Palestina-Israele: il muro di silenzio della politica. A nessuno è consentito non vedere e non sapere

articolo pubblicato su Liberazione, 6 luglio 2006

di Alessandra Mecozzi, ufficio internazionale Fiom-Cgil

 

Sono quotidiani gli appelli di associazioni e Ong palestinesi alla Comunità internazionale, perché intervenga per i diritti e il diritto a Gaza, dove manca a acqua e elettricità, aumentano le malattie, non arrivano merci, non possono uscire né entrare migliaia di persone. Ancora una volta la popolazione palestinese è sottoposta a una punizione collettiva.

La politica della vendetta, inaugurata dopo l’11 settembre 2001 dagli Stati Uniti nei confronti dell’Afganistan, fa anche qui il suo corso. E l’Unione Europea non trova una strada diversa.

L’assedio di Gaza, pianificato prima del sequestro del soldato israeliano, è anche quello della Autorità Nazionale Palestinese, assedio a cui le istituzioni europee hanno nei fatti lasciato manolibera con l’inequivocabile segnale del blocco dei fondi subito dopo il risultato elettorale di gennaio, elezioni democratiche fortemente richieste anche dalla comunità internazionale.

Il soldato israeliano va rilasciato, ma perché nessun Governo denuncia con il necessario rigore il sequestro da parte del Governo e dell’esercito israeliano di 8 ministri e decine di parlamentari del Governo palestinese, il missile sull’ufficio del Primo Ministro, escalation bellica ben peggiore dell’azione di una qualsiasi banda?

E che dire degli oltre 8.000 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui molte donne e bambini?

L’asimmetria del rapporto Palestina Israele è anche nel fondamentalismo: da un lato quello di un gruppo palestinese, dall’altro quello del Governo di Israele. Aveva ragione il pilota israeliano refusnik Jonathan Shapira quando di fronte a duemila cittadine e cittadini europei al Forun Sociale di Londra, disse: “Vi chiediamo di aiutarci a proteggere Israele da se stessa, chiedete con noi sanzioni internazionali!”

Oggi, il Governo israeliano invade e bombarda Gaza, dopo un ritiro esaltato internazionalmente come atto di pace! E’ un nuovo passo nella strategia del politicidio dei palestinesi, come l’ha definita  Baruch Kimmerling, sociologo israeliano dell’Università ebraica di Gerusalemme.

Ma la politica internazionale del silenzio ha innalzato un muro, insieme a quello di cemento e ferro che sta stritolando la possibilità della nascita di uno Stato Palestinese indipendente e sovrano.

Una occupazione illegale che dura da 40 anni insieme ad una colonizzazione che si espande in Cisgiordania, a Gerusalemme, verso la valle del Giordano, è oggi il centro della questione della guerra e della pace nel mondo;  chi vuole “lo scontro di civiltà”, nel mondo occidentale, negli Stati Uniti come in Italia, è lì che trova un laboratorio per la propria teoria e pratica.

E vale specularmene per il mondo mediorientale e mediterraneo. Non distinguere il Governo di  Hamas, che ha scelto il terreno elettorale democratico, dalla parte violenta, che ha il suo riferimento fuori dai territori palestinesi, significa lavorare per una saldatura dei fondamentalismi a livello internazionale.

Non cogliere l’accordo tra Fatah e Hamas, sulla base del testo dei prigionieri politici, come un avvenimento importante, per l’avvio del riconoscimento di Israele da parte del Governo di Hamas, indica una volontà di scontro, a qualsiasi prezzo.

Per questo è necessario che il silenzio finisca, a nessuno è consentito non vedere e non sapere, dobbiamo sostenere anche materialmente una popolazione umiliata e ridotta alla disperazione, denunciare la politica internazionale dei due pesi e due misure, che in Palestina-Israele ha raggiunto un punto estremo.

Considerare i palestinesi “un popolo come un altro”, con la sua cultura, identità, diritti umani e politici nazionali; considerare Israele “uno Stato come un altro”, con i suoi doveri di rispetto delle norme di convivenza internazionale, i cui comportamenti illegali e crimini di guerra sono passibili di sanzioni. Sono compiti della società civile e dei movimenti.

E’ compito del nuovo governo ribaltare la politica disastrosa del precedente, lontana dalle stesse tradizioni di relazioni italiane con medioriente e mediterraneo, per le quali l’Italia ha in passato giocato un ruolo positivo anche rispetto all’Europa.

La  Palestina ha bisogno di noi, e noi abbiamo bisogno della Palestina, per credere nella possibilità di politiche di pace e giustizia.