamente alla propria rappresentanza, a far pervenire all'azienda, a cura
delle lavoratrici madri, «apposita e specifica lettera di accettazione del
provvedimento di licenziamento». Non solo. La lettera avrà anche «valore di
rinuncia alla condizione loro successivamente notificata», ovvero il
differimento della validità del provvedimento al compimento del 1° anno di età
del figlio. Solo dopo che queste lettere saranno pervenute, allora l'azienda
provvederà alla compilazione dei modelli a corredo delle domande presentate per
tutti i 90 licenziati per usufruire del beneficio della legge sulla Cassa
integrazione.
Il deterioramento della situazione economica dello Jutificio è inarrestabile. L'azienda rafforza il convincimento che le richieste di produzione che doveva soddisfare in modo stabile avrebbero potuto garantire lavoro a non più di 100 persone, e che l'unica lavorazione addizionale che poteva dare larga occupazione, equilibrio economico e prospettive di stabile o crescente attività era la produzione di sacchi di rafia polipropilenica, con destinazione imballaggio di concimi chimici per esportazione, in sostituzione dei sacchi asiatici di juta.
Unico potenziale cliente era l'Anic10 che commissionerà allo Jutificio una produzione pilota di 5 mila sacchi e tessuti juta/rafia sintetica.
Agata Reginelli «... Dopo che hanno messo la plastica, il nylon, il sacco di juta non lo facevamo più, c'era la concorrenza. La juta veniva dall'India, dopo la dovevano trasportare con il traghetto, lì allo Stretto di Suez, dovevano pagare il trasporto (...) Noi più si andava avanti più si lavorava meno...».
Ivana Lunghi «... Hanno fatto una prova con il nylon bianco, era resistente (...) Comunque la juta è sempre andata bene. Mi ricordo mio zio, vendeva mobili, la juta ce l'aveva sulle pareti del negozio, forse perché teneva fresco. Ci facevano le tende e poi le ricamavano pure...».
L'esperimento ha pieno successo sia per la qualità del materiale fornito, sia per i prezzi unitari, che risultano inferiori a quelli dei sacchi importati dall'Anic dal Pakistan e dall'India. L'ipotesi di assorbimento dei sacchi di rafia che l'Anic prospetta allo Jutificio viene però giudicata irrilevante per il 1970, sarebbe diventata apprezzabile per il 1971, forse sarebbe stata sufficiente negli anni successivi. L'ultima strada che si cerca di percorrere è quella di prospettare al ministro delle Partecipazioni statali la soluzione che sembra praticabile e alternativa: il rilievo dello Jutificio da parte dell'Anic. Nonostante l'interessamento del ministro, sei mesi dopo non si profila ancora nessun elemento di novità.
2.8 L'occupazione e la requisizione
Gli azionisti convocano per il 31 luglio 1970 l'Assemblea generale straordinaria per la messa in liquidazione della Società, e per procedere di conseguenza al licenziamento dei 318 dipendenti. Il 15 luglio alle ore 10 di sera i dipendenti avevano proceduto all'occupazione della fabbrica. Era l'immediata ed energica risposta all'annuncio padronale di porre in liquidazione l'Azienda. Il giorno prima della messa in liquidazione, il sindaco di Terni, professore Dante Sotgiu, requisisce lo stabilimento e affida la custodia e la gestione dei beni requisiti ai componenti della Commissione interna, Lepri Alceste, Gaggiotti Piero, Massarelli Ennio, Marzolini Marsilio, e al direttore tecnico Pierandrea Fiori. Lo requisisce per assicurare la conservazione e l'efficienza degli impianti e la gestione dello stabilimento nel caso in cui si fosse verificata la concessione di commesse da parte dell'Anic, in attesa della riconversione tecnologica per nuove lavorazioni.
Pietro Fabris «... La requisizione è vero che è stata disposta dal sindaco su sollecitazione in particolare delle organizzazioni sindacali, ma con la proprietà sostanzialmente d'accordo. Non è stata fatta in contrapposizione, perché sennò loro potevano benissimo fare ricorso al Tribunale, opporsi. Non hanno mai chiesto il dissequestro dei beni. Non vedevano l'ora di liberarsi di questo malloppo, sistemare le partite con il personale e poi...».
La requisizione dura fino al 10 maggio 1971. L'assemblea generale delle maestranze decide il 15 maggio di cessare lo stato di occupazione. Dal 3 agosto 1970 al 2 maggio 1971 i dipendenti percepiranno l'indennità dell'80% della retribuzione. Dal 3 maggio al 2 novembre dello stesso anno l'indennità speciale di disoccupazione pari al 66% della retribuzione lorda. Il 2 maggio 1972 hanno inizio i corsi di riqualificazione all'Ancifap11 finanziati dal ministero del Lavoro e dall'Eni a sostegno del reddito dei lavoratori per una durata di 14 mesi.
2.9 La lotta e
l'esito della lotta
Fin dal primo giorno dell'occupazione, maestranze dello Jutificio ed organizzazioni sindacali lottano sia per la salvezza dell'Azienda che del posto di lavoro per tutti.
Viene lanciata una sottoscrizione di solidarietà attraverso la raccolta di fondi a cui partecipano singoli cittadini, dipendenti di altre fabbriche, enti locali, partiti politici, Acli, Udi.
Anna Lizzi «Il primo versamento che facemmo come Udi fu di 115 mila lire; poi raccogliemmo come donne comuniste oltre 100 mila lire, questo nel 1969. Il secondo versamento lo facemmo nel '70; 145 mila lire consegnate alla Commissione interna...»
Il sindaco di Terni mette in evidenza come la decisione di messa in liquidazione dello Jutificio e il conseguente licenziamento dei dipendenti, assume «sul piano sociale (...) una particolare ed estrema gravità perché la manodopera femminile largamente impiegata nello stabilimento ben difficilmente potrebbe trovare un'altra occupazione nei settori produttivi dell'economia cittadina»12.
In un clima incandescente si alternano incontri, manifestazioni, promesse dei ministri, delusioni.
Il senatore umbro Raffaele Rossi, in una lettera inviata a Mario Bartolini il 5 ottobre 1970 scrive: «Il fatto che mi abbia detto (il consigliere di Stato Crisci, capo gabinetto del ministero delle Partecipazioni statali, nda) che ogni giorno vi sono cinque casi gravi per i quali occorre interessamento del ministero, e soldi, mi fa pensare che non tutto sia facile. Reputo perciò utile tambureggiare...».
Comitato cittadino e organizzazioni sindacali impostano e indirizzano tutta la loro iniziativa sull'ipotesi di assorbimento dello Jutificio da parte dell'Anic, ritenendola l'unica soluzione credibile per uscire dalla crisi.
Pietro Fabris «... A Terni ogni volta che si parlava di crisi si puntava immediatamente a Roma, ai ministeri. Questo derivava ovviamente dal tipo di cultura industriale che c'era a Terni: la presenza forte e massiccia delle Partecipazioni statali. Si tenga presente che anche la Montedison era a Partecipazione statale. È quasi gioco forza andare a finire lì...».
C'è una iniziale disponibilità dell'Anic-Eni e della Terni Industrie Chimiche13 di fornire commesse allo Jutificio, collegata all'avvio delle procedure per il passaggio della fabbrica all'Anic. Una disponibilità che è solo il primo impegno non mantenuto del ministro delle Partecipazioni statali. Altro impegno, prima ritardato, poi disatteso, la costruzione entro i primi di giugno del 1972 di uno stabilimento Lebole per 450 persone per la produzione di confezioni.
«... I cento giorni di ansia per salvare lo Jutificio di Terni si sono conclusi (...) Lo ha comunicato ieri pomeriggio il sindaco di Terni, professore Sotgiu, il quale, appena rientrato da Roma (...) si è recato allo Stabilimento dove tutti gli operai si sono radunati per ascoltarlo. Uno scrosciante applauso (...) ha accolto il sindaco il quale, anch'egli soddisfatto, ha iniziato il suo intervento con una battuta spiritosa: «Radio gavetta ha funzionato e quindi la notizia la conoscete: lo Jutificio è salvo». Tutti i presenti alla notizia hanno esultato «...È stato stabilito di creare una società nell'ambito dell'Anic che consenta l'assorbimento di tutte le unità operative dello Jutificio il quale avrà nuovi impianti e (...) lo ripeto ancora con l'attuale organico». Il sindaco ha poi detto che «...l'onorevole Piccoli ha precisato testualmente che sarà uno stabilimento moderno e attrezzato e non avrà più crisi cicliche...»14.
Le organizzazioni sindacali pur attribuendo il ritardo della realizzazione del nuovo stabilimento alla crisi del settore per l'abbigliamento, cominciano a nutrire forti dubbi sulla effettiva volontà o possibilità di costruire una nuova fabbrica.
Pietro Fabris «... Non c'è stata lungimiranza, anche perché si accettavano le proposte che facevano anche quando erano oscene, tipo quella di fare una fabbrica Lebole, quando il settore tessile era in crisi, ma di brutto, e con uno stabilimento sempre Lebole, appena impiantato ad Orvieto cioè nella stessa provincia. E poi la Lebole era stata ceduta alla Lanerossi, Lanerossi gruppo Eni, Eni che non voleva saperne di tenere le attività tessili, perché diceva io devo fare altre cose, non erano più i tempi di Mattei, la Lanerossi licenziava...».
Caduto questo progetto viene genericamente prospettata la volontà di dar luogo ad una iniziativa industriale sostitutiva. Nel corso di una riunione sindacale convocata per discutere su questa ipotesi, qualcuno appunta su un foglio: «Settore tessile gravissima crisi. Posti Jutificio vanno fronteggiati con altre iniziative. Questione donne impossibile essere occupate»15.
Comincia a farsi strada una presunta consapevolezza?
Pietro Fabris «... Era un gioco che non si sarebbe concluso bene. La crisi era quella che era, il ridimensionamento delle stesse Partecipazioni statali era già in atto, e il peso specifico della stessa Terni, di Terni città, quando andavi a Roma lo sentivi che era poca cosa. Avete già le Acciaierie, il Gruppo Montedison, un sacco di cose, ma insomma, non vi rendete conto che abbiamo il Sud, che abbiamo Genova, Vicenza, le zone forti...».
La vicenda dello Jutificio si era andata nel frattempo inserendo su quella della minacciata chiusura della fabbrica di Papigno16.
Aspra e vivace si accende la polemica a Terni tra i partiti in merito alle responsabilità per la crisi, agli impegni e alle prospettive per le industrie; vasta si fa la mobilitazione per chiedere la soluzione di entrambi i problemi aperti (Jutificio e Papigno) e per la realizzazione di investimenti in settori considerati fondamentali (meccanica e chimica secondaria).
Alberto Provantini, assessore regionale ai Problemi economici dal 1970 al 1983 «... Noi mantenemmo a lungo la mobilitazione per difendere l'occupazione a Papigno e allo Jutificio; ma non dicemmo che occorreva continuare a fabbricare la juta o a produrre carburo e calciocianammide. Ponemmo subito la questione della riconversione (...) Così usammo un'altra parola poi molto abusata: mobilità. Aprimmo allora la trattativa con il ministero delle Partecipazioni statali e con l'Eni chiedendo di avere nuove fabbriche al posto di quelle che si era deciso di chiudere (...) Ottenemmo un piano da 800 posti di lavoro per tre nuove fabbriche, insieme ai nuovi reparti alla Terni Chimica: la creazione cioè di un centro chimico pubblico, anche se articolato per aziende e per produzioni...»17.
Organizzazioni sindacali di Terni, ministero del Lavoro, Asap, partendo dalla considerazione che è caduta definitivamente l'ipotesi di costruzione di una fabbrica Lebole, convengono, 6 dicembre 1972, che per risolvere i problemi occupazionali degli ex dipendenti dello Jutificio occorre ricercare una soluzione in direzione delle nuove iniziative industriali annunciate per Terni e già in fase di realizzazione: la Siemens, per la produzione di apparecchiature telefoniche, e lo stabilimento per la fabbricazione di tubi di plastica a Nera Montoro. L'Asap si impegna per conto dell'Eni ad assorbire le maestranze maschili dell'ex Jutificio (52) ed altre unità maschili, familiari dei lavoratori ex Jutificio, collocandole nel realizzando tubificio, garantendo loro un sostegno economico fino al momento dell'inserimento nella nuova fabbrica attraverso la Cassa integrazione.
Che fine faranno le donne? Secondo alcune notizie in possesso delle organizzazioni sindacali, il Gruppo Covit (confezioni e vendita di indumenti tessili) è intenzionato a costruire a Terni un pantalonificio, ed è disponibile ad assorbire una parte delle donne dell'ex Jutificio che frequentano i corsi di riqualificazione. Sempre secondo le organizzazioni sindacali la Siemens potrebbe offrire la possibilità di assorbimento delle maestranze femminili dell'ex Jutificio, ma sottolineano che per indurre la fabbrica ad assumere le donne, sono necessari interventi di pressione politica da parte di tutti, presidenza del Consiglio dei ministri, ministro delle Partecipazioni statali, Regione dell'Umbria, partiti politici.
Il 13 gennaio 1973 viene siglato l'accordo conclusivo. L'Asap Eni si impegna formalmente ad assumere gli uomini partecipanti ai corsi di riqualificazione, e gli eventuali sostituti uomini di lavoratrici dell'ex Jutifi-cio, nel numero massimo complessivo di 70 unità, presso il Tubificio Itres o altra azienda a Parteci-pazione statale.
Il 15 marzo 1973, 70 uomini instaurano il rapporto di lavoro con la società Itres.
In un comunicato stampa le organizzazioni sindacali affermano: «Questo positivo risultato va ascritto alla tenacia e alla unità dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali, nonché alla solidarietà che unitamente ha espresso l'intera città e provincia a cominciare dai partiti politici democratici, dal Comitato cittadino, dagli Enti locali, dai parlamentari locali. Queste forze, le organizzazioni sindacali, nel ringraziarle per la loro positiva opera, sulla base delle esperienze acquisite, le invitano a continuare l'azione per la realizzazione di altri importanti e qualificati obiettivi, in ordine allo sviluppo economico e occupazionale della nostra provincia, e nel caso particolare, a seguire le ultime fasi della concretizzazione degli impegni presi, onde tutto il contenuto dell'accordo odierno vada a buon fine».
Nell'accordo si rimandava ancora, e genericamente, al Pantalonificio Covit e alla Siemens. Le donne avevano ancora da aspettare. Ma il 25 giugno 1973 la Covit fa sapere che non ha ancora cominciato i lavori di costruzione dello stabilimento perché il Comitato dei ministri non ha deliberato in merito all'approvazione del finanziamento.
Questa è l'ultima traccia.
1 Traccia per le assemblee di Orlanda Mannaioli, della segreteria della Camera del lavoro di Terni, Sindacato provinciale tessili, Archivio della Camera del lavoro di Terni.
2 Arminio Savioli, «l'Unità», 16 ottobre 1953.
3 In Italia il salario femminile corrisponde al 70% del salario maschile; la quota di contingenza è per le donne inferiore del 13% a quella degli uomini.
4 Il lavoro non è identico, ma può essere considerato come comparabile ad un lavoro della stessa natura, sulla base di una valutazione e di una definizione obiettiva.
5 Il valore del lavoro non è determinato dal fatto che sia eseguito da un uomo o da una donna; ciò che determina il livello di retribuzione è la qualifica del lavoratore e della lavoratrice.
6 Le donne addette a lavorazioni promiscue percepiscono una paga pari al 92,80% di quella maschile.
7 Archivio della Camera del lavoro di Terni, busta «Vertenze collettive».
8 L'Italia aveva liberalizzato le importazioni e la concessione di sgravi doganali. Vengono favoriti l'India e il Pakistan, i due massimi produttori mondiali di manufatti jutieri, anche perché detengono il monopolio della produzione della fibra materia prima.
9 Lettera inviata dall'azienda all'Associazione industriali della provincia di Terni, gennaio 1969, Archivio di Stato di Terni.
10 L'altro grande produttore nazionale di concimi chimici, la Montedison, già disponeva delle attrezzature idonee, oltre a produrre il granulo di polipropilene, e le utilizzava parzialmente per quello scopo.
11 Centro di Terni per l'addestramento e la formazione professionale dell'Iri.
12 Nota indirizzata ai ministri delle Partecipazioni statali, dell'Industria e del Lavoro, 24 luglio 1970.
13 Fabbrica per la produzione di concimi chimici e fertilizzanti, successivamente anche del granulo di policarbonato.
14 Alberto Provantini, da «Il Tempo», 29 ottobre 1970.
15 Archivio della Camera del lavoro di Terni, busta «Vertenze collettive».
16 Fabbrica dell'Eni per la produzione di carburo e calciocianammide sorta nei pressi di Terni nel 1901.
17 A. Provantini, Quei 9 mila giorni, a cura di S. Mazzilli, Ed. Thyrus, 1984.
Elsa Porrati «... Io quelle operaie le giudicavo assolutamente eroiche per il tipo di lavoro che facevano, per il materiale che lavoravano, pensando che poi quando uscivano dalla fabbrica a differenza degli uomini avevano un carico di lavoro che ad un certo momento io non so se stavano peggio per la fabbrica, che era lavoro retribuito, o per i signori mariti fuori, che non le retribuivano e non facevano assolutamente niente per loro. Il tasso di assenteismo era elevatissimo, però bisogna anche dire che quando a una donna gli si erano accumulati tanti panni così, doveva starsene a casa per stirarli (...) Dicevano che era una fabbrica da terzo mondo, mentre io sapevo che quando le donne avevano un marito disoccupato e avevano bisogno di lavorare, o qualcuna era madre nubile e doveva lavorare, beh! l'unico rifugio era lì dentro. E questi casi ci sono ancora adesso in giro. Anche socialmente era utile. Ma non le vedevamo le donne che entravano lì dentro? Ma chi lo veniva a fare un lavoro così in fabbrica? Se non ha proprio la fame alla porta, o un gran bisogno? Chi è che veniva a fare un lavoro di quel genere? È stata un'ancora di salvezza per generazioni. Veniva sempre data la preferenza a madri nubili, perché quelle dove vanno, quelle chi le aiuta? Sono emarginate anche dalla famiglia. A vedove, finché la legge lo ha consentito, poi ad un certo momento bisognava prendere quelli che ti mandava l'Ufficio di collocamento. Allora se andavi per favore, gli dovevi segnalare qualche caso che sapevi particolare. Naturalmente le lettere dei vari parlamentari rimanevano sempre nel cassetto, magari poi andavano a finire all'Ufficio del lavoro e era la stessa cosa...».
Maria Petrocchi «... Sono stata assunta nel maggio del 1964 tramite l'Ufficio di collocamento, ma con tante di quelle raccomandazioni da tutte le parti. Tanto è vero che quando arrivai lì, la capo del personale, la signora Flora La Bella mi disse: finalmente la conosco di persona perché tante sono venute qui a raccomandarla. Non perché io fossi una persona diversa dalle altre, è che avevo bisogno di lavorare perché ero una ragazza madre, i miei genitori, non erano più molto giovani, e a me questo lavoro serviva...».
Elsa Porrati «... Entrava personale molto giovane. Soprattutto rientravano, perché si licenziavano per motivi di famiglia, avevano dei figli. Ad un certo momento i figli crescono un pochino, e loro erano nelle condizioni di rientrare. Nelle donne c'è una forte mobilità...».
Le biografie delle operaie presentano sempre qualche anno allo Jutificio, qualche anno al Lanificio Gruber, intervalli a casa, gravidanze, lavori artigianali o a domicilio, poi di nuovo periodi in fabbrica, magari alla Fabbrica d'Armi durante le due guerre.
Agata Reginelli «... Sono entrata da Centurini dopo la guerra. Dopo sono riscappata perché col figlio non c'avevo chi me lo guardava, sono stata parecchio tempo fuori, ho lavorato da Mattorre, la vita mia è stata una bufera. Dopo sono rientrata nel '61».
Silvana Reginelli «... Sono stata io con la capa del personale Flora La Bella. Nel 1960 il marito suo (di Agata) era andato via, e io mi sono raccomandata a lei. E infatti è stata riassunta».
Diana «Centurini è 'na parola/che la sa la fija sola/la creatura e lu vecchio/'sta parola ce la sa... Grubbe co' l'ombrellino; Cindurini co' la pezzola; la Fabbrica d'Arme co' lu bastoncino. E l'Acciaieria co' le palle de fora. È ganza eh? Perché Gruppe erano molto eleganti, erano maestre; invece, Cinturini annava a lavorà la juta, era poretta»1.
Elsa Porrati «... Il livello di istruzione delle operaie era molto basso. C'era qualcuna analfebeta. Ma del resto era un tipo di lavoro che neanche ti richiedeva abilità manuale, non erano macchinari sofisticati, erano telai. Era attività manuale che si acquisiva con l'esperienza».
Luciana Tarquini «... Io abitavo vicino, lì a Piazza Valnerina. Andavo a lavorare in bicicletta, facevo sempre tante corse. Ero giovane, facevo sempre tardi, avevo sempre tanta stanchezza sopra le spalle. Una volta, oggi mi viene da ridere a pensarci, mi chiamò la capo del personale dicendo che dovevo fare una visita dall'otorino. Io non sapevo neanche quello che significava. Le vecchie maestranze che lavoravano, colleghe che stavano lì, mi chiedevano che t'ha detto, che t'ha detto. Se ritardi ancora vedrai quello che ti succede, fanno di tutto e poi ti cacciano via. Non capivo che visita era. Mi dicevano digli che ci vada essa, e non ci sono andata a fare la visita, mica ero sorda. Mi sono insordita dopo, con tutti quei telai, con tutti quei rumori, e non mi è stata riconosciuta. Ho il 70% di sordità in un orecchio. La visita era un pretesto per cacciarmi via visto che arrivavo sempre tardi. Ma io non capivo. Il ritardo era sempre di pochi minuti, non era di ore. Invece di entrare alle sei, entravo alle sei e cinque, sei e dieci. Erano quei cinque minuti affannati, sempre all'ultimo minuto, però del resto dietro c'è stata sempre una vita un po' amara, con il lavoro extra, perché non ce la facevo a tirare avanti con lo stipendio della fabbrica...».
Maggiorina Mattioli «Mamma, lavorava allo stabilimento Centurini. Abitava molto lontano, su la Castagna. E allora la mattina s'alzava alle quattro. S'entrava alle sei, se faceva dodici ore: dalle sei alle sei»2.
Quando sona la sirena/prima anco' che facci jornu/ce sentete atturnu atturnu/dentru Terni da passà3.
I mezzi di trasporto pubblici erano molto scomodi.
Ivana Lunghi «... Abitavo a Borgo Bovio, poi a San Valentino. Andavo a lavorare con l'autobus, qualche volta anche a piedi, specie l'inverno se l'auto non passava. Ne dovevi prendere per forza due di autobus. Se stavi bene o stavi male dovevi andare a lavorare, non c'era niente da fare...».
Graziella Caprini «... L'auto lo prendevo poco perché era tanto scomodo. Andavo a lavorare con il motorino. Con l'auto che veniva da Narni dovevo fare una gran corsa. Quando entravi dentro il portone dello Jutificio dovevi fare ancora un bel pezzo di strada. Dovevi entrare, andare allo spogliatoio, ti dovevi cambiare e poi andare giù al reparto e timbrare. A cinque minuti, dieci minuti alle sei. Se facevi tardi erano guai. Una volta, era d'inverno, c'era la neve, ho preso l'auto che è arrivato, mica tardi, venti minuti alle due, ma da dove mi lasciava l'auto dovevo andare al portone, poi cambiarmi, insomma ho timbrato alle due precise. M'hanno tolto mezz'ora dalla busta paga. Lì si doveva timbrare un po' prima. Alle due dovevi stare davanti alla macchina. Io purtroppo non ce l'avevo fatta. Non m'hanno richiamata però (...) Solo che sono leggi fatte male. M'avevano pure visto che arrivavo di corsa perché ci stava l'impiegata lì davanti quando timbravi...».
Luciana Lucci «... Andavo a lavorare con l'autobus. Ce l'avevo la mattina alle cinque, cinque e dieci, e stavo a casa il giorno alle tre. Stavi fuori di casa dieci ore al giorno, dovevi fare una bella corsa per entrare e per uscire, l'autobus ci lasciava su a viale Brin, proprio sulla strada...».
Maria Petrocchi «... Abitavo ad Acquasparta. Partivamo anche con il treno delle quattro e un quarto. Ho viaggiato tantissimo tempo con quel treno. Il ritorno era più facile, il treno c'era alle due e trentacinque. Per un periodo di tempo ho fatto il turno spezzato, ancora più disastrata, perché si partiva il mattino e si tornava la sera...».
Neanche all'uscita, a fine turno, c'è tranquillità.
Maria Petrocchi «... Dovevamo lasciare il posto di lavoro quando fischiava la sirena. Tutte le sere si rischiava di scocciarci qualche gamba perché dovevamo correre per andare a timbrare. C'era un solo orologio, c'era una passerella larga mezzo metro, una alla volta ci infiltravamo tutte. Mi ricordo che davanti alla strada alle dieci e ventisei passava l'autobus e noi dovevamo fare in tempo a fare anche la doccia. Era tutta una corsa. Uscite dalla doccia ci vestivamo in fretta, può darsi eravamo un po' bagnate, e via di corsa a prendere il pulmann, e poi per me non finiva qui, via di qui a prendere il treno. Se ci ripenso, solo allora perché ero giovane...».
Pur lavorando in reparti diversi, tutte le operaie denunciano la grande fatica e il grande disagio che sono costrette a sopportare per garantirsi quel lavoro che per loro è comunque un lavoro d'oro.
Maria Petrocchi «... All'inizio sono stata in cucitura, e poi dopo in filatura. Mi ricordo che il primo giorno di lavoro è stato traumatico. Tutto il rumore, il filo che mi doveva passare su queste dita, e mi faceva tanto male. E io non facevo altro che pensare: oddio ho interessato tante persone, farò una brutta figura ma io domani non ci torno. Per tutto il pomeriggio sono stata convinta di questo. Quando è suonata la sirena per il pranzo mi sono seduta da una parte a pensare: io non ne posso più. E invece sono rimasta fino alla fine, anche se non era un bel lavoro. Però permetteva uno stipendio, era diventato un lavoro importantissimo per me...».
Alessandra Casciotta «... Lavoravo al reparto filatura. La polvere era tanta, ma io ero contenta, perché avevo bisogno di lavorare, ero sola...».
Presso l'Archivio di Stato di Terni sono consultabili i registri contenenti tabelle con indici di produzione oraria nei reparti tessitura e filatura nel periodo 15 agosto 1947 – 30 aprile 1951, per ogni singola operaia.
Ivana Lunghi «... Ambiente pessimo da Centurini per carità! Il lavoro più zozzo che ci sia. E poi la polvere, ti entrava dentro gli occhi. Dovevo lavorare su trenta-quaranta cannelli. Prendevo questo lasciavo quello, prendi quest'altro lasci quell'altro, e via. Tutto di corsa dovevi fare. Stavi a cottimo. Tutti i giorni ti controllavano la produzione, ti pesavano la balla. La balla la chiudi dalle parti, ci stanno i cartellini. C'era un capo, uno piccolo piccolo, ti diceva quante ne fai oggi? Fa' un po' vedere sulla faccia come stai, stai bene, allora oggi ne fai parecchie, 3, 4, 5 balle, secondo. Preparava 3, 4 cartellini e tu li attaccavi...».
Celsa Paganelli «... Allora (nel 1936) c'era l'autarchia, facevamo la juta con la ginestra; se strappava tutta! Pe' guadagnatte la giornata ai telai, una strappata de mezzo tessuto pe' balla, dovevi sta' lì, prima dovevi infilalla sull'ago, poi fa' il nodo, poi reinfilallo sull'altr'ago, poi mettela a parte perché se la tessitura non era para te levavano soldi. E me ricordo la nipote di Genzina, che c'aveva 'na botteghina quì: 'na ragazza, lavorava d'inverno coi zoccoli. Lavoravano dentro a questa capanna de legno coi zoccoli di legno e co' 'sti zinali a sfilzare 'sta ginestra, a prepararla per la tessitura. Coll'acqua corrente d'inverno, tutta allagata, e infatti s'ammalò all'ossa, tubercolosa, e c'è morta. Tanta bella ragazza era. Io invece ero entrata sui telai. Poi m'avevano messo a raccoglie' le macchinette. Ma che fatica! Dunque, quando cucivano le balle, tu svelta svelta dovevi taglia' il filo, fermallo, arrotola', giù, giù, giù, tutto un rotolo, tutto un rotolo queste balle, perché erano pronte per partire. Mica facevi a tempo: la macchinetta era svelta perché era elettrica, e cuciva svelta svelta, cuciva, cuciva. Tu svelta svelta dovevi piega', conza', ammassalli, dieci, venti. Una polvere, d'estate, co' quei baracconi che sopra te piombava il caldo, co' la juta che te s'appiccicava addosso perché sudavi, era una gran fatica, 'na gran fatica! Una fatica enorme proprio. Me ricordo. Poi anche in tessitura, pure, Dio ce ne scampi e liberi. Se per esempio l'ordito era brutto, se strappa continuamente, tu non guadagnavi niente. E allora mi ricordo (una ragazza) è morta, è morta adesso, era una bella ragazza. C'aveva un ordito che non jannava avanti: prese de petto l'orditore, parolacce perché era abituata dentro lo stabilimento. A senti' tutte quelle parolacce me sentivo male. Dicevo: Madonna mia perché? Sì tanto bella ragazza... Perché non ce la facevano, erano stanche, stanche...»4.
Luciana Lucci «... Stavo al reparto tessitura, lavoravo su sei telai, poi su due telai americani. Quando la macchina camminava e faceva la produzione tutto filava liscio. Invece erano guai quando si strappava la juta, quando si bloccava la macchina, quando si fermava. Allora si fatica tanto di più e non si produceva (...) L'ambiente più rumoroso era quello dove stavo io, ai telai, tanto è vero che per chiamarci l'una con l'altra facevamo degli urli come i lupi, ma forte. Polvere te ne mangiavi come quando uno va a trebbiare. Io soffro di enfisema polmonare. In filatura comunque c'era ancora più polvere. Tra la filatura e la tessitura c'era un corridoio di mezzo. Il rumore dalla parte nostra alla parte loro si trasmetteva uguale. Polvere e rumore quanto ne volevamo. Il mio non era un lavoro semplice, anzi. Era anche faticoso, perché quando si smontavano le pezze, le dovevi staccare su di viva forza, erano quintali. Minimo minimo pesavano settanta-ottanta chili l'uno. Saranno stati trecento telai tutti in uno stanzone. Davanti ai telai facevamo continuamente avanti e indietro. Quando lavoravo su sei telai, ce n'avevo tre davanti e tre dietro. Avanti e indietro, avanti e indietro. Ogni telaio era lungo circa due metri e mezzo. Quelli americani erano molto più lunghi, su quelli ci ho lavorato gli ultimi mesi...».
Luciana Tarquini «... Lavoravo al reparto cucitura. Dovevamo fare tantissimi sacchi al giorno. La predisposizione era questa: una persona cuciva, erano sempre le più vecchie, dall'altra parte le più giovani dovevano raccogliere i sacchi cuciti. Più cucivano, più produzione c'era, ma la produzione era solo per chi cuciva, non per chi raccoglieva. Se l'altra persona cuciva tanto rischiavi anche che il pranzo non lo facevi perché dovevi accatastare tutto quello che aveva cucito. Mi è successo molte volte, spesso e volentieri. Poi da lì mi hanno tolto, non gliela facevo. Mi hanno messo al ripasso della tela, dovevi vedere se era rotta. Mi si è abbassata di molto la vista. Questa era la peggiore delle fabbriche. D'inverno era freddo, e dovevi lavorare con tanta roba addosso, tante maglie. C'era la divisa, era un grembiule, però non ti poteva entrare con tutti quegli stracci per vincere il freddo. Sempre due o tre maglie ti dovevi mettere. Non c'era riscaldamento...».
Agata Reginelli «... Sono stata al reparto filatura a raccogliere sacchi. La polvere, se stavi a bocca aperta! Entravano dentro certi fili, qui sotto gli occhi. E fatica col mitra, e disciplina...».
Silvana Reginelli «... Avevo sei telai, gli giravo intorno intorno. Dopo vennero quei telai grossi alti, che facevano certi rotoli grossi. Siccome dice che ero grossa, stavo bene su quei telai. Sempre a culo per aria sussopra stavo, che anche il cuore mi si vedeva, certe faticate. Il telaio più era alto e più mi dovevo sporgere per lavorarci, ti dovevi allungare. Ero grossa. Dice ci sta bene questa sussopra. Me c'hanno tenuto poco! È stata la fine mia quella...».
Graziella Caprini «... Eravamo tante lì al reparto filatura, lavoravamo in due turni. L'ambiente era molto umido. Specialmente gli ultimi tempi era quasi impossibile lavorarci. Avevano messo dei ventilatori, ma così grossi, che spruzzavano tutta acqua. Stavano sopra a noi, sopra le macchine nostre, spruzzavano anche noi. I primi giorni che li avevano messi in funzione, lì dentro era come quando vedi la nebbia per strada, uguale. In ultimo una mattina tutte quante d'accordo abbiamo fermato le macchine perché in quella maniera non si poteva andare avanti. Non tanto io che ero la più giovane, quanto le altre, le più vecchie. Risultato hanno mandato i ventilatori leggermente più piano, ma non hanno fatto nient'altro. Era poco prima che chiudesse...».
Agata Reginelli «... L'umidità gliela dovevano dare per l'impasto. Ma i dolori!...».
Oresta Sabatini «... C'era una pioggia d'acqua sopra la juta, e naturalmente anche sopra le persone. Se non si bagnava la juta non teneva, erano striscioline fine...».
Graziella Zavarelli «... Stavo in tessitura, prima come aggiustatrice, poi mi hanno passato ai telai. Il lavoro come aggiustatrice non era tanto faticoso, dopo come tessitrice (...) C'avevi sei telai e dovevi correre anche perché non era più come diversi anni prima che la juta era tutta intera. La juta veniva spezzata e quindi il filo si spezzava più facilmente, e allora bisognava correre di più perché i telai stavano sempre fermi». Giuseppina Migliosi «... Me vergognavo de sta' a lavora'. Quando i ragazzi venivano lì davanti, facevano la corte a qualcuna, dicevano come puzzi de juta, come puzzi. Uno se mortificava. Allora, dopo m'hanno preso da Gruber. Quando s'usciva da quello stabilimento lì, i ragazzi si mettevano lì davanti ad aspettare la fidanzata, ossia a qualcuna che facevano la corte, e le chiamavano signorina. Invece, uscivi da Centurini e cominciavano a dì che puzzi de juta... »5.
La durezza del lavoro è comune ad altre fabbriche a Terni e in Italia, ed ampiamente documentata nelle relazioni della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia6. Dal 13 al 16 novembre 1956 una delegazione della Commissione d'inchiesta svolge a Terni un'indagine diretta per raccogliere testimonianze, dati, documentazione. Poco prima che la delegazione parlamentare iniziasse i suoi lavori, sulla pagina locale de «l'Unità», iniziò a partire dal 7 novembre, la pubblicazione di una serie di «pro-memoria per la Commissione di Inchiesta». Su «Cronache Umbre» era stata già denunciata, in una serie di articoli pubblicati nel corso dell'anno 1955, la situazione esistente nelle fabbriche più importanti della regione dell'Umbria, per quanto riguarda i problemi delle Commissioni interne, le rappresaglie e i ricatti, l'inosservanza delle norme contrattuali, gli infortuni, gli omicidi bianchi.
Alcune operaie dovevano stare attente a non ammalarsi.
Silvana Reginelli «... Se stavi male per più di tre giorni, perdevi il telaio tuo. E questo per non farti fare festa. Allora magari una andava a lavorare con tutta la febbre, con tutto il raffreddore, con tutto quello che c'avevi per non perdere la macchina. Ci stavano tante macchine che andavano così bene che era una meraviglia, tante c'avevano più difetti, sbattevano, strappavano la juta, era un calvario. Dovevi stare lì ad aspettare che qualcuna stava male, passava il capoturno e tu gli dicevi: mi dai quei telai lì che vanno un po' meglio? Se ti diceva di si, te li dava...».
Luciana Lucci «... Se i tuoi telai andavano bene, e ti ammalavi per più di tre giorni quando tornavi ti davano quelli peggiori, quelli più scadenti, e poi andavi in fondo alla fila, dove c'era più umidità, più buio, ci stavano i bagni vicino che puzzavano, ma era un lavoro d'oro...».
Ritmi di lavoro sostenuti non di rado erano motivo di diffidenza tra operaie di diversa generazione.
Maria Petrocchi «... Magari mi avranno considerato un'operaia scarsa. C'erano persone che non aprivano mai bocca per quanto lavoravano. Non so che cosa gli avrei fatto allora e che gli farei adesso. Ma proprio per danneggiare le altre, non tiravano mai su la testa. C'era la separazione per questo tra giovani e meno giovani. C'era anche qualcuna giovane che era tremenda, però le vecchie...».
Ivana Lunghi «... Dentro la fabbrica c'erano le più anziane
che erano tremende, non ho mai visto donne simili. Basta che vedevano una
giovane, gli facevano fare un vomito. Erano tremende...».
«... Le paghe delle 50.000 lire al mese le troviamo in fabbriche dove il lavoro è tra i più massacranti, allo Jutificio di Terni o nelle cementerie e fabbriche di laterizi di Gubbio. Questa situazione permane ad esempio a Gubbio perché la sola alternativa è stata per 4.000 giovani quella di scappare all'estero. E così per le operaie dello Jutificio o le dipendenti del commercio, questo dato viene mantenuto perché non esiste un altro mercato della manodopera femminile...»7. Elsa Porrati «... Guadagnavano poco, il lavoro era infame. Il contratto dei tessili era il più basso d'Italia, anche per noi impiegati, perché il mio stipendio messo a confronto con quello di un impiegato di prima categoria della Terni, faceva proprio ridere. Fortunati quelli che riuscivano ad entrare all'Enel, che guadagnavano 3-4 volte più di noi, e faticavano anche meno. Però visto che lì tutti non ci possono andare, che le donne assolutamente non ci possono andare, quello era l'unico stabilimento...».
Maria Petrocchi «... Le prime buste paga che ho preso 9 mila lire, 10 mila lire a quindicina. Viaggiavo insieme agli operai delle Acciaierie, quello che noi prendevamo in un mese, loro lo prendevano in una quindicina...».
Luciana Tarquini «... L'ultimo stipendio che ho preso era di 54 mila lire mensili. Pagavo a quei tempi 8 mila lire di affitto, poi avevo una mamma paralizzata e un figlio da mantenere. Prendevo dei lavori da fare a casa, e facevo sempre le ore piccole la notte. Molte stavano nella mia stessa situazione, facevano il secondo lavoro, anche se con il secondo lavoro si guadagnava poco. Però quelle 10 mila lire alla fine del mese ti davano la possibilità di sopravvivere...».
Luciana Lucci «... 45 mila lire al mese; si prendeva prima un acconto, poi il resto. Stavamo in affitto, appena sposata pagavo 10 mila lire al mese, e non era poco. Poi c'era la rata dei mobili, altre 10 mila lire, poi dovevi mangiare, c'erano questi due figli che mangiavano eccome!...».
Graziella Caprini «... Di stipendio prendevo poco, non mi ricordo quanto, ma i soldi erano tanto pochi (...) Ci stavano tante che si battevano perché lo stipendio era basso, ma niente...».
Alcune operaie per quattro soldi di premio di produzione lavoravano come matte.
Maria Petrocchi «... Si lavorava come bestie. Era quel premio che poi spingeva a fare di più. Io ho preso una volta 500 lire di premio di produzione, e basta. Non gliela facevo.
Agata Reginelli «... 1.000 lire, 500, ma neanche, e poi a chi gli pareva, era proprio un governo di mazzocchietto...».
Elide Giovannetti «... C'erano certe operaie che erano guaste. Lavoravano di più per guadagnare di più. S'erano attaccate al premio di produzione...».
Luciana Tarquini «... Le vecchie donne rispetto a noi avevano un problema: guardavano solo alla loro produzione, perché più facevano e più guadagnavano, oltre lo stipendio. Per esempio se dovevano fare 5.000 sacchi in otto ore, e ne riuscivano a fare 8.000, era tutto di guadagnato. Alcune di loro poverette mentre cucivano ogni tanto gli entrava un dito sotto l'ago, c'erano sempre problemi. Cucivano come matte, per prendere quei quattro soldi...».
1.5 La mano in mezzo al telaio
Frequentissimi erano gli incidenti sul lavoro. Dal Libro prima nota infortuni conservato presso l'Archivio di Stato di Terni, se ne rilevano ingenti quantità. Un solo esempio per l'anno 1959, ma per tutti gli anni era così: numero 564 infortuni sul totale.
Si tratta per la maggior parte di contusioni e distorsioni alle mani, alle braccia, ai piedi, di ferita da punta o da taglio alle mani riportate mentre le operaie attendono al loro lavoro al telaio, al filatoio, allo stiratoio, spesso nel tentativo di liberare la macchina da impurità, fili pendenti, grumi, o durante le operazioni di pulizia, manutenzione e riparazione. Naturalmente sul libro prima nota si descrive l'incidente così: «Inavvertitamente o inspiegabilmente si lasciava prendere...».
Luciana Tarquini «... I piccoli infortuni magari non si denunciavano, i grandi si perché andavano anche all'ospedale. Una sera una signora in cardatura c'ha lasciato tutto il braccio. Dovettero smontare la macchina. Una cosa orribile...».
Ivana Lunghi «... Una volta una era rimasta con la mano dentro, i macchinari gliel'hanno trinciata. Quattro ore ci sono volute, hanno dovuto smontare tutta la macchina. Era una macchina che girava la juta, levava le bucce, era la macchina più orrenda di tutte. Era il reparto dove si sceglieva e si puliva la juta. Gli incidenti non venivano denunciati, ma d'altra parte adesso che fanno? Ci stanno i ragazzi che vengono sfruttati, adesso non fa niente nessuno. Dicono che i giovani non hanno voglia di lavorare. Non è vero. Non vogliono essere sfruttati come noi...».
Graziella Zavarelli «... Mi sono presa la mano in mezzo ad un telaio. Ho ancora il segno delle forbici. Ho avuto una frattura e mi hanno messo anche i punti. Il telaio stava fermo, io non mi ero accorta che m'era caduta la pezza giù sopra la pedana, sono andata a mandare su la spola con le forbici, perché lì era tutto lavoro con le forbici, m'è partito il telaio e m'ha schiacciato la mano. Di incidenti ce n'erano diversi. Ogni tanto c'era qualcuna che ci lasciava qualche cosa...».
Graziella Caprini «... L'incidente che mi ricordo giù alla svolgitura, una ragazza portava un po' di capelli fuori dalla cuffia. La macchina gli ha preso i capelli su quelli affari che girano e viene su il cannello e qui davanti l'ha sbattuta addosso alla macchina. Erano macchine pericolose perché mentre lavoravano dovevi mettere le mani lì in mezzo. Per fortuna mi è andata sempre bene...».
Luciana Lucci «... Una volta mi sono presa una mano in mezzo ai telai. Mi era diventata come una pagnotta di pane, però non mi misi sotto infortunio perché non era tanto che lavoravo e allora mi dissero se ti è possibile lavorare, la direzione me lo disse...».
Ivana Lunghi «... I bagni erano schifosi. Ce n'erano due. La gente era tanta. C'erano i lavandini (...) Ti dovevi lavare perché quando finivi di lavorare non ti riconoscevi com'eri. Zozza, il grasso, la polvere, la polvere ce l'avevi dappertutto...».
Graziella Zavarelli «... I bagni erano quelli con la buca per terra che appoggiavi i piedi, passava il fiume sotto, l'acqua corrente...».
Graziella Caprini «... I servizi igienici erano schifosi. Era una cosa assurda. Io non ho mai visto una cosa del genere. Passava il fiume giù sotto. E poi eravamo tanto sporche. C'erano gli spogliatoi, era uno stanzone grande con in mezzo delle vasche dove ti potevi dare una sciacquata se volevi. Dall'altra parte c'era la doccia, però dovevi fare sempre una corsa a prenderla perché ce n'erano poche. Ti dovevi prenotare per fare la doccia, per l'acqua calda la sera alle dieci, perché a volte non c'era. Negli spogliatoi c'erano dei pomelli dove ci si attaccavano i panni, su ogni fila ce n'erano quattro. Ci spogliavamo quattro qui, quattro là, lì in mezzo c'erano come delle vaschette, ci passava un rubinetto ogni vaschetta, e ti lavavi lì. Giusto le mani, la faccia e una sciacquata ai piedi, perché erano sempre sporchi...».
Maria Petrocchi «... Certe docce! Innanzitutto l'acqua era quella di fiume, poi bisognava prenotarsi. Era tutta una corsa...».
Tra i documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Terni c'è una fitta corrispondenza tra Ispettorato del lavoro e direzione dello Jutificio che riguarda proprio l'igiene e la sicurezza degli impianti, la scarsa areazione, l'insufficiente illuminazione, l'inadeguatezza dei servizi igienico-sanitari, l'eccessiva umidità degli ambienti.
Alla fatica e all'ambiente malsano si aggiungeva la ferrea disciplina cui le operaie erano sottoposte.
Angela Locci «... Mica era un lavoro: domicilio coatto era. Quando venne l'ingegner Chiappero, era un dittatore. Faceva le scoperte, anche sopra il tetto andava. E vedevi che veniva lì, alto, con quella tuta; te licenziava, te metteva 'na multa perché tu può darsi mangiavi un pezzetto de pane (...) E insomma, mò è morto anche lui, però...»8..
Luciana Tarquini «... Durante l'orario di lavoro alcuni avevano problemi allo stomaco, stavano male, c'avevano fame. Venivano da tanto lontano, da dopo Spoleto magari, gente che s'alzava alle tre, tre e mezza della mattina, gli veniva fame. Se li vedevano mangiare erano multe salate, e poi mangiavano mentre lavoravano, tra la polvere, i pezzi della juta. C'era molta disciplina, non potevi parlare, durante il lavoro non si poteva comunicare, non si poteva fare comunella...».
Ivana Lunghi «... Non potevamo neanche andare al gabinetto, c'era il capoturno, quello gobbo, che quando ti vedeva qualcosa in tasca, per carità! Quando avevi le mestruazioni e ti andavi a cambiare, ah veniva là e voleva vedere quello che portavi. Eri guardata, c'era come una scala, e sopra ci stavano loro e da lì controllavano tutto. Tante volte il direttore mi sentiva masticare, anche una gomma potevi avere no? Passava vicino e diceva quella signorina sta sempre a masticare, mangia sempre, non si può mangiare. Io ero abituata a fare colazione, sennò mi girava la testa, con quel lavoro che facevo. E veniva là. E io, oh ma che vuoi? C'ho la gomma, che non posso masticare la gomma? (...) Ero magra, montavo sopra le macchine e dicevo: oh arriva, e allora tutte sull'attenti...».
Graziella Caprini «... Una volta ho preso una multa. Non stavo a parlare, stavo tra le due macchine mie, stavo sola, perché ogni filatrice aveva in dotazione due macchine, che erano lunghe. C'erano cento rocchetti ognuna, è passato il direttore, mi si è messo a guardare perché stavo senza fare niente, però il lavoro mio lo stavo svolgendo perché le macchine camminavano, e io non parlavo con nessuno, e mi mise la multa perché lui è passato e io stavo senza fare niente, a posto mio però. Cento lire di multa. Bel modo! Avevamo il capo reparto e il maestro, uno comandava di più, uno un pochino di meno. In più passava il direttore quando lo riteneva opportuno. Lo vedevi che ti spuntava da dietro la macchina. Questi metodi fino in ultimo, fino alla chiusura. Quell'altro direttore, Chiappero, gli aveva lasciato due cani lupo. Fino a che sono vissuti se li è portati a spasso lui dentro Centurini. Quando vedevi i cani potevi stare tranquilla che arrivava lui. Lui dietro e i cani davanti. Dopo non so che fine hanno fatto i cani, arrivava da solo, ti scappava fuori all'improvviso. Un direttore in quella maniera! Vivere dobbiamo vivere tutti, e quando tu stai a lavorare otto ore, devi stare sempre muta, sempre...».
Agata Reginelli «... Noi lavoravamo e zitte, se ti vedevano masticare anche le caramelle (...) Non potevi fare movimenti. Invece mo' leggono i giornali, mangiano, c'hanno la televisione piccolina, lì all'Acciaierie...».
Silvana Reginelli «... Quando c'era la mensa, a quell'ora trovavamo la fila perché eravamo tante. Per mangiare c'era un certo tempo e poi non più, ti dovevi alzare in fretta e tornare ai telai perché se tante volte fischiava la sirena e se tu non ti trovavi sul posto, ti toglievano mezz'ora. E allora cercavi di fare qualche corsetta. Ah beh! se ti vedevano! Io c'ho preso 500 lire di multa perché correvo, m'avevano dato una spinta. Solo perché correvo per andare ai telai...».
Maria Petrocchi «... Una volta ho preso una multa da un capo reparto. Perché? Partivo dalla cucitura e avevamo i bagni laggiù, si doveva attraversare un locale dove tagliavano la juta. Mi misi a parlare, ma un attimo, con quelli che stavano lavorando lì, in una stanza, ho chiesto non lo so di che cosa, è passato il capo reparto e mi mise la multa perché stavo parlando e perché perdevo tempo. Noi assolutamente non dovevamo parlare. Nel periodo in cui ho lavorato io era così. A me piaceva chiacchierare, ero giovane, c'erano quelle più vecchie simpatiche, si parlava. Quando vedevamo il capo reparto da lontano, via... Bocca cucita...».
Maddalena «... Te passava l'acqua calda che ammorbidiva questa canapa; me vado pe' scalla' le mano, pe' sfreddammele, perché lavoravo in tessitura e se non potevo leva' quelle foglioline sporche e li ricci, se strappava il filo e dovevi ferma' li telai. Io pe' sfreddamme le mano, s'accorge la polizia fascista me messe la multa da due lire, che se ne guadagnavano quattro, e più due giorni di sospensione. Questo l'hanno fatto a me, eh! L'hanno fatto a me. A me, e tante altre, poverette, che se veniva da lontano, infreddolite, per guadagna' quattro lire. Se sgarravi un tantinu, era la multa e la sospensione...»9.
Alla fatica, all'ambiente malsano, alla ferrea disciplina si aggiunge il giudizio di dubbia moralità che circola nell'opinione pubblica nei confronti delle donne dello Jutificio.
Maria Petrocchi «... Io mi ricordo che dire lavoro alla Centurini era come dire io faccio la vita. Eravamo considerate così. Tante volte viaggiando in treno anche con amici miei, le stesse persone con cui si viaggiava dicevano: ah! da Centurini, zitta va quello che capita (...) E parecchie volte mi sono trovata a dire: sapessi quant'è Centurini casa tua. Perché quello che succede dentro casa tua da Centurini non succede. Da dove scaturiva non lo so, è una cosa che si è sempre portata dietro. E comunque io penso che quando si tratta di una fabbrica dove lavorano le donne è così.
1 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
2 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
3 Da Le tessitore canzone scritta per le operaie dello Jutificio Centurini dal poeta e musicista dialettale Furio Miselli.
4 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
5 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
6 1958-1965, 16 voll.
7 Alberto Provantini da «Cronache umbre», settembre-dicembre 1967.
8 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
9 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
10 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
11 Le Tessitore, op. cit.
12 A. Portelli, Biografia di una città, op. cit.
2. le lotte, le illusioni, il ritorno a casa
Elsa Porrati «... Era una fabbrica sana che si è chiusa per ragioni che non so. Il bilancio di quell'anno (1970, nda) è stato di 27 milioni di deficit, senza una lira di debito con l'Inps, senza una lira di debito con l'Inail e con l'Inam (...) Era una società, ma con un proprietario unico. Finché c'è stato il vecchio proprietario, Volpi, se ne è interessato anche abbastanza. Il figlio non aveva nessun interesse a fare l'industriale, aveva tutte altre attività, e aveva detto che la fabbrica l'avrebbe tenuta in piedi finché non gli avesse dato nessuna noia. Però quelli sono stati anni di noie, perché sono stati anni di grandi capovolgimenti, anche la massa operaia non era più quella di una volta, giustamente. Lì sono cominciate seccature, nel 1969. Problemi di mercato ne avevamo moltissimi, i sacchi di juta non li adoperava più nessuno, in giro li si vedeva di polipropilene. Bisognava cercare altro mercato, tappeti, tappezzeria, roba del genere; altri clienti, era venuta a mancare la Linoleum,1 e non era una cosa che si poteva fare in un giorno (...) La fabbrica si poteva occupare altre 500 volte, ma se in quel momento non c'erano ordinazioni, e se bisognava fare una trasformazione, ci voleva del tempo. Era un problema di natura politica. Bastava che l'Anic ci avesse passato le ordinazioni per il polipropilene. L'Anic poteva diventare un grande cliente, ma l'Anic acquistava in Jugoslavia, in India, dove il prodotto costava di meno (...) Per conto mio c'è stata una grande incomprensione negli atteggiamenti, sia da parte del proprietario che da parte dei sindacati (...) Non avevano considerato che quello era uno stabilimento femminile, che doveva restare, anche perché era un'azienda sana che ha chiuso, dove le donne ci lavoravano e avrebbero continuato a lavorarci, mentre hanno mantenuto aziende decotte anche per dieci anni (...) Invece a Terni è mancata questa fabbrica, questa occupazione femminile. Non si è voluto trovare un accordo. Forse era molto meglio che si contrattasse meno con le autorità politiche e più con il proprietario. È stata una cosa tragica (...) Io l'ho presa molto male, ancora non me ne rendo conto (...) Quando hanno fatto qualche festa là dentro in pineta, non ci sono voluta tornare...».
Su un'area di circa un ettaro e mezzo si estende un bosco artificiale, una bella pineta a pino domestico composta da 440 alberi coetanei messi a dimora nel 1964. L'area è attualmente una specie di oasi per piante e animali. Un piccolo canale, il canale Nerino, che deriva dal non lontano fiume Serra divide i due settori inselvatichiti dall'ex Jutificio Centurini e dell'ex Lanificio Gruber.
Il Lanificio Gruber era nato nel 1846 come laboratorio di tessitura del cotone, poi trasformato in lanificio occupando più di 100 donne. Aveva chiuso verso la fine degli anni Trenta.
All'annuncio della messa in liquidazione dell'azienda, Commissione interna ed organizzazioni sindacali rispondono con la decisione di occupare la fabbrica. È il 15 luglio 1970. Tra le donne si diffonde prima la paura, poi la convinzione di dover lottare in prima persona.
Agata Reginelli «... Lavoravamo zitte e chiotte, io facevo il secondo turno; quando sono state le nove, le nove e mezza, ci hanno detto: ferma la macchina, ferma la macchina. Un silenzio, che s'erano fermati tutti quanti, sennò un rumore! (...) Dice: ci stanno giù al cancello quelli dell'acciaieria, hai capito quanto erano furbi? Perché volevano che avessimo scappate, a fare dimostrazioni. Mabbé di notte? Erano venuti giù no per comandarci ma come per aiutarci a questa protesta. Ci hanno detto quello che era successo. Una fifa ci si è messa addosso! Il giorno dopo siamo tornate a lavorare. Niente. Tutti sullo stradone, non si poteva entrare (...) Il padrone non c'era, stava in Svizzera. Io lo cedo aveva detto. Se lo prende la Commissione interna, gli operai, il Comune, io non voglio niente (...) Quando c'era l'occupazione c'erano quelli del Comune, della Regione, delle acciaierie, ci dicevano più o meno come dovevamo comportarci. Nove mesi siamo state là dentro...».
Maria Petrocchi «... La chiusura della fabbrica è stata una cosa dalla sera alla mattina. Uscii il giorno alle due, la mattina dopo andai al lavoro e trovai la fabbrica occupata. Fu una improvvisata. Mi ricordo il trauma, il primo impatto, eravamo tutte appoggiate chi da una parte, chi dall'altra, naturalmente piangevamo, eravamo preoccupate, perché eravamo quasi tutte capofamiglia, c'erano poche ragazze. Fu presa molto male (...) S'era istituito un comitato di agitazione ed io facevo parte di quel comitato. Quando è stata occupata la fabbrica dentro c'erano delle commesse di lavoro e perciò per noi era importante difendere queste cose perché si temeva magari un dispetto, qualsiasi cosa, e poi avevamo anche paura che di notte fossero partiti. Perciò facevamo i turni di giorno e di notte, c'era una sorveglianza continua, perché noi l'occupazione della fabbrica l'abbiamo fatta con criterio...».
Ivana Lunghi «... Ci siamo messi davanti i cancelli di fuori perché non potevamo entrare dentro la fabbrica. L'occupazione l'abbiamo fatta sull'entrata, dentro il cancello dove stavano i guardiani. Se succedeva qualche cosa la responsabilità era la nostra. Lì era tutta juta, se c'era qualcuno che gli girava e dava fuoco con un fiammifero (...) Si faceva a turno la notte, con l'acetilene, la pila, facevi tutto il giro dello stabilimento in tre o quattro (...) Eravamo tante quando è cominciata l'occupazione, poi qualcuna si è spostata, qualcuna è andata a lavorare fuori, mica potevamo stare lì dalla mattina alla sera, che mangiavamo? Anzi, abbiamo arricchito quelli che vendevano il filo a forza di fare l'uncinetto, le coperte, quegli intrugli, i maglioni...».
Alessandra Casciotta «... Durante l'occupazione la battaglia l'hanno condotta le donne, eccome! Facevamo i turni, partecipavamo a tutte le manifestazioni, ai cortei (...) Dentro la fabbrica venivano a parlare i sindacalisti, il sindaco, altri, davanti ai cancelli, tutti uomini...».
I discorsi di politici e sindacalisti non per tutte sono convincenti.
Elide Giovannetti «... Le chiacchiere tante, i fatti niente (...) L'occupazione l'abbiamo fatta per riaprire la fabbrica. Quelli della Commissione interna, quattro o cinque uomini, non potevamo scegliere quando c'erano le votazioni perché c'erano già i nomi scritti sulla scheda, che ci chiamavano all'assemblea, ci spiegavano che c'era la possibilità di tirare avanti altri cinque o sei anni, invece loro dicevano o si riapre per sempre o si chiude. Io invece dico che se tiravamo là altri pochi anni, io arrivavo a 35 anni lavorativi e prendevo un po' più di pensione. Adesso invece con 27 anni di lavoro prendo 680 mila lire al mese, compresa l'invalidità. Parlate coi capoccioni e fatevi spiegare perché hanno scelto così...».
Durante l'occupazione ci si pone il problema di tenere alta la tensione in fabbrica e di diffondere nella città le ragioni della lotta.
Mario Bartolini «... Mentre si teneva occupata la fabbrica, c'era il problema di non tenerli fermi, sia uomini che donne, e poi il problema di far vivere questa lotta all'esterno. Allora le iniziative che furono prese, in diversi momenti e di diverso tipo erano rivolte a portare queste lavoratrici nelle varie zone di Terni, Marmore, Collestatte, San Giovanni per un rapporto con la gente, in modo che la gente conoscesse questa lotta, e alimentasse anche la solidarietà. Devo dire che in questo lavoro di contatto con la gente la forza decisiva furono i gruppi di donne. Il contributo degli uomini fu inessenziale (...) L'occupazione ci pose anche momenti critici, di convivenza interna, tutto il giorno senza fare niente. E per quanto cercavamo di occupare tutte queste donne, vennero fuori anche dei casini...».
Luigi Nanni «... Gli uomini erano soliti fare battute perché quelle donne non stavano a casa. I problemi ci sono stati durante l'occupazione, i fastidi da parte degli uomini della fabbrica, il turno di notte, la scomodità, gli uomini facevano i galletti. Tutte cose che raccontano quelli dello Jutificio che sono venuti giù (alla Itres, nda)».
2.3
Forte e rabbiosa mobilitazione
È un susseguirsi di incontri, manifestazioni a Terni e a Roma in delegazione. Le donne sono sempre in prima fila, quasi sempre su iniziativa presa in accordo con le Organizzazioni sindacali, talvolta in evidente contrasto.
Valentina Crispoldi «... C'erano delle teste calde tra le donne, ma la loro situazione familiare era drammatica. I rappresentanti del sindacato frenavano: state calme, che fate, quando ad esempio si è parlato di occupazione della stazione...».
Maria Petrocchi «... Le manifestazioni le abbiamo organizzate sempre con i sindacati, ci siamo sempre mosse con loro. Certo, quando venivano su e si facevano discorsi, c'erano momenti di attrito (...) Noi avevamo la necessità che la cosa si fosse risolta al più presto. Quando si prendevano tempo e dicevano tra un mese, tra quindici giorni c'abbiamo quest'incontro, viene il tot ministro, noi non è che l'accettavamo di buon grado, perché naturalmente era in gioco il nostro posto di lavoro (...) In svariate manifestazioni dove noi, magari prese dalla rabbia, volevamo fare qualcosa in più, erano sempre loro che ci tiravano indietro e ci dicevano badate a quello che si fa perché qui magari ci ritroviamo in situazioni spiacevoli, che poi ci furono anche...».
Mario Bartolini «... Durante la lotta ci furono episodi che si possono inquadrare in una vivacità un po' particolare delle donne. Sono alcuni atteggiamenti assunti da gruppi di donne al di fuori delle direttive sindacali. Una volta quando facemmo un corteo che si concluse con una manifestazione in piazza Valnerina. Un'altra volta quando un gruppo di donne si presentò senza dire nulla ai sindacati, e non so dire quanto fu iniziativa autonoma delle donne, davanti alla Provincia con l'intenzione di andare a bloccare la stazione. Io per caso mi trovavo lì, me lo dissero, e spiegai che in quelle condizioni non era il caso, e che la lotta doveva rientrare nell'ambito dell'impostazione sindacale (...) Poi in una manifestazione a Roma si bloccò via Veneto e devo dire che con le donne facevamo fatica ad evitare storie...».
Pietro Fabris «... Come facevi a stemperare le ire di quelle donne? (...) Noi a volte non dico che facevamo i pompieri, ma cercavamo di far ragionare la gente, a dire che con la violenza si sarebbero aggravate le cose anziché ottenere un minimo di risultato. Erano un po' violente a livello verbale, qualcuna anche a livello fisico, ma mai nei confronti del sindacato...».
Nel corso della manifestazione del 15 dicembre 1970 si registra un episodio di violenza, di cui vengono considerate responsabili le donne dello Jutificio, in realtà completamente estranee al fatto.
Mario Bartolini «... L'unico episodio che si espresse con un atto di violenza fu durante un corteo. Sfasciarono un negozio sotto la galleria, ma fu accertato che alcune lavoratrici erano state strumentalizzate da alcune persone per problemi riferiti alla Domus Arredamenti...».
Maria Petrocchi «... Una volta hanno rotto le vetrine dei negozi. Sono stata una di quelle citate, sono stata in tribunale non una volta, ma per ben tre volte, ci sono stati tre processi. Il primo fu fatto a porte chiuse e lo accantonarono. In un secondo tempo ripresero fuori il fascicolo e fummo condannate a nove mesi di reclusione, più le spese processuali. Io, Clara Forti, una delle sorelle Giovannelli, ed altre. In questa manifestazione menarono a un poliziotto che fu ricoverato per parecchio. Facemmo subito ricorso in Assise a Perugia e da lì fummo scagionate per insufficienza di prove. Credo che sia intervenuto il sindacato. Tutto in una sola manifestazione è successo, era la manifestazione del 15 dicembre 1970, era una manifestazione generale di tutte le categorie. Non c'entravano nessun uomo e nessuna donna dello Jutificio. C'erano infiltrazioni di ragazzi fanatici, che andavano in giro addirittura con le spranghe, quello l'hanno fatto loro. La colpa è ricaduta su di noi, perché? Per loro era facilissimo far ricadere la colpa su di me perché per qualsiasi manifestazione che c'era, io ero la prima, con il primo striscione davanti. Mi conoscevano. Questo poliziotto mi conosceva benissimo...».
Agata Reginelli «... Lì, dove stava prima la Perugina, c'era uno della polizia, s'è intromesso, lì faceva un po' angolo. Le botte a quello! Mo' abita su vicino dalle parti mie, però non è che io gliel'ho date e che m'ha visto, m'ha riconosciuto. Però quando dopo m'ha visto, dice, oh per carità, non mi parlate di quelle di Centurini, dello Jutificio, m'hanno menato. E io zitta...».
Partecipazione calorosa ci fu, è vero.
Ivana Lunghi «... Quando si passava tanti negozi non chiudevano, come Superconti, come Upim, e a Superconti abbiamo scocciato giù la serranda. Perché Superconti e Upim mangiano con gli operai, le persone che possono vanno nelle boutiques. I negozianti dicevano non ce ne frega niente, può darsi che facevi la manifestazione e le macchine ti passavano davanti, ci stava quello che era un po' nervoso e gli dà qualche cazzotto. Sotto la galleria non mi ricordo bene come è stato. Stavamo a fare la manifestazione. Loro, la polizia, non volevano, questo gli rispose male, e allora gli diedero uno schiaffone, una spinta, il poliziotto non fece altro che sparare, io mi sdraiai per terra e la pallottola mi passò così. La colpa la scaricarono sulle donne dello Jutificio, e invece non eravamo state noi, erano queste donne che venivano dietro a noi. Presero qualcuna di noi a caso, la portarono in questura...».
Agata Reginelli «... Abbiamo fatto dimostrazioni, scioperi, i campanacci. Siamo entrate dentro Superconti, abbiamo tirato su la serranda, poi abbiamo buttato per aria i soldi, un casino...».
Silvana Reginelli «... Ho un quadruccio della manifestazione a Roma e dell'articolo sul giornale. Eravamo tre autobus. Per non far passare la gente m'ero messa seduta per terra, portavo i cartelloni, uno davanti e uno dietro, il campanaccio. Un carabiniere dietro voleva passare, ah no, dico io, c'è il corteo, e tu non passi. Gli ho messo la borsa là dietro e non lo feci passare. E il ministro mica ci ha ricevuto, neanche dalla finestra si sono affacciati. Dicevano che ci aiutavano, lo dicevano anche ai sindacati, e noi altre abbiamo fatto una grossa caciara per Roma, e basta...».
Maria Petrocchi «... Della manifestazione a Roma mi ricordo che eravamo tanto incavolate con Piccoli (ministro delle Partecipazioni statali, nda) che doveva riceverci e invece ci fece dire dal segretario del sottosegretario che non ci avrebbe ricevuto per motivi tecnici. E noi ci mettemmo a strillare buffone, sotto il Ministero, eravamo parecchie (...) Chiamavamo l'onorevole promessa sia lui che Micheli (segretario amministrativo della Democrazia cristiana e parlamentare umbro, nda). Ma era soprattutto con Piccoli che ce l'avevamo perché ogni volta che veniva a Terni diceva che innanzitutto dovevamo stare calme perché avrebbero fatto una fabbrica che avrebbe assorbito tutte le maestranze, cosa che invece non è stata...».
Luciana Tarquini «... Abbiamo occupato anche l'Ancifap, sempre noi donne. Le casinare. Ma difendevamo il nostro pane. Era tutta gente che aveva bisogno di lavorare. Ieri era la legge della sopravvivenza.
Ivana Lunghi «... Micheli dall'Ancifap per ottenere qualche cosa non l'abbiamo fatto uscire, un giorno e una notte. Dopo è uscito perché è arrivata la questura...».
Pietro Fabris «... In un'assemblea fatta all'Ancifap, mi misi tra una donna e Micheli perché questa sennò se lo mangiava. Siccome le Partecipazioni statali un giorno dicevano si, è fatta, il giorno dopo non succedeva niente (...) Si scagliavano contro lui, che stava lì in rappresentanza della Democrazia cristiana, l'onorevole promessa...».
2.4 La fine dell'occupazione. 15 maggio 1971
Dopo dieci mesi di occupazione, le organizzazioni sindacali, considerando probabilmente soddisfacenti le promesse strappate al ministro delle Partecipazioni statali, ovvero la costruzione di un nuovo stabilimento, l'avvio dei corsi di riqualificazione per il personale ex Jutificio, la concessione dell'indennità speciale di disoccupazione, decidono di cessare lo stato di agitazione.
Ivana Lunghi «... Abbiamo deciso di finire l'occupazione perché tanto sarebbe venuta la polizia a portarci fuori. E poi era già un anno che stavamo là dentro. La gente doveva mangiare. Come indennità prendevamo una stupidaggine proprio. La gente s'era cominciata a stufare perché se hai famiglia e gli devi dare da mangiare mica puoi stare lì dentro senza fare niente. Chi ti paga? Alcuni uomini se n'erano andati, altri erano rimasti. Le donne erano rimaste tutte, per forza. C'erano le vedove, parecchie, tante erano capofamiglia...».
Agata Reginelli «... È arrivato un sindacalista e ci ha detto è meglio andare via, che tanto questi qui (...) Non è che c'hanno convinto, c'hanno cominciato a dire che tanto anche se facevamo l'occupazione ormai era tutto nero, e poi la gente più passava il tempo e meno ce ne veniva, perché chi andava a fare servizio, chi a fare le pulizie, chi s'arrangiava, mano mano si sistemavano. Infatti ci venivano sempre di pomeriggio, perché la mattina andavano a lavorare...».
Luciana Tarquini «... L'occupazione è finita. Per il padrone era già deciso dall'inizio. Con l'occupazione c'era una piccola speranza che riapriva. Il padrone ha sostenuto la sua posizione fino in fondo. Per lui, diceva, era una rimessa...».
Intorno alle lotte delle centurinarie si sviluppa solidarietà nella città e da parte dei lavoratori delle altre fabbriche ternane. È solidarietà vera, sentita, o si tratta di solidarietà di opportunismo e di necessità? Le donne ne avvertono i limiti.
Luciana Tarquini «... Quando si andava a portare i volantini nelle varie fabbriche, la Polymer, le acciaierie, ci mettevamo lì davanti, e venivamo maltrattate, stimate molto male dagli uomini, che noi facevamo questo lavoro. Parolacce davanti ai cancelli delle altre fabbriche. Non credo che era una cosa bella (...) La solidarietà da parte delle altre donne, mah! La deprimenza maggiore, sia dentro Terni che a Roma, è che non abbiamo visto altra gente dietro di noi. Sostengo sempre che nelle fabbriche dove lavorano tutte donne, come il Lanificio Gruber che fece la stessa fine dello Jutificio vent'anni prima, poco dopo la guerra, le lotte furono dure come quelle di Centurini, ma nessuno ebbe pietà delle persone. Il rapporto con gli uomini là dentro era buono, c'era fratellanza. Tutt'altra cosa dei rapporti con quelli fuori, a cui non interessava niente di noi, perché le mogli loro stavano a casa serene, tranquille, il marito gli riportava a casa lo stipendio. Qualche donna si è accodata, qualche casalinga, ma perché era parente di qualcuna di noi. Non ho mai visto altre donne, non me le ricordo...».
Maria Petrocchi «... Questo non succedeva soltanto davanti alle fabbriche. Succedeva anche fuori perché noi tante volte ci siamo sentite dire parolacce mentre si tornava dai cortei o mentre facevamo i cortei. Però la solidarietà ce l'hanno dimostrata dandoci aiuti con i soldi. Le fabbriche hanno fatto lo sciopero di quattro ore, hanno collaborato, anche se non tutti, perché si sa, qualcuno neanche per il rinnovo del contratto di lavoro fa lo sciopero. Direi che c'è stata solidarietà effettiva, concreta. Anche il fatto che non tutti i negozi davano le diecimila lire, però maggiormente le davano. Se dovessi fare un bilancio, direi che è stato un bilancio positivo. Noi abbiamo fatto anche delle manifestazioni, dei cortei in silenzio, che forse sono stati i più significativi. Mi ricordo che le persone si affacciavano dalle finestre e piangevano. Perché questa cosa a Terni l'hanno sentita. Perché lo Jutificio è a Terni una delle fabbriche più vecchie se non la più vecchia in assoluto. Questo rappresentava un colpo grosso. E poi anche perché si diceva sempre se passa lo Jutificio, poi dopo tutte le altre fabbriche. E infatti è stato così...».
Elsa Porrati «... C'era solidarietà intorno a loro, anche perché la fabbrica aveva tradizione; chi non c'aveva lavorato, chi non aveva qualcuno che conosceva e che lavorava lì?...».
Gli uomini giudicano la solidarietà in modo più articolato.
Luigi Nanni «... Io ho partecipato alle manifestazioni dello Jutificio come movimento studentesco. Gli unici che hanno partecipato relativamente, considerato che a Terni non era ancora esploso, erano stati gli studenti. Scioperi di solidarietà da parte di altri sono stati proclamati, ma gente in piazza poca. Erano queste donne e sempre e solo queste donne. Erano combattive, non gli metteva paura niente...».
Mario Bartolini «... Nell'epoca moderna, dalla liberazione ad oggi, non per giudizio mio, ma di tutti quelli che hanno seguito il sindacato a Terni, una delle lotte, tranne la vicenda del '52/53 della Terni, di questa dimensione, che ha avuto più consenso popolare, è stata proprio quella dello Jutificio. Bisogna tener conto che la solidarietà produsse effetti concreti in soldi e gente, e ci permise di tenere in piedi la lotta, di continuare l'occupazione. Non ci fu lotta, quando c'erano scioperi, cortei, che non si abbassavano le saracinesche. Ora, se poi si approfondisce la situazione nel suo complesso, troveremo anche episodi di rigetto. A Marmore ci fu un uomo che le insultò persino. Non è che la solidarietà raggiunse vette stratosferiche, però noi giudicammo questo consenso popolare molto importante. Non ho conosciuto altre battaglie di una rilevanza cittadina come quella. Non so quante manifestazioni ci furono. Se vogliamo individuare un limite, perché lì si poteva e doveva fare di più, fu nella solidarietà da parte delle altre fabbriche. Questo è un punto che presenta vuoti, ma non perché non furono fatte delle cose, furono fatte sottoscrizioni, però bisogna dire che per la posta in gioco, tanto più che c'erano Jutificio e Papigno insieme, si sarebbe dovuto fare tanto altro...».
Pietro Fabris «... Tra i lavoratori la parte un po' più sensibile era solidale, perché si era convinti che quello era solo l'inizio. Uno dei discorsi che io facevo spesso, lo facevo anche dentro la Terni, era questo: state attenti a ritenervi in una botte di ferro. Segnali come questo se noi li lasciamo passare senza farci una battaglia intorno, hanno mano libera ad operare indiscriminatamente con le conseguenze che dopo sono facilmente immaginabili...».
La lotta, sostenuta per così lungo tempo, e che aveva fatto maturare nelle donne speranze di futuro, nonostante fossero forti lo scetticismo e la disillusione, ha esiti negativi. Le donne così li giudicano. Gli uomini e le organizzazioni sindacali maschili tranne qualche eccezione (anche nel periodo più caldo allo Jutificio non c'era alcuna donna come rappresentante sindacale, né alcuna donna faceva parte degli organismi dirigenti delle strutture provinciali del sindacato), considerano gli accordi conclusivi, invece, non solo dignitosi, ma addirittura buoni.
Elsa Porrati «... Lì dovevano trovare il modo che la fabbrica andasse avanti, poi se facevano il Tubificio questo e quest'altro, tanto meglio, erano più posti di lavoro per tutti. Però per le donne c'era quello di posto di lavoro. È stata considerata dai politici come fabbrica da terzo mondo, da Africa, cosa la teniamo in piedi a fare? Adesso bisogna guardare verso l'elettronica. Benissimo. Però questi sacchi servono sempre...».
Luciana Tarquini «... Oggi, dopo ventidue anni, potrei pensare che sia stato tutto un bluff. A quel tempo eravamo giovani, non eravamo informate. Però malgrado i sindacati abbiano bluffato, alcune cose le hanno mantenute: le persone che stavano vicino alla pensione potevano dare il posto al figlio o a qualche parente. Questo l'hanno mantenuto. E questo è importante, perché oggi non succede più neanche questo...».
Silvana Reginelli «... Può darsi che quelli del sindacato sapevano che fine facevamo. Ci dicevano: insistete, insistete. C'erano certi buffoni di corte tra quelli che venivano lì davanti...».
Alessandra Casciotta «... È finita che il Tubificio ha assunto tutti uomini, la Siemens qualche donna, ma la maggioranza sono andate tutte a casa. Per qualche caso particolare, chi con una figlia a carico, una in Provincia, qualcuna in Comune, qualche altra in ospedale, ma sempre perché qualcuno ci ha pensato...».
Maria Petrocchi «... È come se le donne avessero lottato per gli uomini, ma non so quanto loro potevano fare...».
Luigi Nanni «... All'inizio l'accordo Jutificio-Papigno è stato una vittoria, una vittoria delle donne. Poi la vittoria è stata gestita dagli uomini, dai vertici sindacali uomini, per estromettere le donne dalle posizioni che si erano conquistate. Tanto più che alla Itres e anche all'Iganto2 le donne potevano benissimo lavorare, non si trattava di andare davanti all'altoforno. Venti anni fa le donne erano occupate già nel settore manifatturiero. Le nostre fabbriche erano fabbriche manifatturiere. Non c'era quindi nessuna scusa politica, e l'esclusione è stata ancora più negativa...».
La crisi gravissima dell'economia ternana di quegli anni, la difesa di ragioni politiche e sindacali più generali, la resa di fronte al pretesto dell'impossibilità di dare soluzione al problema della manodopera femminile, per i sindacalisti protagonisti delle trattative costituiscono motivo di convergenza su un risultato esiguo ma certo, e certo solo per gli uomini.
Mario Bartolini «... Bisogna partire da una premessa. Lo Jutificio produceva la juta ad un costo che era il doppio di quello che si pagava importandola. Sicché sostenere fino in fondo la battaglia per mantenere in piedi quel tipo di produzione era estremamente difficile, difficilissimo. Peraltro, nonostante le nostre insistenze, del sindacato, delle forze politiche, del Comune di Terni, non si riuscì ad indicare una soluzione valida per una riconversione nel campo tessile. Si rischiava di continuare all'infinito l'occupazione della fabbrica e però con il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano. Allora ci si pose il problema di costruire comunque delle alternative, le migliori possibili in quella situazione , e questa esigenza per Terni si verificò nel momento in cui a livello dell'Eni, del sistema delle Partecipazioni statali, erano in discussione alcuni progetti di insediamenti industriali, che però non erano rivolti all'area di Terni. A questo punto che operazione fu portata avanti? Quella di porre al sistema delle Partecipazioni statali, quindi al ministro, il problema di valutare se alcuni di questi insediamenti industriali, attorno ai quali loro stavano lavorando, si potevano dirottare sull'area di Terni, come contropartita alla chiusura di Papigno, già stabilimento Eni, e dello Jutificio. L'Eni, quindi le Partecipazioni statali, il ministro, quindi il governo, avevano interesse a concludere rapidamente l'operazione, e allora visto che con alcune contropartite si poteva andare alla conclusione, accettarono l'idea di dirottare su Terni, o meglio su Narni, Nera Montoro, alcuni di questi insediamenti: l'Iganto, l'Itres, la Prodeco3 . C'era un problema perché se a Papigno l'occupazione femminile era pressoché zero, per lo Jutificio la maggior parte era costituita da donne. Noi lo ponemmo. Ma la trattativa nazionale perché si tenesse conto della specificità femminile ebbe esito negativo. Il problema venne affrontato in una riunione locale presso la prefettura. A quale determinazione si arrivò? Che da parte di alcuni soggetti, ospedale, enti locali, si sarebbe tenuto conto di questa realtà per facilitare l'assunzione di alcune donne dello Jutificio. E ci fu un gruppo di donne che poi trovò lavoro a seguito di questo impegno, una quantità forse stimabile intorno a trenta. Ora effettivamente le assunzioni in Comune, in Provincia, all'ospedale, non avvennero perché ci fu un accordo dettagliato, nel senso di dire l'accordo prevede che dieci saranno assunte all'ospedale, e l'assunzione avverrà con questi criteri. Questo no, non è stato. Allora i criteri seguiti quali sono stati? Furono quelli delle segnalazioni di Cgil, Cisl, Uil e dei partiti. Un casino incredibile. Le possibili assunzioni erano poche, le segnalazioni erano una caterva. Poi era difficile la scelta. E poi siccome alcune potevano, una parte ce l'aveva in corso, ottenere la pensione di invalidità, e in quel periodo intervenne l'accordo nazionale che decise la presenza dei sindacati nella gestione dell'Inps, fu detto: ci sono una serie di domande, altre domande le facciamo fare (...) Non è scritto da nessuna parte, però si convenne sempre in quella riunione in prefettura, che nelle commissioni provinciali che valutano le pratiche, non solo la rappresentanza sindacale ma anche quella dei datori di lavoro avrebbero facilitato l'accoglimento di queste domande di pensione, e devo dire che ne furono combinate, bisogna storicizzare il fatto, di cotte e di crude. Venne concessa la pensione di invalidità ad un bel gruppo di lavoratrici dello Jutificio che così rimasero a casa. C'era gente che cominciava ad avere una certa età, era gente che andava a lavorare in fabbrica, ma aveva anche dei carichi di lavoro in famiglia. Il fatto di ottenere la pensione di invalidità anche magari senza essere invalide, diciamo gli faceva gioco. Rimanevano a casa, un poco gli entrava...».
Pietro Fabris «... Si sono salvati un po' di posti di lavoro per gli uomini, per le donne impegni così (...) Siamo stati sempre a dichiarazioni di principio. Cominciavano allora i primi sintomi di femminismo, di questione femminile, per cui il sindacato non poteva far finta di sapere che non esisteva questo problema. Però ad essere onesti fino in fondo, sapevamo che le nuove industrie che venivano fatte in sostituzione di quelle che andavano a chiudere, presupponevano mano d'opera maschile e non femminile. E poi non è tanto questo perché poi bisogna andare a vedere le capocce degli industriali. Avendo una possibilità di scelta, l'industriale sceglie l'uomo. Abbiamo trovato parecchie resistenze soprattutto, e questo è tipico, nelle Partecipazioni statali. In particolare nell'Eni, che aveva dovuto subire dai politici l'imposizione di prendere il settore tessile e dell'abbigliamento. Non lo voleva, adesso l'ha sganciato completamente. Quando ci siamo messi a contrattare i posti, quando vedevano il nome di una donna, cancellavano. Dopo so che qualcuna è andata a lavorare alla Siemens...».
Secondo qualcuno, uomo ex dipendente dello Jutificio, il sindacato ha perso persino troppo tempo dietro l'obiettivo di conseguire un risultato positivo anche per le donne.
Giorgio Fioramonti «... A noi uomini il sindacato ci ha rovinato. Per la manodopera femminile l'ambiente non c'era, non c'è a Terni. A noi c'era la possibilità di inserirci qui a Terni, alla Neofil, dove ne dovevano assumere 30-40, alla Polymer, alla Terninoss che stava all'inizio e assumeva. Per noi c'era la possibilità. Però il sindacato diceva: no, se noi togliamo gli uomini, addio per le donne. Dopo che è successo? Che noi siamo andati a sbattere laggiù a Nera Montoro, e le donne, tanto le donne dove le mettevano? Non ci stavano gli stabilimenti per inserire le donne. Eccole qua che fine hanno fatto. Abbiamo perso due anni...».
L'accordo per l'assunzione di settanta uomini presso la società Itres fu gestito in maniera a dir poco discutibile.
Luigi Nanni «... Avevano l'impegno per settanta persone. Alcuni sono stati passaggi diretti subito dallo Jutificio all'Itres, alcuni sono passati per altri canali, non lo so perché, forse perché familiari, altri per il sindacato. Significa che il sindacato si è preso una quota in cui ci ha messo chi gli pareva. Faceva parte dell'accordo. Il sindacato ne ha avuti una ventina, divisi in proporzione tra Cgil, Cisl e Uil. La scusa ufficiale non poteva essere questa. Noi siamo entrati ufficialmente al posto di quelli che avevano trovato un'occupazione e lasciavano il posto che gli spettava a nostro favore. Cioè una ventina dal momento dell'occupazione dello Jutificio aveva trovato lavoro, e avevano abdicato diciamo, avevano indicato come sostituzione dei nomi in bianco, poi sono stati messi i nomi. Io sono entrato perché la Cgil ha fatto il nome mio. Sono entrato subito tra questi settanta, la fabbrica non era ancora aperta. Siamo stati assunti e messi subito in Cassa integrazione...».
Gli occupati della società Itres erano allora più di 200, poi scesi a 126 quando l'Enichem ha ceduto la fabbrica a privati. Dalla vecchia Itres sono sorte due nuove società. La nuova Fibres produce tubi in Pvc, con 36 dipendenti ufficiali; in realtà sono solo 26 e per 7-8 mesi l'anno. Gli altri mesi si trovano in Cassa integrazione. La Carbolux, 50 dipendenti, mediamente 3-4 mesi l'anno di Cassa integrazione, produce lastre di policarbonato.
Di quello che avrebbero fatto le donne ex dipendenti dello Jutificio nessuno più si preoccupò, ad eccezione delle raccomandate dai sindacati o da singole influenti persone. Le altre, quando trovano lavoro, e sono pochissime, ci riescono per proprio conto.
Ivana Lunghi «... E adesso invece le donne dove stanno, dove lavorano?...».
Luciana Tarquini «... All'ospedale siamo una decina, ma ognuna è entrata per i fatti suoi. Io sono entrata cinque anni dopo che ha chiuso Centurini, ad esempio, e non è che ha influito il fatto che io avessi lavorato lì. Credo che non sia importato niente a nessuno, nel senso che la chiusura della fabbrica è stato un capitolo chiuso. Prima di trovare lavoro all'ospedale ho lavorato saltuariamente, sotto banco. Io credevo che il posto mi spettasse di diritto anche perché sono una ragazza madre. Andavo a lavare i panni, a fare le pulizie, ma io volevo un posto fisso. Un dottore che lavorava all'ospedale mi ha dato una mano. Sono entrata come inserviente nel '75 e continuo a fare l'inserviente. Ho provato a studiare all'Itis, la terza media già ce l'avevo. Però non gliel'ho fatta perché studiare e lavorare è pesante con un figlio a carico, è pesante, perché poi non è tanto lo studiare, è il figlio che ti dà pensiero. Non ti puoi mettere sopra i libri pensando al figlio. Oggi ha ventotto anni, si è sposato, ha una bambina. Sono molto contenta...».
Ivana Lunghi «... Sono stata da Pazzaglia4 qualche tempo, poi sono andata alla Siemens. Era morto mio padre da 2-3 mesi, avevo conoscenze, ho fatto domanda e sono stata assunta. Sono diciotto anni che lavoro lì e sto ancora al terzo livello, e ci sono quelle che non fanno niente e stanno al quinto livello, perché c'hanno le spinte, s'arruffianano. Io non lo faccio. Faccio sempre i turni. Sto al reparto trance. Mi ci sono presa un dito, me l'hanno ricostruito. Metti sotto il macchinario, spingi il pulsante, viene giù la trancia, taglia, buca, la macchina non era messa bene, io avevo già avvertito tre o quattro volte che la macchina non andava bene. Sto a cottimo anche lì, faccio 60-70 pezzi l'ora, devi fare tanto al giorno. Io glielo dico a mio figlio: studia, studia. Dentro lo stabilimento o fai quello, o fai quello...».
Graziella Zavarelli «... Dopo non ho più lavorato. Ho lavorato fino a venticinque anni. Sono andata come collaboratrice domestica per continuare le marchette, perché così il giorno che uno arriva ad una certa età ce l'ha la pensione. L'ho cercato ma non ho trovato nient'altro...».
Graziella Caprini «... Sui posti così non ho più provato a cercare lavoro. Dopo che sono stata licenziata lì, avevo già una figlia piccola, ho avuto un altro figlio. E allora con due figli piccoli...».
Agata Reginelli «... Ha trovato lavoro solo chi c'ha avuto uno zampatone...».
Silvana Reginelli «... Io per esempio a quel tempo non avevo marito, era andato via dieci anni prima, avevo due figli piccoli. Fortuna che ho trovato lavoro in una trattoria, ancora ci sto da allora, come cuoca. M'ha preso i primi quattro mesi a quattro ore, in mancanza d'altro, dopo piano piano, m'hanno preso a tutta la giornata. Sennò era un casino...».
Luciana Lucci «... Dopo licenziata, e dopo che i bambini sono diventati grandini, mi sono sempre arrangiata, però non sono mai stata assunta regolarmente, ho lavorato come domestica...».
Maria Petrocchi «... Io non ho finito di fare i corsi all'Ancifap perché mi hanno chiamato all'ospedale. Se sto in ospedale non è per merito di nessuno, ci sono entrata io per conoscenze mie. Tanto è vero che Bartolini quando io dissi: da domani lascio perché ho la lettera di assunzione in ospedale per due mesi, mi disse: Maria che fai? Vai all'ospedale per due mesi soli? E poi dopo? Lo sai che quando apre la Siemens tu sei la prima che entri. Io ho risposto: senti Mario tu puoi anche aspettare, io non posso aspettare più perché per me il lavoro è indispensabile, non ce la faccio più. Io non sono stata di quelle che durante l'occupazione faceva il mezzo servizio come tante. Io sono stata sempre presente. Ma comunque stai attenta, mi disse, ti potresti pentire. Non m'interessa, ho risposto, io vado in ospedale. Ed è andata bene così. Non mi hanno aiutata in nessun modo, anche se poi tante volte mi sono sentita dire da altre persone che lavoravano con me: certo tu ci sei entrata, sì, se non c'entravi tu chi ci entrava? Ci credo, ti hanno aiutata. E invece no non è assolutamente vero...».
Elsa Porrati «... Io non ho più lavorato, sono stata mantenuta in servizio fino al 1975, perché amministrativamente c'era bisogno. Ci hanno pregati di restare, a me l'Associazione industriali aveva già trovato un altro posto. Qualcuna la vedo fuori, a lavorare, hanno lavori migliori di quelli che facevano là dentro, e comunque sono delle privilegiate...».
Valentina Crispoldi «... Le donne si sono dovute arrangiare, chi con tutte le spinte, con i sindacati. Dopo la chiusura io ho fatto solo lavoro nero, ho fatto domanda all'ospedale ma niente, altre sì...».
Nel 1975 in provincia di Terni c'è una massiccia presenza di industria pesante metalmeccanica e chimica, che privilegia ampiamente la manodopera maschile. Le donne occupate nella industria sono il 9% contro il 42% della provincia di Perugia (dove invece forte è la presenza dell'industria leggera, abbigliamento, tessile, alimentare).
C'è a Terni una forte offerta di lavoro a causa della cessazione dell'attività dello Jutificio, per la crisi dell'agricoltura e la conseguente espulsione delle donne dai campi, per la crisi delle piccole fabbriche operaie tessili: San Martino, le Confezioni Augusta, la Lebole di Orvieto, le Manifatture Amerine e altre aziende artigiane.
Grave anche la situazione delle giovani in cerca di prima
occupazione: centinaia di diplomate e laureate sono iscritte nelle graduatorie
per le supplenze nelle scuole, migliaia sono le partecipanti ai concorsi (a
quello comunale per alcuni posti nella scuola materna hanno partecipato 500
candidate; all'ospedale per 5 posti 800 domande di donne; al concorso magistrale
per 40 posti 1.047 concorrenti).
Durante l'esperienza in fabbrica e nel corso delle lotte per la difesa del posto di lavoro, le donne instaurano con il sindacato di uomini un rapporto di fiducia e di delega, pur essendo consapevoli del limite di quella rappresentanza. In futuro quel rapporto si deteriorerà.
Luciana Tarquini «... Sono stata iscritta al sindacato fino a sei anni fa, poi mi sono cancellata, non per i soldi ma perché ci sono stati alcuni disguidi. Da Centurini ero iscritta. Te la obbligavano la tessera. Dovevi essere iscritta altrimenti non eri ben vista dal sindacato dentro la fabbrica. Dicevano che ti sostenevano, tutte queste cose, invece non era vero. Allora un anno, nel 1966, tutti quanti volevano la tessera, si pagava mille lire, tutti e quattro i sindacati la volevano. Io che ho fatto? Le feci tutte e quattro e poi le sventagliai tutte insieme...».
Ivana Lunghi «... Qualche volta il sindacato gli interessi nostri li faceva, però prima non era come adesso, il padrone era padrone, se non ti andava bene quella era la porta, la maniera la trovavano per mandarti via. Adesso i sindacalisti pensano soltanto per loro. Giù da noi alla Italtel (ex Siemens, nda) io sono quindici anni che mi sono cancellata dal sindacato e non lo voglio. Adesso stanno facendo del tutto. Ce n'è uno che gli servono dei punteggi per diventare assessore, per diventare non lo so che nel posto dove abita lui, mi sta facendo una jella da poco! Dai, magari cinque o sei mesi, poi dopo ti togli. No. Io non ti faccio niente, tu non hai fatto niente per me, io non faccio niente per te...».
Maria Petrocchi «... Io in quel periodo avevo fiducia nel sindacato, ci credevo, adesso no, assolutamente. Noi avevamo la gestione delle cose allo Jutificio, e si facevano con coscienza, anche quando si dovevano dividere i soldi. Vedevo come agivamo noi, io, in buona fede. Ero convinta, mi sembravano persone di grandissimo rispetto, molto valide. Mi hanno tante volte proposto di far parte della Commissione interna. Ho sempre pensato che se devo fare una cosa, o la faccio bene o non la faccio per niente. Per gli uomini è più facile perché un uomo intanto ha una maggiore disponibilità di tempo, e poi lo fanno anche così, per passare il tempo, senza troppo impegno. Invece per me era una cosa importante. Visto che tempo non ne avevo, ho sempre rinunciato. Me l'hanno chiesto anche quando sono entrata in ospedale. Adesso mi è più facile dire di no perché non ho più la fiducia che avevo prima. Per me fare attività sindacale significa fare attività per gli altri, non per aggiustarmi e poi (...) Invece come stanno facendo adesso in ospedale, purtroppo è solo per scopo personale. Però da Centurini anche se non facevamo parte della Commissione interna, c'era comunque fiducia in noi. C'era anche Adua Gili, lei era una maestra di lavoro. Quando si dovevano prendere delle decisioni, ci concordavamo, si parlava, si cercava...».
Luciana Tarquini «... C'erano tante donne che erano molto valide a quei tempi come oggi, però la mentalità di allora era diversa. Magari si dava più fiducia ad un uomo che ad una donna, ma non per questo la donna non era valida. Anzi...».
Donne e fanciulle di campagna, ragazze madri, attratte dalla sicurezza che il lavoro alla fabbrica della juta offre, sopportano fatica, insalubrità degli ambienti, il rischio continuo di infilarsi le mani sotto il telaio, uno stipendio da fame. Sopportano con grande dignità, e a dispetto di giudizi non certo lusinghieri che circolano nei loro confronti, fiere e compatte, spesso amiche.
Sono combattive e forti, realiste, per niente disposte alla mediazione, sempre in prima fila nei momenti di lotta. E pur tuttavia poco inclini ad accettare incarichi e funzioni di rappresentanza ufficiale ed esterna, politica e sindacale.
È questa assenza da sedi e poteri tradizionalmente maschili, il sindacato, le istituzioni locali, i partiti, che ha favorito la soluzione della crisi dello Jutificio più fedele e funzionale all'indiscutibile primato delle industrie siderurgica e chimica, che hanno forgiato la città e l'intera provincia, e ne hanno condizionato lo sviluppo?
È un condizionamento che ha costituito un limite alla ricerca di nuovi percorsi, più dinamici, diversificati, e soprattutto più rispettosi della natura e qualità dell'offerta di lavoro.
Così, con i sacchi di juta diventati prodotto difficilissimo da vendere, le donne materiale umano difficilissimo da utilizzare o da riconvertire, la soluzione più facile non poteva che essere la cancellazione della fabbrica, la mobilità (parola nuova, certo) per gli uomini, la fine dell'esperienza del lavoro per quasi tutte le donne.
Il lavoro di una donna è stato giudicato meno importante di quello di un uomo. La mobilità di 52 maschi dallo Jutificio al Tubificio Itres è una vittoria.
Il ritorno a casa di 250 donne non è una sconfitta, ma semplicemente l'inevitabile scotto da pagare.
Quelle donne tornate a casa, quella miscela strana di ribellione e di accettazione, sono il vero patrimonio andato disperso.
Un nucleo femminile di classe operaia ternana da allora non è più esistito. Di questa assenza sono segnate le iniziative, le battaglie, la storia più recente del movimento operaio e delle sue organizzazioni sindacali.
— Archivio di Stato di Terni
— Archivio storico della Camera del lavoro di Terni
— B. Antonelli, Il rapporto donna-macchina. Silenzio e voci delle Centurinarie, in «Indagini» n. 42/88
— L. Florà, Il lavoro femminile allo Jutificio Centurini, in «Indagini» n. 16/82
— G. Gallo, Organizzazione del lavoro e condizione operaia a Terni alla metà degli anni 50, in «Segno critico», Anno I, n. 1, marzo-giugno 1979
— G. Giani, Donne e vita di fabbrica a Terni, Sigla tre, 1985
— Manuali per il territorio. Terni, 2 Voll. Edindustria Roma, 1980
— M.L. Porcaro, Operaie ribelli e chiassose: le Centurinarie, in Storia d'Italia. Le Regioni. Dall'Unità ad oggi, Einaudi, 1989
— A. Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Einaudi, 1985
— G. Procacci, Storia degli Italiani, Laterza, 1968
— A. Provantini, Quei 9 mila giorni, a cura di S. Mazzilli, Ed. Thyrus, 1984
— C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia, Ed. Riuniti, 1978
— C.E. Rosenberg, La famiglia nella storia, Einaudi 1979
Le notizie qui contenute riguardano solo le persone intervistate
e direttamente citate nel testo. Al nome segue l'indicazione della data di
nascita, la principale attività professionale svolta nell'arco della vita e, se
diversa, quella svolta al momento dell'intervista.
— Mario Bartolini (1930), segretario provinciale Cgil, ex parlamentare Pci, presidente provinciale Rifondazione comunista.
— Graziella Caprini (1944), operaia Jutificio reparto filatura.
— Alessandra Casciotta (1925), operaia Jutificio reparto filatura.
— Valentina Crispoldi (1947), operaia Jutificio reparto tessitura.
— Pietro Fabris (1938), dirigente sindacale Cisl, funzionario della Regione Umbria.
— Giorgio Fioramonti (1941), operaio Jutificio, Itres, poi Terni Industrie chimiche.
— Elide Giovannetti (1926), operaia Jutificio.
— Anna Lizzi (1931), responsabile Commissione femminile Federazione comunista di Terni, membro della Commissione regionale di garanzia e del Comitato federale del Pds.
— Luciana Lucci (1945), operaia Jutificio, reparto tessitura.
— Ivana Lunghi (1944), operaia Jutificio, reparto filatura.
— Luigi Nanni (1948), militante Fgci, operaio Itres.
— Maria Petrocchi (1938), operaia Jutificio reparto cucitura poi filatura, dipendente ospedale di Terni.
— Elsa Porrati (1922), impiegata poi capo del personale dello Jutificio.
— Agata Reginelli (1922), operaia Jutificio, reparto filatura.
— Silvana Reginelli (1924), operaia Jutificio, reparto tessitura, cuoca trattoria «da Armando» di Terni.
— Oresta Sabatini (1931), operaia Jutificio, reparto tessitura.
— Luciana Tarquini (1944), operaia Jutificio, reparto cucitura, dipendente ospedale di Terni.
— Graziella Zavarelli (1945), operaia Jutificio, reparto tessitura.
1 Fabbrica di pavimenti resilienti sorta a Narni Scalo, a 13 km da Terni, nel 1898.
2 Fabbrica per la produzione di tessuto microfibroso artificiale, poi Alcantara.
3 Piccola azienda del Gruppo Enichem, successivamente venduta ad un privato. Produce prodotti chimici per il disinquinamento delle acque.