Missione civile del Coordinamento europeo dei comitati e associazioni per la Palestina – con sede a Bruxelles - 8/15 dicembre 2006

 

NOTE E VOCI DAL VIAGGIO - terza parte

A cura di Alessandra Mecozzi

 

13 dicembre

Nel ristorante “Everest”, deserto, ma che ha già preparato il suo albero di natale, in cima ad una collina sopra Betlemme, incontriamo Suleiman e Jonathan, i due fondatori dei “Combattenti per la pace”, un gruppo costituito da militari israeliani che hanno rifiutato di iniziare o continuare a servire l’esercito e di ex prigionieri politici palestinesi, che hanno deciso di lasciare le armi. Entrambi percorrono la strada della lotta non violenta contro l’occupazione, per la convivenza. La loro iniziativa è recente: è stata lanciata pubblicamente vicino al muro, a Gerusalemme, il 18 marzo, una festa ebraica (pass over, pasqua) e la giornata dedicata ai prigionieri politici palestinesi, con un incontro di 300 persone. E’ stata già presentata al Parlamento europeo e sono stati diverse volte in Italiane in altri paesi europei. Perseguono e promuovono la lotta non violenta, la pratica del dialogo per la fine dell’occupazione e delle colonie. Vanno soprattutto nelle scuole e nelle Università. Entrambi sono consapevoli della difficoltà della loro pratica, da molti vista con diffidenza, in Palestina,dice Suleiman, vista da alcuni come volontà di “normalizzazione” della occupazione. E diffidenze, ostilità aumentano quanto più si fa difficile la situazione sociale e politica e avanza la politica israeliana della separazione, in particolare attraverso la costruzione del Muro e l’ampliamento delle colonie, un vero e proprio sistema di apartheid, anzi, come ha detto Willie Madisha, segretario generale del sindacato sudafricano Cosatu, peggio dell’apartheid in Sud Africa, e sicuramente in una situazione di isolamento internazionale. Jonathan dice che devono per questo fare molta attenzione al linguaggio che usano e insistere sempre sulla loro opposizione alla “normalizzazione”, in Israele devono evitare di usare la parola “rifiuto” dell’esercito, che suona come un sacrilegio, ma soprattutto valorizzare la maggior efficacia anche ai fini della sicurezza della pratica non violenta. In realtà – aggiunge – la più forte resistenza non violenta dei palestinesi è il continuare a restare nei territori occupati, ad andare a scuola, a lavorare, nonostante le enormi difficoltà materiali. Suleiman dice di aver creduto nell’uso della violenza come strumento contro l’occupazione, ma dopo il 93 di aver cominciato ad impegnarsi nel lavoro per la pace, dato che l’uso della violenza autorizza ulteriore violenza in una spirale senza fine e distruttiva. Oggi, per entrambi, il problema centrale non è la questione dello Stato, anche se la creazione dello Stato palestinese indipendente accanto a quello di Israele fa parte della loro piattaforma, ma quella della fine dell’occupazione che sta disgregando e distruggendo entrambe le società, in Palestina e in Israele.

www.combatantsforpeace.org

14 dicembre

Azmi Bishara, deputato palestinese alla Knesset (parlamento israeliano)

Azmi Bishara è un palestinese “del 48” , con cittadinanza israeliana. E’ presente nella Knesset per il Partito Haddash (che include anche israeliani) e ci parla a lungo della situazione in Palestina e Israele, nel quadro internazionale.  E’ molto critico verso Fatah che, dice, non ha mai accettato la sconfitta elettorale e vuole in realtà decidere da sola che cosa fare, anche se continuano a parlare di Governo di unità nazionale fondato sul consenso al documento dei prigionieri politici. Sostiene che sia usato più come espediente che come reale strumento; non dicono infatti che per fare un Governo riconosciuto vanno accettate le condizioni poste dalla Unione Europea: riconoscimento del diritto ad esistere di Israele, rinuncia alla violenza, riconoscimento accordi di Oslo. In realtà ci sono molte differenze all’interno del Governo e la situazione di assedio nei confronti di Hamas è una forma di pressione su tutti, non solo su quella forza politica. L’assedio a Gaza non ha alcuna legittimità internazionale, ma è la messa in pratica della legge americana “contro il terrorismo”. La crisi è molto profonda e può ulteriormente svilupparsi. Per Hamas la difficoltà per la costituzione del Governo di unità nazionale non sta in una questione di ministeri, il Primo ministro ha già detto che è pronto a rinunciarci, ma nell’esistenza di posizioni politiche diverse. L’Europa dovrebbe affrontare seriamente il problema dell’Islam anche al proprio interno.

Tutti sanno che Israele non è affatto pronta a ritirarsi entro i confini pre guerra del 67, né a togliere le colonie, né a riconoscere Gerusalemme est come capitale palestinese, né a riconoscere il diritto al ritorno dei profughi. Del resto la lettera del 2004 di Bush a Sharon  confermava queste posizioni. Ma l’idea di nuove elezioni che è stata dichiarata dal Presidente è molto pericolosa, il grande rischio è che la prossima generazione dopo la nostra, ancora molto legata alla scelta della via parlamentare, la rifiuterà. Per questo bisognerebbe dare ad Hamas, in generale all’Islam politico la possibilità di riformarsi esercitando l’azione di Governo. Ma prevale una visione troppo americana. Mustapha Barghouti ci ha provato, agendo come mediatore tra Fatah e Hamas, ma è molto difficile avere successo in una situazione in cui la comunità internazionale, l’Unione Europea, pongono condizioni solo ai palestinesi e non anche agli israeliani.

E’ necessaria una riforma dell’OLP e della ANP, i palestinesi della diaspora devono essere rappresentati; invece l’OLP viene giocato contro il Governo. Ricordiamoci che gli Accordi di Oslo sono stati firmati dall’OLP, con il rifiuto di Hamas. Se non vengono coinvolti, chiamati a dimostrare che sono capaci di governare, le loro posizioni si radicalizzeranno ulteriormente. Chiedere che riconoscano “il diritto a esistere” di Israele è una posizione ideologica, mi sembra che l’importante è che accettino l’esistenza di Israele.

Il quadro internazionale esercita una forte influenza,  è una apertura importante il rapporto Baker, che esprime la sconfitta dei neocons in Iraq.

D’altro canto bisogna guardare alle dinamiche dei paesi arabi: è importante che ci sia accordo tra Siria, Egitto e Arabia Saudita. E se l’Egitto e la Giordania si distaccano dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti, potrebbero favorire un Governo di unità nazionale.

In ogni caso il mondo arabo è destinato a cambiare rapidamente: già durante la guerra contro il Libano c’è stata una reazione contro i Governi che sono stati accusati di sostenere Israele contro il Libano; il rifiuto dei paesi arabi di ricevere Hamas ha spinto l’Unione Europea all’irrigidimento. La protesta popolare contro i regimi, che si è già espressa in diverse occasioni, proseguirà, e in Egitto probabilmente anche in modo violento, la Giordania è in una situazione molto instabile… Dal versante di Israele vedo una politica molto miope e opportunista, direi che non c’è una vera politica. Si erano riposte molte speranze su Amir Peretz, l’ex segretario generale di Histadrut, data la sua energica lotta per una politica sociale più giusta, contro i tagli alla spesa sociale: ma è stato un vero disastro come ministro della difesa. Israele è dentro una crisi molto forte, anche militare: la guerra contro il Libano non è andata come nel 1967, considerato in Israele “un modello”: pochissimi giorni e conquista. Tutto il paese è rimasto scioccato, ma non credo che faranno un’altra guerra in Libano.

Il grande problema è sul versante della Siria e dell’Iran: non è da escludere una guerra nei confronti della Siria, come è possibile che vogliano colpire l’Iran, devastandone le infrastrutture. Il piano americano Baker-Hamilton – che parla di necessità di rapporti diversi con Siria e Iran – non è la posizione dell’amministrazione Bush, né è chiaro se c’è qualcuno dell’amministrazione stessa che lo appoggia. Nel Congresso americano la lobby che agisce per conto di Israele è molto forte, ma d’altra parte gli Iraniani sono molto uniti, per quanto riguarda la politica estera, la Siria non accetta di essere esclusa e reagisce contro gli USA per paura di un complotto ai suoi danni che farebbe diventare il Libano una base contro la Siria, con l’appoggio di una parte dei poteri politici libanesi. Mashal, rappresentante di Hamas in Siria agisce razionalmente (al Cairo ha pubblicamente dichiarato di riconoscere i confini pre-guerra del 1967), e andrebbe accettato: invece avviene esattamente il contrario. Per quanto riguarda la Unione Europea sta perdendo credibilità sulla “questione democratica”, con la scelta di non riconoscere un Governo palestinese eletto democraticamente, e anzi bloccando, con un embargo che punisce la popolazione, i fondi destinati alla ANP.

Non c’è ottimismo nelle parole con cui Azmi Bishara conclude la sua lunga esposizione: è vero che il Governo israeliano si è molto indebolito, ma l’impostazione di Sharon resta centrale;  anche la sinistra israeliana è diventata molto debole: il Presidente palestinese Abu Mazen vorrebbe che si arrivasse a realizzare grosso modo quello che è stato chiamato l’accordo di Ginevra, che fu stilato da personalità palestinesi e israeliane. Ma la situazione cambiata rende sempre più difficile, quasi impossibile che ci si possa arrivare. Oggi, più che in altri tempi, c’è una forte responsabilità e un forte ruolo da giocare per la Comunità internazionale e in particolare per la Unione Europee , ma deve fare scelte politiche forti e in tempi brevi.

Non è questa la tendenza che troveremo nel colloquio con due funzionarie della Unione Europea dell’ufficio di Gerusalemme. Molto disponibili, soprattutto interessate a conoscere le nostre valutazioni al penultimo giorno del viaggio, auspicano un Governo palestinese di unità nazionale, dicono che la Unione Europea non ha una posizione rigida, che continuerà a mettere in opera, come aiuto umanitario, il meccanismo che permette il trasferimento parziale di fondi nelle situazioni di emergenza, in particolare per gli ospedali. Chiediamo che ci sia un impegno a pubblicare il rapporto dei loro funzionari su Gerusalemme, ma ci rispondono che dovrà occuparsene la prossima Presidenza UE (Germania).

 

ICAHD, Comitato israeliano contro la demolizione delle case

Delle attività di questo Comitato, basato sulla azione diretta e non violenta, ci parla il suo coordinatore Jeff Halper, molto conosciuto anche in Italia dove è stato più volte invitato per incontri, dibattiti, conferenze. L’attività di Icahd si fonda su due pilastri: l’iniziativa volta ad impedire la demolizione di case palestinesi e il lavoro di ricostruzione; la informazione e sensibilizzazione della società israeliana sull’occupazione. Si colloca in sostanza nel difficile quadro della risoluzione non violenta dei conflitti ed attualmente si sta impegnando in una campagna più generale che è quella contro l’istaurazione di uno stato di apartheid, che la costruzione del muro, l’esproprio di ulteriori terre, la costruzione di infrastrutture separate per israeliani e palestinesi sta di fatto realizzando. Partecipano anche alle azioni legali di denunce presso la Corte suprema israeliana, relative agli ordini di demolizione illegali, sostenendo anche materialmente il lavoro di architetti e avvocati. Ci dice che sono tutti consapevoli del fatto che palestinesi e israeliani da soli non possono risolvere il conflitto e che è indispensabile un sostegno e una iniziativa internazionale, sia delle società civili che delle Istituzioni. Bisogna utilizzare tutti i possibili spazi politici che si aprono, come ad esempio il piano Baker-Hamilton, anche se le difficoltà a livello internazionale restano enormi. E il fatto che Israele detenga chiaramente un potere militare globale è un punto su cui concentrare l’iniziativa. Palestinesi, israeliani e internazionali devono proseguire, rafforzare il lavoro comune: il Forum sociale mondiale di Nairobi sarà un’occasione da utilizzare pienamente per lanciare e costruire insieme la campagna a livello mondiale contro l’occupazione nel 2007 e 2008.

www.icahd.org

 

In conclusione…

Il 15 dicembre la missione si concluderà ad Haifa, dove non è possibile andare per chi, come me, ha dovuto anticipare l’arrivo in aeroporto a causa della necessità di cambiare volo e biglietto (era previsto uno sciopero dell’ Alitalia). Rientrando in Italia, sembra che tutte le tensioni, le paure, gli interrogativi che abbiamo ascoltato da palestinesi e israeliani si materializzino. L’accordo per il Governo di unità nazionale appare impossibile, mentre lo scontro tra fazioni armate palestinesi prende piede, e la striscia di Gaza sotto assedio, nella povertà e nel caos, è luogo di sequestri, di rabbia, di morte. Non c’è dubbio che ci siano potenti pressioni internazionali contrapposte su Fatah e Hamas, dagli Usa all’Iran, e la tragedia è che queste pressioni in una situazione così fragile politicamente e disastrata economicamente e socialmente stanno diventano le vere protagoniste di un conflitto senza fine e dell’agonia palestinese. Chi ha avuto la pazienza di leggere tutto o in parte questo resoconto e le testimonianze che contiene, chi segue le vicende del conflitto israelo-palestinese, può rendersi conto di quante voci ed energie civili siano al lavoro in una difficile resistenza all’opera di distruzione e autodistruzione che investe entrambe le società, quella palestinese e quella israeliana. La guerra civile, in Palestina come in Iraq, e c’è chi la paventa anche in Libano, è un’arma di distruzione delle società locali e della solidarietà internazionale, a tutto vantaggio dei poteri, sempre più armati. La forza delle armi non sostiene i deboli ma i potenti, nel mondo e nell’epoca della guerra prmanente.

Sono le energie civili, le energie positive, che vanno sostenute, con una ripresa forte dell’impegno e dell’iniziativa della società civile in Italia e in Europa, la cui iniziativa politica langue. Sembrano dimenticate le proposte, che avevano acceso speranze tra coloro che abbiamo incontrato, di una Conferenza internazionale di pace sostenuta dal Governo spagnolo, italiano e francese; come anche l’ipotesi dell’invio di una forza multinazionale di interposizione a Gaza e in Cisgiordania. L’iniziativa della società civile europea serve anche per non far affondare definitivamente la credibilità “democratica” dell’ Europa. Anche nel Forum sociale mondiale a Nairobi, si dovrà levare forte questa voce contro l’occupazione militare, sociale ed economica dei territori palestinesi. In quei territori Israele sta costruendo scientificamente un sistema di apartheid: questo non può essere ignorato né rimosso dalle coscienze e dalla politica. E l’Africa è il luogo appropriato per denunciarlo con forza e costruire insieme le condizioni per una alternativa basata sulla dignità, sui diritti e sul diritto.  

4 gennaio 2007