Elezioni sotto occupazione – la sfida palestinese

(a cura di Alessandra Mecozzi)

 

Dal 3 all’11 gennaio una delegazione di  “Action for Peace” (25 partecipanti di associazioni e singoli/e: Assopace, Fiom, Filcams, Spi, Rifondazione comunista, Giovani Comunisti, Beati i costruttori di pace, )  si è recata in Palestina, in occasione delle elezioni presidenziali del 9 gennaio, con l’accredito di “osservatori internazionali” della Commissione Elettorale Centrale Palestinese. Per la Fiom hanno partecipato Alessandra Mecozzi, ufficio internazionale, Wilma Prandelli, Fiom di Brescia, Vincenzo Argentato, Fiom di Napoli e Roberto Giudici, Fiom di Milano, che ha organizzato gli incontri precedenti le elezioni e coordinato il gruppo. Gli incontri con partiti e associazioni, prima dell’8 e del 9, in cui in piccoli gruppi ci siamo recati in luoghi diversi  per il nostro lavoro di “osservatori” (Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Nablus, Jenin, Gaza), sono serviti ad entrare nel clima prelettorale,a conoscere le opinioni dei palestinesi su questa scadenza,ad  avere un’idea delle procedure elettorali e dei problemi affrontati. Il seminario a Ramallah dei giorni 6 e 7 promosso dall’UNDP (Nazioni Unite) per gli osservatori internazionali ha fornito punti di riferimento e contatti, informazioni  sulla situazione sociale ed umanitaria dei territori della West Bank e Gaza e sulle condizioni della mobilità interna (uno dei problemi più grandi è costituito dalla grande quantità di check points e chiusure di villaggi), su tutto il processo elettorale. Ci hanno fornito il materiale per la visibilità (bracciali, adesivi e bandiere per le macchine).

Di seguito trovate un resoconto sommario degli incontri pre-elezioni e un breve rapporto sulle elezioni a Gaza e Gerusalemme. Nei prossimi giorni riporteremo quelli sulle altre zone dei territori occupati.

Osservatori internazionali

I palestinesi hanno raccolto, né potevano fare altrimenti dopo la morte del presidente Arafat, la sfida di tenere le elezioni sotto occupazione, consapevoli della non libertà che questo comporta, ma decisi ad utilizzarle, obbligando Israele a ridurre la pressione dell’esercito e delle chiusure. Anche la forte pressione internazionale ha avuto il suo peso, sia Unione Europea che Nazioni Unite (UNDP) si sono impegnate con la presenza di osservatori e con un difficile lavoro di coordinamento. Presente anche il National Democratic Institute degli Stati Uniti (Jimmy Carter). 800 circa gli osservatori internazionali presenti, istituzionali, di cui 300 europei, oltre ad alcune centinaia non istituzionali e volontari (il nostro caso, come quello di un gruppo di 30 greci, dei francesi, norvegesi, che abbiamo incontrato) e migliaia di osservatori palestinesi delle varie associazioni.

La sfida i palestinesi l’hanno vinta, dimostrando capacità organizzativa, impegno nella campagna elettorale, rigore nelle procedure elettorali, grande partecipazione al voto, pieno controllo della situazione: nessun incidente di rilievo si è verificato, né nei seggi né fuori di essi. Adesso tocca ad Israele il compito di fare mosse appropriate e cambiare qualcosa in positivo. E’ preoccupante che già il giorno dopo le elezioni sia stato chiuso il check point di Qalandia (tra Gerusalemme e Ramallah) bloccando di fatto il passaggio o costringendo a lunghi percorsi, tanto che alcuni del nostro gruppo hanno impiegato oltre tre ore per rientrare a Gerusalemme. Ancor più preoccupanti e dolorose le uccisioni di palestinesi verificatesi nei giorni immediatamente successivi.

La nostra priorità di osservatori, era verificare che la libertà di movimento per chi voleva andare a votare, fosse garantita, in secondo luogo essere nei seggi ad osservare le procedure, la trasparenza, l’applicazione delle norme. Abbiamo parlato, per quanto possibile, con le persone che si recavano a votare; ne abbiamo raccolto la consapevolezza e il forte desiderio di cambiamento, nella situazione politica e in quella sociale, l’orgoglio di essere l’unico paese arabo che ha fatto una vera campagna elettorale (anche se limitata dalle restrizioni della occupazione), con ben 7 candidati (caso unico nel panorama arabo…), con un risultato in cui emerge un Presidente eletto a maggioranza, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di Al Fatah, e un rappresentante dell’opposizione, Mustafa Barghouti, candidato indipendente e fondatore del movimento Al Mubadara (Iniziativa Nazionale).

 

Gli incontri prima delle elezioni 

I vari incontri con le forze politiche nei giorni precedenti le elezioni ci hanno aiutato a entrare nel clima della campagna elettorale, a conoscere il sistema usato, a percepire le differenze, non sempre chiarissime, tra i programmi politici dei diversi candidati.

Il primo giorno, 3 gennaio, abbiamo incontrato il rappresentante di Al Fatah, consigliere di Arafat: Ahmed Abdel Rahman, che ha sottolineato in particolare l’aspirazione alla democrazia, già dimostrata nelle recenti elezioni municipali a cui ha partecipato l’81% della popolazione, e il grande impegno messo da tutti per elezioni trasparenti e corrette (libere, sotto occupazione non si può proprio dire). Orgoglioso di una presenza massiccia di osservatori (tra internazionali e palestinesi circa 20.000, di cui 800 istituzionali) che potranno verificare di persona che “siamo un popolo moderno e democratico” che è cambiato e sta cambiando riconoscendo pienamente al Presidente Arafat di essere il fondatore della lotta nazionale e dell’identità nazionale palestinese, ma guardando al futuro. Quale programma politico? In primo luogo la fine dell’occupazione dei territori e lo smantellamento di tutte le colonie israeliane; in secondo luogo il sistema giudiziario indipendente da quello politico e quello economico da quello politico. In altri termini fine del partito unico e della corruzione. Al Fatah riconosce lo Stato di Israele ed è contrario alle azioni contro gli Israeliani sulla loro terra, riconoscendone lo Stato entro i confini del 1967. Anche il muro deve finire: se vogliono costruirlo sul loro territorio non siamo contrari: ma i confini sono quelli prima della guerra del 1967. “ La questione sociale è di primaria importanza: qui la gente è per il 60% sotto la soglia di povertà, e la democrazia non va insieme alla povertà. Siamo consapevoli di essere una eccezione all’interno del mondo arabo che del resto non ci ha sostenuti, perché non sono contenti di quello che facciamo. E’ possibile secondo noi arrivare ad una soluzione giusta, anche sulla difficile questione dei profughi per i quali vogliamo comunque che si faccia riferimento alla Risoluzione ONU 194, e i particolari potranno essere definiti successivamente; il vertice dei paesi arabi aveva già indicato una possibile strada”. E’ il rappresentante dei giovani a parlare chiaramente della battaglia che viene fatta internamente perché si riduca fino alla eliminazione, l’uso delle armi “che è contro i nostri interessi”. E’ una discussione in corso da mesi e lentamente molti si stano convincendo. I giovani sentono Marwan Barghouti, in prigione con condanna a 5 ergastoli, come proprio leader, fondatore, e si sentono impegnati a proteggerlo e sostenerlo. E le Brigate Al Aqsa (parte militarizzata di Al Fatah, anche coinvolta in attentati suicidi)? Abu Mazen ha detto a Gaza che non li abbandonerà, fanno parte della struttura e molti di loro sono ricercati e rischiano la vita, ma sappiamo che sono molto responsabili e che rispetteranno le indicazioni di Abu Mazen. Se gli israeliani manterranno gli accordi che verranno presi, anche con loro le cose non saranno difficili.

All’incontro con la Coalizione Democratica Palestinese (tre forze politiche di sinistra, ma senza un candidato unico: FIDA, People’s Party, Palestinian struggle), viene molto sottolineata la questione della campagna elettorale e il dato positivo di avere 7 candidati. La necessità di una forte pressione internazionale su Israele è anche da loro considerata decisiva perché possa muoversi qualcosa in senso positivo, nella convinzione che il governo israeliano, Labour e Likud, non siano pronti per il riavvio di un processo verso una pace giusta. “Errori sono stati fatti da parte palestinese, ci dice Samir Abdallah, quindi le elezioni possono essere viste come un punto di partenza per lanciare un nuovo messaggio da parte di una nuova classe dirigente che possa farci uscire dal circolo vizioso della violenza. Il precedente processo di pace era nato senza una direzione interna, e per questo è fallito: ma chi verrà eletto si troverà di fronte a 3 sfide: quella di far valere la legge e l’ordine; quella di avanzare con le riforme interne e contro la corruzione; quella di rafforzare l’autorità nei confronti della opposizione.” Alla comunità internazionale viene soprattutto richiesto di sostenere con forza la necessità della fine dell’occupazione. La differenza con l’altra parte dell’opposizione, rappresentata da Mustafa Barghouti, sta sia nella chiarezza sulla necessità della fine della violenza armata (a loro avviso Barghouti non è abbastanza netto con i palestinesi su questo argomento) che nella valutazione (per loro positiva) dell’accordo di Ginevra. Infine sull’ambiguità nei confronti degli islamisti: sulla questione della laicità la coalizione democratica è estremamente decisa e rigida e pensa che non si possa fare alcun compromesso. 

Il 4 gennaio siamo a Tulkarem, dove visitiamo il museo cittadino derubato e svuotato dagli israeliani “per appropriarsi della nostra cultura e negare la nostra storia”, come ci dice l’assessore al turismo, e poi andiamo a Jayous, per una manifestazione di solidarietà con gli abitanti del villaggio, in cui a causa della costruzione del muro, sono stati sradicati nei primi giorni di gennaio centinaia di alberi d’olivo che verranno venduti a Tel Aviv! E’ una associazione olandese, presieduta da Greta Duisenberg, ad aver organizzato questa manifestazione, presieduta dal sindaco del paese, dal governatore di Qalkilia, a cui ha partecipato anche la deputata europea Luisa Morgantini. Gli abitanti, per bocca del sindaco, affermano la volontà di restare nelle loro case, anche se la vita diventerà molto più difficile a causa della riduzione drastica delle risorse, “anche se dovessimo mangiare erba”, denunciando la volontà di Israele di deportarli e di opporsi alla costruzione di uno Stato indipendente, attraverso l’annessione, con la costruzione del muro, di ulteriore terra, creando zone di apartheid e isolamento: la povertà aumenta e aumenta anche l’odio: qui le elezioni sembrano lontane. La violenza dell’occupazione e della sopraffazione è troppo vicina e pesante, ma alla fine anche il Governatore di Qalkilia ne riconosce l’importanza e formula l’augurio che qualcosa possa davvero cambiare, a cominciare dalla fine della costruzione del muro….

Hebron, la città delle tombe dei profeti, sacra per tutte le religioni, dove arriviamo il 5 gennaio, è forse la situazione più incredibile di tutti i territori occupati: 500.000 abitanti palestinesi, una parte della città sotto controllo dell’autorità palestinese, una parte sotto Israele. Le cinque colonie israeliane nel centro della città contano poco più di 200 persone, ma motivano la presenza massiccia dei militari, che hanno ucciso già oltre 200 palestinesi. Qui tutti hanno paura, i coloni che ci guardano sospettosi dalle finestre, i palestinesi che vivono praticamente sotto assedio, senza potersi muovere per più di 5 chilometri. Di elezioni si parla, con grandi aspettative: in primo luogo quella di un po’ di libertà di movimento, che il giorno delle elezioni ci sia la possibilità di andare ai seggi. Agli osservatori è richiesto proprio di controllare che Israele non faccia ulteriori vessazioni. In realtà nessuno crede che qui le elezioni possano essere libere, ma tutti, compreso Hamas, vogliono che si aprano negoziati nuovamente e che vengano rispettati i diritti palestinesi e il diritto internazionale. Non c’è lotta religiosa, ma nazionale.

In un clima di grande entusiasmo al campo profughi di Al Fawar, vicino Hebron, Abu Mazen terrà un breve discorso dentro una sala stipata all’inverosimile di giovani del campo, che ci accolgono con simpatia e calore. Fuori non si può stare perché da ore cade una pioggia gelata.

 

Il circolo delle famiglie in lutto: il lavoro della riconciliazione 

Incontriamo alla sera due di loro, Adel, medico palestinese che si è laureato in Italia e ha visto suo padre morire nel 1993, assassinato da un colono israeliano; Rami el Khanan, israeliano di Gerusalemme da 7 generazioni, che la sera del 4 settembre 1998 ha trovato all’obitorio il corpo straziato dall’esplosione provocata da due attentatori suicidi palestinesi, della figlia di 14 anni, Smadar. Un incontro emozionante, con persone che hanno imparato ad elaborare il proprio lutto facendone uno strumento di riconciliazione, che hanno appreso a comunicare con grande efficacia la propria esperienza. Sono in tutto 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso un familiare, che svolgono una attività di comunicazione, ascolto, incontro, particolarmente nelle scuole, che ha come obiettivo quello della riconciliazione: né della vendetta né del perdono. Il lavoro nelle scuole è difficile, ma forse il più fertile. Gli incontri sono sempre fatti in due, palestinese e israeliano/a, e le reazioni sono ovviamente diverse, ma c’è una prima fase di rifiuto da entrambe le parti degli studenti. Il palestinese è visto come potenziale terrorista dagli israeliani e l’israeliano come occupante dai palestinesi: “noi – dice Rami – ci siamo presi il carico di raccontare la nostra storia, ogni volta soffrendo. Una delle cose più belle che mi è successa è quando Khaled, palestinese a cui hanno ucciso il fratello, ha detto in pubblico riferendosi a me: ho perso un fratello, ma ho anche guadagnato un fratello.” Obiettivo comune è quello di far nascere una società dove non regni il dolore, anche se le opzioni politiche possono essere differenti: tengono molto a non definirsi come gruppo politico, pur se accomunati dalla volontà che finisca l’occupazione. Adel, medico della prima Intifada, interamente dedicato alla cura degli altri, si è trovato a un certo punto ad avere bisogno degli altri, per alleviare il suo dolore e, dopo, la sua grande amarezza per aver visto condannare l’assassino di suo padre a 4 anni di prigione, di cui solo due effettivi. “E se fosse stato un palestinese? Avrebbe avuto almeno un ergastolo…” Rami ha scoperto in una maledetta sera all’obitorio, di avere fino a quel momento vissuto con la moglie e i figli in una bolla, staccata dal resto del mondo. Il rapporto con la realtà si è stabilito, escludendo la vendetta, attraverso la ricerca delle cause profonde dell’uccisione di sua figlia. Poi è venuto l’incontro con altri e quello con una vecchia madre palestinese che aveva al collo il ritratto del figlio ucciso. Rami, figlio di un sopravvissuto all’Olocausto, oggi accusa lo stesso mondo che allora non mosse un dito per evitare quella vergogna tragica, non di stare zitto, ma di stare solo da una parte, quella di Israele. Rami come Adel confida nel lavoro e nell’appoggio della società civile europea che possa rompere il muro dell’indifferenza nei propri paesi, così come loro in Palestina e Israele cercano di rompere il muro dell’odio e della paura.

 

Il seminario dell’UNDP

A Ramallah il giorno successivo, 6 gennaio, nella prima giornata dell’incontro organizzato dall’UNDP per gli osservatori internazionali, ascoltiamo il presidente della Commissione Elettorale Centrale palestinese (www.elections.ps ), Hanna Nasir, che ci parla dell’importanza e dell’impegno messo per preparare queste elezioni dalla Commissione, indipendente e composta da 9 professionisti: giudici, avvocati, accademici, per garantirne la credibilità e l’efficienza. Il lavoro è stato fatto molto in fretta e ha colto di sorpresa tutti, data l’improvvisa morte di Arafat (le elezioni erano già previste, ma hanno dovuto svolgersi 60 giorni dopo la morte del presidente). Ci espone le aree più problematiche: quella di Gerusalemme est,  (vedi resoconto Robrto Giudici). Esprime il suo disaccordo sul sistema concordato da ANP e israeliani, ma dice anche di non poter far niente perché è una questione politica e dipende quindi dall’Autorità palestinese. La seconda difficoltà riguarda la striscia di Gaza, dove permangono i blocchi che la dividono in tre, impedendo la libertà di movimento. La situazione è peggiore che al tempo delle elezioni del 1996, ma oggi esse sono uno strumento necessario per esprimere una nuova leadership che possa risolvere il problema prioritario: fine dell’occupazione e rispetto dei diritti umani. Su questa base invita gli osservatori internazionali a verificare che l’esercito israeliano non ponga ostacoli alla libertà di movimento che, secondo l’accordo, dovrebbe valere per 72 ore, dalla mezzanotte del 6 fino alla stessa ora del 9 (scopriremo dopo che nella striscia di Gaza è solo di 24 ore e ancor meno in alcuni check points, che chiuderanno alle 16-17 del giorno 9).

Parleranno successivamente l’esperto della Unione Europea, Ron Herrmann (300 osservatori, di cui 30 parlamentari europei, su invito della Commissione Centrale), capomissione Michel Rocard, e quello del National Democratic Institute USA (100 osservatori), capomissione Jimmy Carter, che annuncerà anche la decisione di non inviare osservatori Usa a Gaza, ma solo corrispondenti palestinesi, per motivi “di sicurezza”. Parlerà inoltre il coordinatore della Unità di collegamento e sostegno delle Nazioni Unite, Sean Dunne. I loro interventi verranno completati il giorno dopo da una illustrazione molto dettagliata sulla situazione della mobilità e sulle condizioni umanitarie in West Bank e Gaza, fatta da un rappresentante dell’OCHA (Office for the coordination of the humanitarian affairs, www.ochaopt.org). Il rappresentante palestinese della sicurezza parlerà sia per garantire le condizioni di assoluta sicurezza da parte palestinese e la certezza che non ci sarà alcun atto di violenza (confermata dai fatti), che per spiegare la difficoltà di movimento per loro stessi e quindi la decisione, ad esempio per Gaza, di lavorare attraverso videoconferenze.”Le elezioni – dice – non sono per noi un campo di battaglia, ma una festa. Tutte le fazioni palestinesi sono impegnate per la loro riuscita, compreso chi, come Hamas, ha dichiarato che non andranno a votare. Ma i coloni sono organizzati e armati, a Gaza si ribellano anche all’esercito che vuole evacuarli, perciò sono un potenziale pericolo. Al momento comunque (giorno 7) la striscia di Gaza è divisa in tre parti e vogliamo che per il giorno delle elezioni sia invece aperta, dal momento che gli israeliani si sono impegnati per la libertà di movimento”

Nel pomeriggio del 6 incontriamo a Ramallah i rappresentanti di Mubadara (il movimento fondato da Mustafa Barghouti) ancora impegnatissimi nella campagna elettorale, di cui sono molto soddisfatti, che si è svolta attraverso incontri e comizi popolari di Mustafa Barghouti (fermato due volte a Gerusalemme dai militari israeliani) e un lavoro casa per casa di giovani volontari (alcuni presenti alla riunione). Si aspettano un risultato alto, oltre il 30%, e sono convinti che comunque queste elezioni rappresentano un passo avanti per la vita democratica del paese. Come gli altri partiti che abbiamo ascoltato sono per un programma fondato sull’obiettivo della realizzazione di uno Stato indipendente palestinese entro i confini del 1967, sicuri, smantellamento di tutti gli insediamenti israeliani, pieno controllo palestinese sui propri territori e democratizzazione interna dell’Autorità palestinese. 4 sono i mandati che ha dagli elettori il loro candidato: rapida realizzazione delle elezioni per il Consiglio legislativo (parlamento), separazione del potere legislativo da quello esecutivo, unificazione di tutte le forze politiche nella direzione fino alle elezioni legislative; organizzazione della vita interna civile e politica palestinese realizzando un equilibrio tra negoziati e lotta contro l’occupazione.

Diversamente da altri esprimono un giudizio molto critico sugli accordi di Oslo, “perché durante i periodi intermedi, sono continuate le azioni militari e le colonie israeliane: non c’era – dicono - un processo di pace, ma un processo senza pace. “Il popolo, aggiungono, deve poter scegliere i propri negoziatori.” Altri punti essenziali sono quelli relativi alla questione sociale e alla tutela delle cittadine e cittadini: lavoro, istruzione, salute; la lotta alla corruzione e l’ esercizio della legge, in questo senso chiedono una separazione della politica dalla economia.Polemizzano con le forze politiche (come la Coalizione democratica o Al Fatah) che li accusano di non trasparenza nelle fonti di finanziamento, ritenuto troppo cospicuo, portando un dato: “per Barghouti sono stati occupati 1400 metri quadrati di spazi lettorali, per Abu Mazen, 6500 metri quadrati. In realtà, dicono, la nostra campagna elettorale è condotta da migliaia di volontari, è fatta meglio e più organizzata”.

 

ELEZIONI A GAZA

La nostra delegazione si divide in piccoli gruppi per recarsi in diverse località nei giorni 8 e 9 gennaio: per Gaza siamo in cinque (la sottoscritta, Wilma Prandelli della Fiom di Brescia, Piero Maestri di GuerrePace, Milano, Bruna Orlandi, fotografa, Lisa Clark, Beati i costruttori di pace) ed abbiamo già chiesto e ottenuto l’autorizzazione israeliana (carta rosa) indispensabile per recarsi a Gaza, chiusa da oltre due anni (grazie alla collaborazione di Marina Pecorelli, dell’Arci, che abita a Gerusalemme per sviluppare un progetto congiunto con la Cgil e che ci ha aiutati anche per quanto riguarda l’accredito presso la CEC palestinese). Per quanto riguarda la logistica (albergo, trasporti, ecc) ci serviamo del prezioso aiuto del sindacato PGFTU di Gaza, (in particolare del suo responsabile internazionale, Abu Issam), con cui la Fiom ha rapporti di solidarietà dal 2000. Rasem Al Bayari, vicesegretario della Confederazione, è il segretario generale dei metalmeccanici e, in questa occasione, anche direttore della campagna elettorale di Abu Mazen per Gaza! Ci illustra l’organizzazione del lavoro con molta precisione e lo svolgimento delle elezioni nei seggi. Lo stesso giorno 8, dopo l’incontro con il PGFTU, incontriamo il giovane rappresentante dell’UNDP a Gaza, Luis Castellar, catalano, anche lui estremamente disponibile, ci fa il quadro delle situazioni più difficili, dal punto di vista della libertà di movimento, ci fornisce i contatti con il responsabile dell’Unione Europea, Josè Antonio De Miguel, e della Commissione centrale palestinese a Gaza, Hani, che incontriamo successivamente. Incontreremo anche nel corso della giornata Raji Sourani, responsabile del Centro Palestinese per i diritti umani, che ha in Gaza circa 300 osservatori palestinesi. Dopo i vari incontri e colloqui, decidiamo di andare a sud, verso Khan Younis, sezione elettorale di Al Mawwasi, un villaggio a ridosso del blocco degli insediamenti israeliani di Gush Khatif, di circa 5000 abitanti, una parte dei quali, oltre 200, da molti giorni non riesce a rientrare dalla città di Khan Younis (dove si sono recati per ragioni di salute, lavoro, visite, compere) al proprio villaggio. Il check point di El Touffa da tempo fa passare solo qualche persona al giorno, previa autorizzazione dei militari israeliani. Il giorno delle elezioni, ci dicono, dovrebbero essere aperti tutti i check points.

La striscia di Gaza occupa una superficie di 365 km quadrati, con 1.400.000 abitanti, vale a dire una densità per km2 di 6.4 abitanti: tra le più alte del mondo. Ci sono 44 comunità palestinesi e 23 colonie abitate da 80.000 coloni. La dimensione della crisi umanitaria è tra le più grandi: 24.000 persone sono rimaste senza casa in seguito alla loro distruzione, il tasso di povertà è il 68% e il 38% vive in una condizione di insicurezza alimentare.

 

Il giorno delle elezioni: 9 gennaio 

Partiamo alle 7,30 e verifichiamo nel percorso lungo il mare che i check points di Nezarim (il giorno prima bloccato da una montagna di tera) e di Abu Holi sono aperti. Arriviamo poco prima delle 9 al check point di El Touffa: questo è chiuso e centinaia di donne uomini bambini aspettano di potersi recare nel proprio villaggio, Al Mawasi, per rientrare nelle proprie case e per votare. C’è chi aspetta da 45 giorni, chi da 37: dalla mattina alla sera, quando sono obbligati ad andare a dormire nella moschea o ad affittare una casa. La tensione è alta e ci fermiamo a parlare con alcuni di loro, con l’aiuto del giovane dottore Mustafa, che ci fa da interprete. Veniamo a sapere che dalle 7 sono passate solo 5 persone e osservatori dell’Unione Europea. Forse la nostra presenza serve, almeno ce lo auguriamo, e alle 9 e mezzo cominciano a far entrare a cinque alla volta le persone sopra i 50 anni. Un soldato all’interno di una torretta urla gli ordini, la confusione è grande, gli uomini (quelli che aspettano da più tempo) cominciano a organizzarsi 5 per volta (le donne sono arrabbiate e agguerrite, ma alla fine accettano che passi chi è in attesa da più tempo: si conoscono tutti e anche i soldati li conoscono uno per uno): sono obbligati a mettrsi in fila su un piccolo spiazzo sotto la torretta, alzarsi la maglia, slacciarsi i pantaloni, tirarli su per mostrare le gambe. E’ una procedura umiliante e intimidatoria, ma viene accettata pur di poter passare. Dopo le 9,30 faranno passare gli uomini sopra i 35 anni: uno ci dice: dovete dirlo nei vostri paesi che ci trattano come animali! Il soldato vorrebbe che entrassimo, ma diciamo che entreremo più tardi. Le donne non entrano: i militari dicono che aspettano l’arrivo delle donne soldato per poter effettuare le perquisizioni. Quando vediamo avviato il flusso dei passaggi facciamo per entrare, il militare dalla torretta ci blocca. Aspetteremo fino alle 11,30, poi entreremo anche grazie al contatto del rappresentante dell’UNDP con il comandante israeliano, il suo vice ci da il “benvenuto” dicendoci che per motivi di sicurezza chiuderanno alle 16. Visitiamo due seggi, quello di Al Mawasi, una scuola, dove troviamo tutte le sezioni ben organizzate e una affluenza notevole. Ci sono gli accompagnatori degli anziani e di coloro che non sanno leggere né scrivere. Ci sono seduti in fila (troveremo dappertutto lo stesso) i rappresentanti di lista e osservatori palestinesi. Ci accolgono con molta gentilezza e con una certa ansia di sapere il nostro giudizio. Le schede sono piccole, con cinque simboli e due nomi senza simbolo, si piegano in due per metterle nell’urna. Prima di uscire sul pollice di ciascuno viene data una pennellata di inchiostro nero indelebile, per evitare il doppio voto. Andiamo anche al seggio Al Mawasi-Rafah, anche questa una scuola, dentro containers dipinti di blu e messi in cerchio: coordina le operazioni il preside della scuola e diversi insegnanti sono responsabili delle sezioni. Qui la situazione sociale è difficilissima: uno di loro ci accoglie dicendoci “Grazie per essere venuti a vedere come viviamo” Non c’è acqua, non c’è elettricità, non ci sono i materiali per insegnare, non si può andare e venire. Il check point più vicino (Tel El Sultan, quasi al confine con l’Egitto) è chiuso da 4 anni. Ci dicono anche che i 15-20.000 palestinesi che vorrebbero entrare dall’Egitto per venire a votare non sono autorizzati avendo chiuso anche il terminal  civile per traffici commerciali di Rafah.

Visitiamo poi due seggi a Khan Younis, uno in un piccolo villaggio vicino alla città, anche questo pur essendo piccolo, molto ben organizzato, dove aspettano il maggior afflusso dopo l’ora di pranzo e un’altra scuola in città, sede dei seggi speciali, quelli cioè dove vano coloro che non si sono registrati ma possono votare presentando il proprio documento di identità, se il loro nome è sul Registro anagrafico. Il controllo dei nomi viene fatto su tavolini nel cortile della scuola e il voto all’interno. Sentiamo spari ed esplosioni: ci dicono che questa è la normalità, dato che il luogo è a ridosso di una parte del blocco di insediamenti di Gush Khatif. Proprio quella mattina è morta in ospedale una ragazzina di 13 anni, colpita da un proiettile israeliano in casa sua tre giorni prima.

Ci consigliano di allontanarci rapidamente, cosa che facciamo anche perché dobbiamo rientrare prima del buio (il sole tramonta alle 17) quando “i militari sparano contro qualsiasi cosa si muova”.

Visitiamo ancora un seggio a Deir al Balah, dove dovrebbero votare anche gli abitanti di un piccolissimo villaggio quasi attaccato all’insediamento di Kfar Darom: Al Ma’an, 170 abitanti. Qui ci dicono che il check point ha aperto e chiuso 4 volte nella giornata (come ogni giorno, la straordinarietà della giornata elettorale non si è fatta sentire!), per cui hanno votato solo 10 abitanti: gli altri sono rimasti a casa, per paura di non poter rientrare o di trovarsi in mezzo a sparatorie, caso che è capitato, per fortuna senza conseguenze, a un professore che si stava recando al seggio e cercava di passare a piedi su un blocco di terra. Rientrando a Gaza City, veniamo a sapere che è stato deciso di prolungare l’orario di apertura seggi dalle 19 alle 21, perché nei territori della Cisgiordania, con molti più check points, la mobilità è stata più lenta. Visitiamo ancora un seggio in città, in cui è evidente la grande stanchezza di tutti, che continuano il loro lavoro con grande serietà, e infine dopo le 21 andiamo ad un altro seggio per verificare lo scrutinio: uno legge il nome sulla scheda ad alta voce, un altro fa un’asticella sulla lavagna e le asticelle vengono raggruppate in blocchetti di 5, di cui l’ultima barra le precedenti 4. Anche qui l’ordine e l’organizzazione sono encomiabili, anche qui moltissime sono le donne che lavorano nei seggi: l’omogeneità dell’organizzazione è stata un tratto distintivo. La nostra giornata si conclude prendendo un tè a casa di un caro amico e intelligente dirigente politico, Jamal Zaqout, guardando i risultati provvisori alla televisione: 65% Abu Mazen, 19% Mustafa Barghouti.

 

Grandi aspettative

In tutta la giornata, come in quelle precedenti, abbiamo sentito esprimere da tutti grandi aspettative, di cambiamento politico e sociale, di maggior libertà, di possibilità di vivere meglio, insomma di segni immediati e tangibili che corrispondano alla prova data di grande impegno e capacità di organizzazione e direzione. Ci auguriamo e auguriamo loro con tutto il cuore che queste aspettative non vadano deluse. Da subito il nostro lavoro deve contribuire a questo obiettivo, con più ampia solidarietà, con più forte pressione politica. Ce lo hanno chiesto i palestinesi, ce lo chiedono gli israeliani contro l’occupazione che abbiamo incontrato. Ultimo, la mattina dell’11, giorno della partenza, a Tel Aviv, Yonathan Shapira, il pilota israeliano obiettore che ci parla della fragilità della situazione (anche sul versante israeliano dell’appena costituito Governo Likud-Labour) e l’assoluta necessità che la comunità internazionale, civile e istituzionale, faccia anzi adesso una pressione più energica su Israele perché muova passi seri e concreti in direzione di una pace giusta.

 

 

gennaio 2005