10 anni bastano: il Wto ad un bivio senza ritorno

Antonio Tricarico

Campagna per la riforma della Banca mondiale

 

Quando,  dopo otto anni di negoziati commerciali, l’accordo costitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio, meglio nota con il suo acronimo inglese Wto, entrò in vigore il 1 gennaio 1995, questa nuova istituzione fu vista dall’establishment neoliberale globale come “il gioiello mancante nella corona del multilateralismo”, come più tardi affermato dal direttore generale del Wto Mike Moore. Il WTO fu quindi subito investito di un compito da “fine della storia”, quale quello di scrivere la “costituzione economica globale”, come reso esplicito dal primo direttore generale, l’italiano Renato Ruggiero.

Non è un caso che il Wto fu creato fuori del sistema delle Nazioni Unite, cui gli Stati Uniti, democratici o repubblicani che siano, risultano sempre più allergici. Se si vuole, così come la Società delle Nazioni dopo la Grande Guerra e l’Organizzazione delle Nazioni Unite dopo la seconda guerra mondiale, il Wto di fatto è l’istituzione globale generata dalla fine della Guerra Fredda, ovviamente con il fine di rispondere principalmente alle esigenze del suo unico vincitore.

Un “ricorso vichiano” della storia del novecento, dal momento che proprio gli Stati Uniti cinquant’anni prima avevano frenato la creazione dell’Organizzazione internazionale del commercio, aderendo solamente all’Accordo generale sulle tariffe ed il commercio, noto come Gatt, ben più debole e limitato.  Però, a partire dalla fine degli anni 70, i grandi poteri industriali americani sono diventati sempre più dipendenti dai mercati internazionali, tramite delocalizzazioni ed investimenti in tutto il pianeta, e quindi bisognosi di un sistema di governance globale per il commercio che proteggesse i propri interessi. Un punto centrale nella visione Clintoniana che ha portato alla nascita del Wto.

A dieci anni di distanza, così come il resto del sistema multilaterale il Wto è in crisi. Due delle ultime tre conferenze ministeriali, a Seattle e Cancun, sono malamente fallite in meno di quattro anni, e soprattutto il nuovo ciclo negoziale “del millennio”, meglio noto come l’Agenda dello sviluppo di Doha, avviato nel novembre 2001 in Qatar, risulta ancora ben lungi dal giungere a conclusione.

E’ lecito chiedersi quanto dieci anni di regime Wto abbiano portato lo sviluppo promesso, specialmente ai paesi del Sud del mondo, che furono forzati prima ad entrare nella grande partita del commercio globale in nome di promesse mai concretizzatesi, e quindi a negoziare un rafforzamento del mandato del Wto a Doha, nel clima politico a senso unico dell’immediato dopo-11 settembre.

Oggi finalmente sta nascendo una disputa anche tra gli economisti su quanto la liberalizzazione del commercio abbia contributo alla crescita economica ed all’aumento del prodotto interno lordo globale negli ultimi dieci anni. Dietro la retorica dell’ideologia liberale, emerge che in realtà il guadagno è stato alquanto limitato e se consideriamo i paesi più poveri, il divario tra loro ed il ricco Nord del mondo è aumentato.  E’ giunto il momento di avere l’onestà intellettuale di rimettere in discussione quella che dal 1995 in poi è emersa come l’evoluzione del dogma neo-liberista degli aggiustamenti strutturali propugnati dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale: soltanto il libero commercio a livello internazionale può essere la leva per lo sviluppo, specialmente per i più poveri.

Negli ultimi dieci anni i paesi in via di sviluppo hanno lentamente scoperto che i 19 accordi parte del “single undertaking” del sistema Wto, cui tutti devono aderire per essere membri del club, sono stati concepiti chiaramente contro il loro sviluppo e che l’abolizione dei sistemi di controllo dell’offerta tramite quote per le importazioni ha portato più danni che benefici.

Ad esempio, l’accordo sugli investimenti Trims, o il rafforzamento di quello sui prodotti industriali, Nama, li privano sempre più del diritto di utilizzare la politica commerciale per la propria industrializzazione, nonché l’accordo Gats pregiudica la possibilità di creare un giorno un’economia nazionale più leggera di servizi. Quindi, secondo l’accordo sui diritti di proprietà intellettuale, il famigerato Trips, i paesi del Sud hanno concesso a grandi multinazionali dell’informatica, quali Microsoft e Intel, il potere di monopolizzare l’innovazione nei settori ad alta intensità di conoscenza tramite l’imposizione di brevetti globali, ed hanno dato il via libera alle multinazionali biotecnologiche, quali Novartis e Monsanto, per la privatizzazione dei frutti dell’interazione millenaria tra le comunità umane e la natura, quali i semi, le piante e la vita animale.

Infine, il Sud del mondo ha scoperto che l’accordo sull’agricoltura, osteggiato in passato dagli Stati Uniti all’era del Gatt, in realtà serve per aprire i mercati agricoli del Sud permettendo al grande agro-business del Nord e dei paesi esportatori di consolidare il proprio sistema di sussidi causa di dumping e distruzione per l’agricoltura diretta su piccola scala in tutte le parti del mondo. Si pensi solamente che i ventinove paesi OCSE più ricchi al mondo hanno aumentato i propri sussidi da 182 miliardi di dollari nel 1995 a ben 362 nel 1998, quasi tutti sempre più a favore della grande industria.

Ma il fallimento della quinta conferenza ministeriale di Cancun del settembre 2003 ha chiaramente mostrato come il dominio economico globale a guida statunitense ormai volga al termine ed emergano nuove potenze regionali nel Sud del mondo, a partire dalla Cina, che possono anche bloccare i negoziati e proporre alternative, pur se non sempre nella direzione auspicata dalla società civile globale e da coloro che sempre più sono esclusi dal mercato globale.

Uno scenario che mette in crisi anche la vecchia Europa, sistema quanto mai poco proiettato sul mercato globale, nonostante la sua cocciutaggine a perseverare in una competizione con l’altra sponda del’Atlantico destinata al fallimento. Si pensi che quasi l’80 per cento del suo commercio rimane all’interno del mercato unico dell’Unione.

La scadenza dell’accordo multi-fibre lo scorso 1 gennaio, che conforma anche il settore del settile al regime di libero commercio senza eccezioni del Wto, risulta emblematico della crisi dell’intero sistema e delle implicazioni che ormai la non-discriminazione ad ogni costo nel commercio mondiale comporta anche per quei paesi ricchi, come l’Italia, che stentano a competere in una globalizzazione al ribasso e pensata soltanto per pochi colossi economici e finanziari. Così come la vergogna della mancata soluzione per la questione cotone per milioni di contadini dell’Africa occidentale dimostra come l’applicazione dell’ortodossia commerciale neoliberista non ha limiti, neanche di fronte alla necessità di concedere eccezioni ai più poveri senza per questo impattare sostanzialmente le economie dei più ricchi.

Inoltre la corsa degli ultimi anni da parte dei paesi ricchi a stipulare accordi bilaterali e regionali con i paesi del Sud, talvolta anche più avanzati nelle liberalizzazioni del regime Wto, testimonia che la perla del sistema multilaterale così come concepita non riesce a dare risposte al nuovo conflitto economico Nord-Sud in maniera innovativa e meno ideologica dell’approccio neoloberista.

Né le attuali proposte di riforma del sistema di governo interno dell’istituzione sembrano adeguate. Il recente rapporto degli otto saggi coordinati da Peter Sutherland, su richiesta del direttore generale del Wto, conferma come su queste basi di conflitto economico Nord-Sud e senza modificare le assunzioni fondanti del Wto – quali il principio di non-discriminazione, della nazione più favorita e del trattamento nazionale – solamente una strutturazione più verticistica guidata dai paesi forti e da un segretariato dotato di maggiori poteri può rendere l’istituzione più funzionante, il tutto a scapito della democrazia e dei paesi più piccoli e poveri.

D’altronde questo è quello che di fatto già inizia a verificarsi, se si pensa all’ultimo Consiglio Generale di Ginevra dello scorso luglio quando i negoziati lanciati a Doha sono stati rimessi in carreggiata solamente grazie all’imposizione di un accordo pre-cucinato a cinque tra Stati Uniti, Unione Europea, India, Brasile ed Australia. Per altro, creando il precedente di riunioni del Consiglio generale che di fatto sostituiscono le ben più problematiche e partecipate conferenze ministeriali assediate costantemente dalla società civile.

Anche la tendenza recente dei poteri forti ad evitare di presentare ricorsi particolarmente importanti al meccanismo di risoluzione delle dispute del Wto, come nel caso della questione Boeing tra stati Uniti ed Ue, sembra confermare la volontà di creare un sistema di potere a più livelli, dove saranno pochi ed in maniera poco trasparente a guidare la baracca.

Ancora più emblematica, infine, la ricorrente proposta di ricorrere ad accordi plurilaterali tra pochi paesi all’interno del Wto pur di andare avanti in tempi stretti con i negoziati. Tanto prima o poi anche gli altri si adegueranno per non essere progressivamente estromessi dal Club.

Un tale approccio evita, invece, di affrontare il vero problema del sistema Wto oggi, ossia quali forme innovative di governance – inclusa la rappresentazione democratica delle diverse aree economiche regionali – che contemplino le esigenze di tutti i paesi, grandi e piccoli, e quali cambiamenti nel mandato dell’istituzioni siano necessari per rendere possibile la definizione di un sistema più equo di regole commerciali multilaterali.

Viene allora da chiedersi quale sia l’importanza della prossima conferenza ministeriale di Hong Kong in uno scenario in cui gli scambi segreti tra i poteri forti principalmente sui tre capitoli dell’agricoltura, dei prodotti industriali e dei servizi potrebbero essere decisi già a Ginevra lontano dai clamori della conferenza ministeriale. Anche se i critici del Wto si augurano un possibile “non c’è due senza tre”, auspicando un nuovo e definitivo fallimento, in realtà è giunto il momento di porre apertamente l’istituzione principe di una globalizzazione iniqua di fronte ad un bivio: o se ne riduce significativamente il mandato, accettando che possano esistere eccezioni al principio di non-discriminazione commerciale secondo un rivisto sistema generalizzato di preferenze – a partire dalle questioni cruciali dell’agricoltura, dei servizi essenziali e dei prodotti industriali di base - oppure che si vada verso il collasso delle attuali regole commerciali multilaterali.

La nuova Hong Kong è parte della Cina, e non è detto che proprio nella terra della nuova super-potenza emergente capitoli definitivamente un’istituzione perché vittima della stessa globalizzazione che voleva promuovere “senza se e senza ma”, riaprendo così il dibattito politico sulla riforma dell’intero sistema internazionale e prefigurando la creazione di nuove forme istituzionali globali, quali un consiglio economico e sociale per lo sviluppo umano in un rinnovato sistema delle Nazioni Unite che agisca come cassa di compensazione politica del processo di globalizzazione al fine di prevenire nuovi conflitti militari senza via alcuna di ritorno.

aprile 2005