Elezioni palestinesi. Analisi del voto Di Roberto Giudici e Piero Maestri La
campagna elettorale Arrivando
solamente tre giorni prima della data delle elezioni per il Consiglio
Legislativo Palestinese (Clp) non abbiamo fatto in tempo a partecipare e
quindi a “vivere” questa campagna elettorale. Qualche
segnale siamo riusciti comunque a percepirlo, nelle migliaia di
manifesti attaccati su ogni angolo di muro, palo della luce, vetrine e
saracinesche dei negozi; negli enormi cartelloni con le facce delle
(poche) e dei candidate/i; nei taxi che esibivano bandiere o manifesti
elettorali attaccati sul cofano o sui parabrezza; nelle macchine
imbandierate che passavano diffondendo slogan o canzoni dei vari
partiti; nei comizi/manifestazioni che ogni tanto si vedevano nelle
varie vie – tra tutti quello di Fatah nella piazza Al Manara di
Ramallah con canti e balli, che diventano pacifica gara di slogan quando
passa a pochi metri un rumoroso furgone con militanti di Hamas. Una
campagna elettorale che si vede in ogni momento nelle Tv arabe che
trasmettono dibattiti con i vari partiti e candidati. Una
campagna elettorale leale e aperta, anche se i rappresentanti del Pngo
ci suggeriscono qualche elemento critico: l’uso da parte del partito e
di candidati di Fatah dei propri ruoli istituzionali e della propria
presenza nell’Autorità – come la lettera spedita a tutti i
dipendenti pubblici – e lo stesso ruolo di Abu Mazen come capo di
partito anche se Presidente dell’Autorità Nazionale; dall’altra
parte Hamas risponde utilizzando strumenti religiosi (non sono poche le
moschee sulle quali spicca la bandiera verde della lista “Tahir al
Islah” – Cambiamento e Riforma – cioè Hamas) per promuovere la
sua lista; una campagna elettorale probabilmente “esagerata”, nella
quale le varie liste hanno speso molti soldi – forse troppi. E nella
quale sono anche affirate accuse di aver ricevuto finanziamenti
“inconfessabili” (si è detto di soldi statunitensi a Fatah, di
soldi sauditi a Hamas, di uso delle risorse della sua Ong a Mustafa
Barghouti…). Ma
tutto questo non riesce minimamente a cancellare o anche solo a oscurare
la sensazione di un processo veramente partecipato e democratico, di
elezioni considerate importanti da chiunque nei Territori Occupati di
Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Timori Il
giorno prima delle elezioni alcune/i di noi sono a Gaza, nella Striscia
“liberata” considerata da molti giornali e televisioni
internazionali un buco nero, una zona “pericolosa” per la sicurezza
degli stranieri – in particolare dopo il breve rapimento di fine anno
di Alessandro Bernardini a Khan Yunis. Ma quel episodio non era in alcun
modo il segnale di una crescente diffidenza o addirittura di
un’intolleranza verso gli stranieri, e nemmeno il precipitare di Gaza
in una dinamica “irachena”, quanto il tentativo di una parte
riconoscibile di Fatah – purtroppo armata – di voler rinviare o
comunque segnare le elezioni. Un episodio che rimarrà per fortuna
isolato. Nonostante
questo l’Undp – che coordina gli Osservatori internazionali – e
l’Unione Europea limitano i movimenti ai loro inviati e funzionari
(questi ultimi sono invitati a non lasciare la loro sede nei giorni
prima delle elezioni e a non recarsi in certe zone della Striscia
nemmeno durante il loro lavoro di “osservazione”). Tra
queste zone – mi sembra importante segnalarlo – c’è anche quella
specie di “fascia di sicurezza” che Israele sta imponendo nel nord
della Striscia: una zona cuscinetto che non viene per il momento
nuovamente occupata direttamente con soldati e carriarmati, ma nella
quale i palestinesi non possono recarsi senza rischiare di essere
bombardati o esposti al tiro dei fucili israeliani – e così campi
coltivati non possono essere raggiunti dai loro proprietari. E’
soprattutto la zona di Beit Hanoun a farne le spese – e lo si può
vedere nelle buche create dai bombardamenti nelle strade intorno al
villaggio. E
proprio il giorno dopo le elezioni sarà una bambina di nove anni a
morire in quella zona: i soldati israeliani le spareranno alla testa
perché non si era fermata dopo gli spari in aria motivati dalla busta
di plastica “sospetta” che la bambina aveva in mano. Questi
timori non sembrano però troppo preoccupanti – e decidiamo di
organizzare il nostro giro di “osservazione” del giorno dopo senza
limitarci alla sola Gaza City, ma toccando il nord e il sud della
Striscia (ci divideremo per questo in due gruppi). Perché
“osservatori”? Sembra
una spiegazione ovvia o sciocca, ma forse vale la pena sottolineare il
senso della scelta di andare in Palestina come “osservatori
internazionali”. Penso
che nessuna/o di noi abbia visto questa presenza come una forma di
verifica del “grado di democrazia” e di trasparenza del processo
elettorale palestinese. Le
elezioni nei territori ancora occupati si svolgono in una situazione
molto particolare, segnata appunto dalla realtà dell’occupazione –
con i suoi checkpoints, la limitazione del movimento dei palestinesi, il
tentativo di rendere impossibili il voto agli abitanti di Gerusalemme
est, ecc.. In
questa situazione il nostro primo obiettivo era allora quello di
verificare che le autorità israeliane permettessero davvero un voto
“libero” (parola probabilmente un po’ eccessiva) – e se a Gaza
questo lo è stato fino in fondo, data ‘assenza di soldati israeliani,
in altre parti non è andata sempre così e a molti palestinesi è stato
impedito di tornare nelle cittadine della loro residenza per votare. Avendo
già vissuto l’esperienza delle elezioni presidenziali del 2005 –
quando a Gaza la presenza israeliana rendeva ancora più importante che
ci fosse un soggetto esterno a verificare l’impegno a garantire i
passaggi dei palestinesi – sapevamo anche che la nostra testimonianza
sarebbe stata utile a raccontare un processo libero e democratico da
parte dei palestinesi e a rendere visibile una “vicinanza” in un
momento importante per i palestinesi stessi. Nessuna
voglia di dare patenti di democrazia quindi. La
festa elettorale Il
25 gennaio partiamo presto per il nostro giro dei seggi elettorali del
nord di Gaza – accompagnati da Bassam, il responsabile del
“Palestinian Center for Human Rights” (Pchr) diretto da Raji Sourani
per la formazione dei 600 osservatori indipendenti organizzati con 36
Ong palestinesi (coordinate appunto dal Pchr). Già
di fronte al cancello della prima scuola/sezione elettorale ci si
presenta uno spettacolo che continuerà per tutto il giorno: gli
elettori passano tra due file di donne, uomini e bambine/i “armati”
di volantini elettorali e delle bandiere verdi di Hamas, gialle di Fatah
e rosse del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Una
“violazione” della legge elettorale, probabilmente, che potrebbe
penalizzare le liste minori – anch’esse presenti davanti ad alcuni
seggi, ma certamente con minore visibilità e diffusione, dato il loro
scarso radicamento sul territorio – ma che nessuno sembra considerare
come tale. L’atmosfera
non è in alcun modo quella di un combattimento tra gruppi nemici – ma
di una competizione vivace. Le/i sostenitrici/tori dei vari partiti si
affiancano senza nessuna tensione e senza che mai – durante tutta la
giornata – si veda il minimo accenno di discussione accesa ne
tantomeno di scontro. Così
andrà avanti il nostro lavoro di osservatori. Partiamo
da Beit Hanoun, a nord di Gaza City, per poi andare a Beit Lahya,
Jabalia Refugee camp, Shaati Refugee camp. Nei
vari seggi ci accolgono sempre con grande ospitalità, facendoci vedere
con assoluta trasparenza le operazioni di voto. Non rileviamo
particolarità tra un seggio e l’altro, per cui possiamo solamente
fare un elenco casuale di “osservazioni”: *
colpiva, come già avevamo notato per le elezioni presidenziali del
gennaio 2005, la “professionalità” e preparazione delle/dei
componenti dei seggi: prima di tutto a partire dalla verifica
dell’esatto seggio in cui indirizzare l’elettore (che si poteva
leggere anche su grandi cartelli affissi nel cortile della scuola); poi
nel seggio veniva spiegata con cura la modalità del voto, differente
per le due schede che venivano consegnate, ad ogni elettore; * a
proposito dei cartelloni con i nomi degli elettori, ci ha
particolarmente colpito guardare le date di nascita, che confermavano
come *
in molti seggi erano presenti dei team per la raccolta degli ‘exit
polls’. Abbiamo incontrato sia quelli organizzati dall’Autorità
Nazionale, sia quelli dell’università di Bir Zeit, che alle
precedenti elezioni presidenziali erano stati molto accurati. Come
vedremo, questa volta non sarà così, e gli ‘exit polls’ della
serata saranno smentiti clamorosamente dai risultati effettivi; *
la legge elettorale permetteva la possibilità che una elettrice o un
elettore fosse aiutato nel voto da un parente: a differenza di quanto
avviene in Italia, il presidente del seggio assisteva all’operazione,
per garantire che effettivamente l’accompagnatore spiegasse
correttamente il meccanismo e seguisse la volontà di chi stava
esprimendo il suo voto. In questo modo probabilmente si violava la
segretezza del voto, ma si cercava di garantire la volontà proprio di
chi votava; *
mentre fino al cancello della scuola sede di seggio era un tripudio di
bandiere e si veniva riempiti di volantini elettorali, dal cancello in
poi la propaganda era totalmente bandita, e non si trovavano più
simboli di partito e delle liste varie. Abbiamo assistito anche alla
richiesta – gentile ma ferma – di un presidente di seggio a un
rappresentante di lista che si togliesse il cartellino di riconoscimento
mentre entrava nel suo seggio a votare. Insomma,
per farla breve, le operazioni di voto sono state assolutamente regolari
e trasparenti. Ma
il nostro giro è stato soprattutto l’occasione per vivere insieme
alle/ai palestinesi una giornata che si vedeva benissimo loro stesse/i
consideravano importante, forse addirittura “storica”. E abbiamo
avuto la sensazione fisica di quanto non fossero minimamente
disturbate/i dalla nostra presenza, che è diventata in qualche modo
parte della festa. Così
abbiamo potuto discutere con chi incontravamo – nei limiti della
nostra ignoranza della lingua araba, e grazie all’assistenza del
nostro splendido accompagnatore. E in un paio di occasioni ci siamo
seduti a bere il tè proprio a pochi metri dai cancelli di un seggio,
con donne, uomini e bambine/i che passavano, ci salutavano, si
fermavano. E
sono venuti fuori i racconti che spesso abbiamo ascoltato nei nostri
viaggi in Palestina, segnati dal perdurare dell’occupazione – anche
se gli abitanti di Gaza non vedono più i militari e si rallegrano di
poter viaggiare liberamente lungo la striscia,
si sentono ugualmente in una grande prigione. Questo vale in
particolare per gli abitanti di Beit Hanoun e Beit Lahyia, i cui
villaggi confinano con quella “fascia di sicurezza” decisa dei
militari israeliani di cui parlavamo prima. E questo impedisce loro
spesso di recarsi nei loro campi e di muoversi con tranquillità. Anche
al sud della Striscia, nelle città e nei campi profughi di Khan Younes,
Al Mawasi, Rafah al confine con l’Egitto, zona “interdetta” agli
osservatori internazionali dalle stese Nazioni Unite e dall’Unione
Europea il famoso buco nero in preda al caos, l’atmosfera in realtà
non cambia: di festa e di grande partecipazione consapevole. Non un
arma ostentata tra la gente, non un litigio durante la gioiosa e caotica
propaganda fuori dai seggi e, assolutamente, nessuna ostilità nei
nostri confronti; al contrario grande affetto e acuta curiosità per le
nostre sensazioni e valutazioni sul loro momento storico. La
festa comprende anche tanta emozione nelle zone occupate fino a pochi
mesi fa dalle colonie ebraiche del blocco del Ghush Khatif circondate
dal muro e dall’artiglieria israeliana che ha fatto scempio del
territorio intorno e delle case di centinaia di famiglie che oggi sono
tornate; libere finalmente di muoversi da un villaggio all’altro senza
il terrore e l’umiliazione dei terribili chek points come ad Al Mawasi
dove lo scorso anno assistemmo alla penosa attesa di decine di persone a
cui era negato da giorni il rientro a casa e oggi affollano il seggio
elettorale di fronte al mare. Le
case meno colpite sulla linea del fuoco sono già state riabitate, le
altre vengono visitate quotidianamente dai proprietari ancora sfollati e
riabilitate da improbabili riparazioni; dove non c’è più traccia
della casa, mani tenaci hanno circoscritto la sabbia con una precaria
recinzione con tanto di cancelletto a protezione di una piccola tenda e
di minuscole piantine di un nascente piccolo orto. La corsa alla
riappropriazione di ogni granello di sabbia è incredibile. A
Rafah, l’unico luogo dove Al Fatah ha guadagnato tutti i seggi (3)
disponibili, si mescolava l’animazione del voto con il flusso continuo
e finalmente libero da e per l’Egitto attraverso il rianimato
“terminal” che ha già visto il passaggio di 80.000 palestinesi
negli ultimi due mesi. Il
ritorno a Gaza city al tramonto, per la prima volta dopo anni anche per
noi è stato quasi un sogno, da Rafah diritti fino al centro città
senza in 30 minuti senza dover preventivare partenze con ore di
anticipo. Alle
19.00 precise – senza un rinvio come era successo lo scorso anno –
cominciano le operazioni di scrutinio. Partecipiamo anche in questo caso
come osservatori dividendoci in diversi seggi della scuola di Al Karmel
a Gaza City. Anche
queste operazioni si svolgono in maniera “professionale” e
trasparente, alla presenza di una decina di osservatori, tra
rappresentanti di lista, osservatori palestinesi indipendenti (in genere
del Pchr) e della statunitense National Democratic Institute/Carter
Center. I
voti vengono segnati sulla lavagna della classe e tutto viene svolto
molto velocemente e senza nessun problema. Poche anche le schede bianche
e nulle, malgrado la rigidità assoluta con la quale venivano annullate
alcune schede (solamente perché il segno usciva dal riquadro di una
lista, o perché c’erano due segni sulla stessa lista), senza alcuna
protesta da parte dei rappresentanti di lista stessi. Uscendo
dal seggio per tornare nel nostro albergo si vedono già e si sentono i
caroselli delle auto imbandierate dei sostenitori di Fatah che
festeggiano la vittoria annunciata dai primi ‘exit polls’. Ma la
realtà della mattina successiva era ben diversa… I
risultati elettorali E’
noto ormai a chiunque che le elezioni hanno decretato una
“schiacciante” vittoria di Hamas, ma per riuscire ad analizzarla
seriamente, è necessario spiegare brevemente quale fosse il meccanismo
di assegnazione dei seggi. I
seggi del CLP sono 132: 66 assegnati su base proporzionale (con uno
sbarramento al 2%) alle liste nazionali; gli altri 66 su base locale in
forma ‘maggioritaria uninominale’. Questa seconda scheda era
particolare: conteneva una lunga lista di candidati, alcuni collegati a
liste nazionali, altri indipendenti, e l’elettore poteva esprimere un
numero di preferenze pari ai seggi previsti per quel distretto
elettorale (per esempio, il distretto di Gaza City eleggeva 8
parlamentari, e l’elettore – in una scheda con 40 candidati –
poteva scegliere di esprimere 8 preferenze). Quali
sono stati i risultati. Per
quanto riguarda le liste nazionali: Votanti
totali: 1,042,424 *
Change and Reform (Hamas) 440.409 voti, pari al 44.45% - 29 seggi
assegnati *
Fatah Movement 410.554 voti, pari al 41.43% -
28 seggi *
Martyr Abu Ali Mustafa (Fronte Popolare) 42.101 voti pari al 4.25% - 3
seggi *
The Alternative (Badil) 28.973 voti, pari al 2.92% - 2 seggi *
Independent Palestine 26.909 voti, pari al 2.72% - 2 seggi *
The Third Way 23.862 voti, pari al 2.41% - 2 seggi *
Altre liste 18.065 voti, pari al 1,09% - Nessun seggio *
Schede bianche 21,687 (2.08%) *Schede
nulle 29,864 (2.86%) Per
quanto riguarda I seggi assegnati su base locale, i risultati danno: Hamas 45 seggi; Fatah 17 seggi; Indipendenti 4 seggi. Questo
porta all’assegnazione totale e definitiva dei seggi è stata: Hamas
74 seggi Fatah
45 FPLP
3 Palestina
Indipendente (Lista di Mustafa Barghouti) 2 Badil
- formato da FIDA, FDLP e Partito del Popolo – 2 3^
via (Lista di Hanan Ashrawi) 2 Indipendenti
4 (di cui 3 vicini ad Hamas) Questo
ci porta a fare alcune considerazioni, importanti per comprendere quale
sia stato effettivamente il voto dei palestinesi. In
primo luogo va segnalato che Hamas non prende la maggioranza assoluta
dei voti, e che i partiti laici, nazionalisti o di sinistra prendono
oltre il 55% dei voti. Questa non ci serve come spiegazione
“consolatoria”, ma dato che abbiamo già letto analisi che dipingono
il popolo palestinese come ormai avviato verso il fondamentalismo e il
conservatorismo religioso, dovrebbe servire a fare un po’ di
attenzione. Il popolo palestinese non era una settimana fa
“profondamente laico” e non è oggi “integralista islamico”:
entrambe sono generalizzazioni che non servono a nulla. Negli ultimi 15
anni il popolo palestinese ha fatto grandi passi indietro su molti
aspetti delle relazioni sociali e culturali – ma questo spiega solo in
parte il voto. In
secondo luogo va riconosciuta ad Hamas una forte capacità
organizzativa, prima di tutto per come si è presentata: nei distretti
locali ha presentato esattamente il numero di candidati corrispondenti
ai seggi disponibili, mentre Fatah si divideva tra i suoi candidati
ufficiali e altri membri del partito che si presentavano come
indipendenti – contribuendo così a disperdere voti, in un meccanismo
di fatto maggioritario (che infatti ha totalmente cancellato le liste
minori). Questo è uno dei segnali della crisi di Fatah, divisa tra
notabili locali, giovani militanti, gruppi di potere legati alla loro
presenza nell’Autorità ecc. Anche per questo i candidati locali di
Hamas sono risultati più credibili e affidabili. Infine
è chiarissimo che i risultati del voto sono caratterizzati da due
elementi: da una parte un segno di bocciatura per il lavoro svolto
dall’Anp in questi anni (e quindi per Fatah che la governava),
giudicato negativamente sia sul piano di quanto ottenuto nei
“negoziati” con Israele, sia soprattutto sul piano della corruzione
e della mancanza di risposte ai bisogni sociali e materiali. Hamas è
risultata più credibile; dall’altra parte è stato anche un voto
palese contro le politiche vergognosamente filoisraeliane e anti arabe
degli Usa e quelle pilatesche dell’Unione Europea che ha pensato di
barattare con i miliardi dei finanziamenti il disimpegno e l’ambiguità
politica che agli occhi della popolazione è diventata insopportabile. Considerazioni
iniziali sul prossimo futuro E’
impossibile prevedere cosa succederà nei prossimi mesi: in questi
giorni Hamas è molto attenta a mostrare il suo pragmatismo e la sua
(indubbia) intelligenza politica. Dall’altra parte (Israele e Usa)
insieme a dichiarazioni di rottura e di indisponibilità a ogni forma di
relazione con “i terroristi” si intravede anche un dibattito interno
dove si affaccia una posizione che vede in Hamas il soggetto giusto con
cui arrivare a qualche forma di accordo. In
fondo ne’ ad Hamas ne’ a Israele interessa un accordo
“definitivo” e globale – e comunque sono convinti che nel
breve/medio periodo non si possa raggiungere. Entrambi pensano che il
tempo giochi a loro favore: Hamas perché convinta che la situazione
internazionale oggi non sia immediatamente favorevole e spera che le
“difficoltà” Usa in medioriente spingano diversi paesi arabi a
maggiori pressioni sui loro alleati statunitensi e sostegno alla causa
palestinese e comunque è; Israele perché può concentrarsi nella
politica dei fatti compiuti, portando a termine il Muro e continuando la
costruzione di insediamenti. Hamas
potrebbe allora “accontentarsi” di minori pressioni sui suoi leaders
e di qualche altra iniziativa “unilaterale” da rivendere come
proprio successo, per potersi concentrare sul lavoro di consolidamento
sociale e politico in Palestina. Questa
sarebbe una prospettiva molto pericolosa per il popolo palestinese,
perché rimarrebbe ingabbiato in una dinamica negativa, che non lo
porterebbe a risultati avanzati sul piano della liberazione dei
Territori Occupati, mentre lo costringerebbe sul piano interno a subire
la politica di Hamas – che potrebbe però per un certo periodo
apparire migliore sul piano dei servizi sociali e del “buon
governo”. Ancora,
a questa strategia della dilatazione del tempo relativamente ai rapporti
di forza e agli accordi, potrebbe accompagnarsi anche il rischio di una
dilatazione territoriale/ideologica della prospettiva globale, nel senso
di accoppiare alla visione israeliana di “Israele terra degli
ebrei”, il contrapposto riferito all’islam. Si ritornerebbe in
questo senso ad una visione pan araba in versione islamica del
conflitto, travalicando l’aspetto strettamente nazionale e
territoriale – di sicuro quello riferito al ’67- del conflitto, per
modificarne in maniera radicale prospettive e protagonisti. I
pericoli sono molti ma ci sono anche molte risorse a favore del popolo
palestinese. Due di queste provavano a comunicarcele alcuni palestinesi
che abbiamo incontrato. La
prima dice più o meno che “la società civile organizzata palestinese
– cioè le associazioni dei diritti umani, delle donne ecc. –
resistono da quasi 40 anni all’occupazione israeliana e quindi
sapranno resistere anche a eventuali attacchi di Hamas su questi
terreni” (effettivamente questa società civile aveva già fatto
fallire il tentativo dell’Anp di qualche anno fa di “disciplinare”
le Ong e subordinarle alla propria politica – soprattutto sul piano
dei finanziamenti). La
seconda risiede nelle difficoltà che troverebbe Hamas nel voler imporre
per legge alcune scelte oggi diffuse sul piano cultural/religioso. Un
conto sono infatti le pressioni sociali che, ad esempio, spingono le
donne a mettersi il velo, altro conto è legiferare in questo senso o
tentare di applicare la sharia:
in questo caso ci sarebbero certamente proteste e opposizioni nella
società palestinese. Sarà
così? Personalmente non saprei dirlo, ma mi sembra giusto evitare di
considerare il popolo palestinese come un indistinta massa di pecore che
seguono volta per volta l’ideologia dominante. Preferisco pensare –
per quanto ho conosciuto le/i palestinesi – che le organizzazioni
sociali sapranno condurre una forte iniziativa politica perché non sia
cancellato il pluralismo socio-politico e la pluralità culturale in
Palestina. Una
considerazione a parte sulla sinistra palestinese - senza permetterci
critiche tipo “sono così stupidi da dividersi in mille rivoli”,
visto che la nostra esperienza di sinistra italiana ed europea è
segnata da una storia di gruppetti settari e inefficaci, e ancora oggi
non siamo poi così diversi. Certo
è che questa sinistra laica, democratica e nazionalista non riesce a
raggiungere un risultato positivo (il 12/13 % dei voti) e non trasforma
la sua presenza nel tessuto sociale e nella rete delle Ong in una
prospettiva politicamente efficace e riconoscibile. E questo non è il
risultato semplicemente della divisione in troppe liste.
Sarebbe
interessante riuscire una volta a discutere con la sinistra palestinese
nelle sue varie organizzazioni per capire meglio quale rapporto e quale
sostegno si riescono a stabilire con le varie anime di una sinistra
laica e democratica che arriva a prendere il 12-13 % dei voti ma non
sembra in grado di intercettare la crisi di Fatah – movimento che ha
al suo interno anche una spinta democratica radicale: tra l’altro un
fattore di rischio notevole per i palestinesi è proprio il dilaniarsi
di Fatah – composto sempre più da “bande” locali troppo spesso
anche armate. Vedremo se dirigenti come Marwan Barghouti riusciranno a
far prevalere l’intelligenza di un rinnovamento profondo senza
inseguire Hamas sul suo terreno. Ma
queste considerazioni sono parte di una discussione collettiva che la
rete di Action for Peace e delle altre organizzazioni che sostengono i
diritti dei palestinesi e una pace giusta in Palestina/Israele devono
fare a partire da una considerazione per me scontata sul proseguimento
– ancora più forte – del nostro impegno in questa direzione. Perché
l’occupazione continua e i progetti di espansione della colonizzazione
dei territori palestinesi (con il Muro, gli insediamenti, le decine di
“by-pass roads” ecc.) sono sempre più forti. Incontri Il
nostro viaggio di “osservatori” è stata anche un’occasione per
girare |