1° maggio in Palestina.

A cura di Alessandra Mecozzi

 

Una delegazione italo-franco-greca si è recata in Palestina dal 30 aprile al 4 maggio. Ne facevano parte, oltre alla sottoscritta, Roberto Giudici della Fiom di Milano, Sergio Bassoli di Progetto Sviluppo Cgil e presidente della piattaforma italiana delle Ong per il Medio oriente, Anna Bucca dell’Arci, Bruna Orlandi, fotografa, Bruno Dalberto della CGT Francia e Yannis Almpanis, del Comitato di solidarietà con i rifugiati, Grecia. Abbiamo effettuato numerosi incontri e partecipato a manifestazioni, in occasione del 1° maggio. Era nostra intenzione anche recarci a Gaza, ma non è stato possibile entrare (una recente disposizione chiude il valico di Eretz, in entrata ed uscita, dal venerdì  alla domenica mattina).

 

30 aprile: incontri con Console italiano, OCHA e UNRWA

Il primo giorno abbiamo incontrato il nuovo Console generale d’Italia a Gerusalemme, dott. Pezzotti, che ci ha parlato della gravità politica e sociale della situazione sia in Cisgiordania, che a Gerusalemme e a Gaza, illustrandoci gli sforzi dell’Italia e della cooperazione italiana per alleviare, sia in Cisgiordania che a Gaza, le sofferenze della popolazione.

Abbiamo poi incontrato e ascoltato rappresentanti dell’UNRWA (agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) e dell’OCHA (agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari).

Nel primo caso ci è stata esposta la situazione pressoché catastrofica di Gaza – impossibilità di movimento di persone e merci, mancanza di carburante e elettricità, con pesanti conseguenze sugli ospedali, mancanza di acqua,…- in cui la stessa UNRWA non è più in grado di spostarsi per riuscire a coprire il fabbisogno degli aiuti alimentari (l’80% delle famiglie dipende da essi!).

La rappresentante dell’OCHA ci ha rappresentato la situazione della Cisgiordania, il suo strangolamento attraverso check points, blocchi stradali, ostruzione dei passaggi da un villaggio all’altro, oltre al reticolo di autostrade accessibili solo a coloni israeliani e proibite ai palestinesi, che rendono la vita quotidiana quasi impossibile. Le mappe e i bollettini che pubblicano periodicamente sono estremamente precisi e istruttivi (www.ochaopt.org ; www.un.org/unrwa ).

 

1° maggio: manifestazione del PGFTU a Ramallah, incontri con Barghouti, Jarrar e Addameer

Il 1° maggio abbiamo partecipato alla manifestazione indetta dal sindacato palestinese PGFTU (mentre ci è stato detto essere in corso di svolgimento altre due di diversi sindacati). Abbiamo portato un saluto a nome della delegazione (Bassoli) e il Segretario generale del Pgftu Shaher Saed ha illustrato ai parlamentari presenti (tra cui Mustafa Barghouti) un documento contenente le richieste sindacali. La partecipazione, rispetto ad anni precedenti era inferiore: alcune centinaia di persone.

Abbiamo successivamente incontrato nella sede del Medical Relief Mustapha Barghouti, insieme al coordinatore delle Ong palestinesi (www.pngo.net ) Jarrar, con cui abbiamo avuto un lungo ed estremamente interessante colloquio. Come sempre Barghouti si rivela uno dei dirigenti più lucidi e di grande impegno.

La sua analisi della situazione è netta e impietosa: “Non c’è nessun effettivo negoziato, e come potrebbe esserci? adesso offrono il muro come confine e propongono di costruire tunnels e ponti per collegare i palestinesi tra di loro; il Pil pro capite degli israeliani è di 24.500 dollari annui; quello palestinese, di 800. E dobbiamo acquistare i prodotti ai prezzi di mercato israeliani; i coloni hanno acqua 45 volte in più dei palestinesi. Non si può più non parlare di apartheid!

Come agire? Io vedo quattro modalità e direttrici: resistenza popolare non violente; campagna internazionale contro l’apartheid; aiutare i palestinesi a sopravvivere; ricostruire l’unità palestinese.

Anche Jarrar è molto amaro, e dà un giudizio pesantissimo sulla situazione politica, senza risolvere la quale – dice – è difficilmente pensabile una ripresa della economia. Di fatto ci sono due Governi illegali (Hamas in Gaza, e Fatah in Cisgiordania). Il Presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non gode della fiducia di molta parte della popolazione, perché non è in grado di portare risultati.

C’è totale assenza di vita parlamentare. “Ciò che possiamo fare noi, come società civile, è il monitoraggio sui diritti e le libertà individuali, che vengono attaccati da entrambi i Governi. C’è un attacco alle Ong da parte degli Israeliani, ma anche da parte del Governo palestinese (che ne ha chiuse 150, accusate di essere vicine ad Hamas). La sicurezza assorbe una spesa pubblica del 35% mentre quella della salute è l’8%! Sta avvenendo ciò che vuole Israele, l’uccisione della democrazia.

In Gaza sappiamo di arresti e torture, i gruppi per i diritti umani hanno denunciato anche il Governo di Hamas. Dentro Hamas ci sono diverse tendenze: patriottica, pragmatica, fondamentalista. Ma adesso riescono a decidere compatti, dato l’assedio e le condizioni della popolazione.

Bisognerebbe invece tentare di isolare gli estremisti e collegare con gli altri la parte di Fatah non corrotta. E ci sono troppe pressioni esterne da tutte le parti, da un lato Usa, Israele e altri paesi arabi; dall’altro Iran, Siria, Hezbollah.

“Ma, riprende Barghouti, per la democrazia è essenziale l’indipendenza e non mandare a fare i negoziatori i politici notoriamente corrotti. Sentiamo purtroppo il silenzio della Comunità internazionale, ma anche la società civile internazionale è debole.

Annapolis non vuol dire niente, è una finzione: dopo Annapolis c’è stata una ulteriore e rapida estensione delle colonie israeliane! Ci sarebbe bisogno di una forte opposizione alla politica israeliana, sulle violazioni dei diritti umani e sull’apartheid, ma la comunità internazionale non è neanche stata in grado di sostenere il Governo di unità nazionale che si era formato dopo le elezioni che avevano dato la maggioranza ad Hamas.

Ben 10 paesi europei ci avevano promesso il sostegno, ma si sono eclissati, ed è rimasto il solo Governo della Norvegia (fuori della Unione Europea, n.d.r.) a riconoscere il Governo di unità nazionale palestinese. In alcuni paesi arabi (in Egitto, in Marocco, in Siria…) c’è solidarietà popolare con i palestinesi, che viene spesso repressa dai regimi al potere (in Egitto un calciatore è stato punito perché ha mostrato una maglietta con uno slogan contro l’assedio di Gaza).

Israele vorrebbe un Governo palestinese “collaboratore”dell’occupazione, (come quello di Vichy!) ma non può ottenerlo.”

 

Addameer ( “Coscienza”,Associazione per i prigionieri politici, Ramallah)

www.addameer.org

 

Si occupa dei prigionieri politici, delle loro condizioni, del patrocinio (gratuito) nei processi, di visitare le carceri e aiutare le famiglie a poter visitare i propri parenti. Non si occupano di raccolta e distribuzione fondi alle famiglie, che lasciano al rapporto diretto di eventuali associazioni o singoli che vogliano farlo, con le famiglie stesse.

Il quadro della situazione: dal 1967 700.000 palestinesi sono stati arrestati e detenuti, per periodi più o meno lunghi, nelle carceri israeliane. Vuol dire che il 60% della popolazione maschile ha avuto l’esperienza del carcere.

15 ci sono da più di 25 anni. 50 da più di 20. Gli arresti sono in genere “politici”, uno strumento della politica di occupazione per scoraggiare la resistenza. Spesso non hanno motivazioni, basta un ordine militare (ce ensono 1500!) per mettere fuori lege una associazione e arrestarne gli attivisti. Tutte le manifestazioni sono considerate illegali e possono arrestare in qualsiasi momento, anche nell’area A (quella sotto controllo del’ANP). Ci sono torture fisiche e psicologiche, possono proibire la visita dell’avvocato e anche quella dei familiari. La nostra associazione può fare visite ai prigionieri, ma non può visitare le carceri (in Gaza si può): sappiamo di torture dappertutto. 

I parlamentari devono prendere accordi per poter entrare, altrimenti solo la Croce rossa può farlo, che è l’unica a poter veicolare lettere. Telefoni proibiti. Ma nessuno scrive perché il contenuto viene sempre letto dagli israeliani, ed usato per fare pressione. Anche una lettera d’amore della moglie al marito prigioniero può essere usata, impedendo alla moglie di vederlo.

Le visite sono una volta al mese, ma non tutti sono autorizzati: per la maggior parte autorizzano parenti sotto i 15 anni e sopra i 45 anni. Devono tutti andare con pullmans della Croce Rossa e sottostare a check points e perquisizioni, all’entrata e all’uscita. Quando riescono ad arrivare, dopo una lunga attesa, possono scoprire che il prigioniero è stato spostato in un altro carcere e deve essere ricominciata da capo la trafila per la visita.

C’è una prigione segreta, la 1391, che nessuno sa dove sia. Si sa che è un centro per gli interrogatori che vengono condotti con violenze fisiche e psicologiche.

Tra i mezzi di pressione e “punizione” oltre alla pena da scontare, possono esserci arresti di familiari, demolizione di case. Di tutti i prigionieri solo un 5% ha maneggiato un’arma, gli altri sono “militanti”, o addirittura ragazzi che hanno partecipato a qualche manifestazione “dove sono stati tirati sassi”.

Di tutti i prigionieri politici noi copriamo un terzo, un altro terzo viene coperto da una Associazione Governativa (Prisoners club) che fa capo a Fatah, e un altro ancora da Hamas. Ci occupiamo di tutti indipendentemente dalla appartenenza politica. Non riconosciamo come prigionieri politici i collaborazionisti, ma riteniamo anch’essi vittime della violenza di Israele (l’argomento è un tabù sociale, a cominciare dalle stesse famiglie). Ci occupiamo della difesa dei loro diritti umani. Siamo totalmente contrari alla pena di morte, per tutti.

Un problema molto grave, e in crescita, è il traffico di armi, armi leggere in modo particolare. Molte vengono da Israele, e alcuni trafficanti sono stati scoperti. Perfino un israeliano che costruiva bombe da vendere a 1000 euro per attacchi suicidi! Un caso clamoroso è uscito anche sui giornali: uno grosso stock di armi era stato trafugato da militari (poi arrestati) per consegnarlo a un trafficante israeliano e si è scoperto che gli acquirenti erano della Jihad islamica!

 

2 maggio: Manifestazione contro il muro a Al Massara

Il 2 maggio partecipiamo in un villaggio – Al Massara – vicino a Betlemme ad una manifestazione contro il muro: ci sono numerosi abitanti del villaggio, ma l’esercito blocca la strada con filo spinato parecchio prima di arrivare al muro. La manifestazione è pacifica, animata in modo particolare dalle parole che una donna, con la foto in mano di suo figlio prigioniero, grida ai soldati. Suo marito è stato ucciso. C’è un sit-in e poi arriverà Barghouti anche lì, per un breve comizio, in cui la solidarietà per la nostra delegazione è espressa da  Roberto Giudici e poi dalla sottoscritta,  nella successiva riunione nel Consiglio municipale.

Sono molto contenti della presenza internazionale e ci raccontano di come stanno organizzando una rete di resistenza non violenta al muro anche con altri villaggi, come quello famoso di Bil’in (fanno da tre anni, ogni venerdì, manifestazioni contro il muro di palestinesi, israeliani, internazionali, spesso attaccate dai militari; www.bilin-village.org ) i cui rappresentanti del comitato popolare andranno lì il giorno dopo per un corso di formazione.

 

3 maggio: a Hebron e Twani; incontro con Jef Halper

Il 3 maggio, sabato,  andiamo ad Hebron, una grande città, centro di molti scambi commerciali (è l’unica città dove si trova di tutto!), la cui parte vecchia è abitata da 70.000 palestinesi, con al  centro 400 coloni israeliani che non intendono andarsene dal luogo della tomba di Abramo! Hebron è la città in cui nel 1993 il colono israeliano Baruch Goldstein, seguace della setta del rabbino Meir Kahane, armato di fucile automatico, penetrò nella moschea di Hebron mentre i fedeli erano in preghiera del tramonto sparando all'impazzata e uccidendo 24 palestinesi!

Migliaia di soldati sono impegnati per la loro “protezione” e la divisione della città vecchia in due zone H1 e H2 (israeliani) di cui una vietata ai palestinesi, fa sì che il giorno di sabato, festivo per gli israeliani, sia spettrale! Nessuno in giro. Militari ogni 100 metri sulla strada principale, che ci invitano a non proseguire: i coloni di Hebron se la prendono anche con gli stranieri! Un incubo, dice il  compagno francese, da cui ci allontaniamo rapidamente per recuperare il nostro giovane accompagnatore palestinese, bloccato da un soldato, gentile, che gli ha detto di trovare insopportabile il suo lavoro e di voler scappare appena  finito!

Nel frattempo, subito fuori della zona proibita ai palestinesi, incrociamo una madre israeliana con un bambino in carrozzina e un altro di  forse 4 anni, che insegue strillando due ragazzine palestinesi che hanno attraversato la strada. Tra lo sguardo cattivo del bambino e la risata della madre, è la scena più tragica e surreale che mi sia mai capitato di vedere. Così ci sembrano davvero ammirevoli i ragazzi e ragazze di Operazione Colomba e Christian peace team che incontriamo in un villaggio a 40 minuti di macchina da Hebron Twani, che si trova di fronte ad una colonia israeliana, corredata da roulottes vuote dentro il bosco adiacente, per occupare un altro spazio.

Il villaggio è quasi al confine con Israele e la colonia si è insediata a partire del 1983, prendendo la terra pezzo per pezzo, con il sostegno dei militari. Ce lo racconta un palestinese, Hafez, capo del villaggio che ha deciso dal 2001-2 di organizzare la resistenza non violenta della popolazione che vuole semplicemente vivere nelle proprie case, rifiutando le tante pressioni perché le abbandonino (taglio di alberi, avvelenamento della terra e del bestiame, attacchi fisici a vecchi e bambini).

I militari hanno dato man forte ai coloni demolendo case ed evacuando la popolazione. Solo nel 1999 attivisti israeliani sono andati sul luogo e hanno fatto conoscere la situazione e poi sono arrivati i giovani volontari di altri paesi, che si alternano di tre mesi in tre mesi. Prima il loro lavoro era soprattutto accompagnare i bambini dei vari villaggi (2000 persone) alla unica scuola che è in Twani.

Dopo un attacco in cui è stato rotto un braccio ad uno degli internazionali e che ha suscitato la reazione anche della stampa israeliana, c’è stato un ricorso alla Corte suprema che ha deciso che a “proteggere” i bambini siano i militari, che li accompagnano a scuola! E adesso i volontari devono limitarsi al monitoraggio della situazione: noi stessi abbiamo assistito a un tentativo di attacco dei coloni (che sono armati), con intervento della polizia israeliana che ha fatto allontanare anche i volontari e i palestinesi che si erano riuniti.

Hafez insiste sul fatto che in questi anni, di fronte alle tante violenze e ingiustizie, anche se c’era in qualcuno il desiderio di vendetta e di reazione violenta, hanno mantenuto la pratica non violenta delle manifestazioni, incontri internazionali, incontri con altri gruppi di palestinesi e israeliani “per non dargli scuse” agli israeliani di evacuare la popolazione. C’è da dire che abbiamo davvero ammirato l’energia e la determinazione di queste persone che anche in una situazione così estrema riescono a continuare a vivere e a lottare in questo modo.

L’ultimo incontro della giornata e del viaggio è quello con Jeff Halper, il presidente del Comitato israeliano contro la demolizione delle case, che da anni svolge un lavoro indefesso di prevenzione della distruzione di case e più spesso di ricostruzione continua.

E’ l’unico incontro in cui sentiamo qualche parola ottimista: “ la situazione degli Stati Uniti nel mondo è pessima, la Palestina è una questione che gli sta come un osso di traverso in gola: devono fare qualcosa; rischia di essere il detonatore del conflitto globale tra mondo musulmano e occidente.” Spera molto nella elezione di Obama e nella possibilità che porti al Congresso l’idea che la risoluzione del conflitto palestinese è nell’interesse degli Stati Uniti, e altrettanto pensa dell’Europa, dove, in un recente sondaggio, il 52% delle risposte, considera Israele al 2° posto, per pericolosità mondiale dopo l’Iran!

In sostanza pensa che non ci sia alcuna soluzione possibile se non a livello internazionale: la leadership palestinese è debole e il Governo israeliano anche (adesso anche con rischio di crisi di Governo, per vicenda di corruzione in cui sarebbe coinvolto Olmert). Ma se si dovesse cambiare, le elezioni premierebbero Netanyahu, cioè una destra più estrema!

 

13 maggio 2008