Il pacifismo sindacale. Il legame non è nuovo. Ma negli ultimi anni l’investimento che il sindacato ha fatto sul tema della pace non ha precedenti. Le ragioni di una scelta a tutto campo.
Alessandra Mecozzi, Responsabile internazionale Fiom-Cgil Pubblicato su Mosaico di Pace, n. 6 giugno 2006 Siamo un sindacato pacifista, “contro la guerra senza se e senza ma”. Pacifismo che ha una ragione semplice: i lavoratori e le lavoratrici sono le prime e fondamentali vittime di guerre che vengono fatte per interessi politici ed economici dei potenti. Sono vittime quelle che vengono mandate a combattere e sono vittime quelle che stanno sotto le bombe. Non sempre nella storia, anche recente, i sindacati hanno fatto la scelta di un vero pacifismo, né in Italia né in Europa. In occasione della prima guerra del Golfo, legittimata dal parere delle Nazioni Unite, a cui si oppose un grande movimento, la Cgil si divise, molti la considerarono una guerra “giusta”. Il pacifismo è una politica, non un’ideologia. E forse è proprio questa la ragione delle maggiori contraddizioni all’interno della Cgil. Credo che sia ancora molto forte un’idea, che è propria della storia del movimento operaio, secondo la quale la politica, in particolare quella internazionale, è materia dei partiti, ai sindacati in quanto organizzazioni sociali spetta “la solidarietà”. Aggiungo che la condizione per essere coerentemente attore di una politica di pace per un sindacato è la sua indipendenza da partiti politici e assetti di governo. Un po’ di storia Quando nel 1999 venne deciso dalla Nato il bombardamento di Serbia e Kosovo, in nome dell’ingerenza umanitaria (vigente il governo di centrosinistra), la Fiom condannò immediatamente quell’azione di guerra – che le Confederazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil avevano invece definito “contingente necessità” – e partecipammo alla manifestazione del 2 aprile del movimento per la pace! Nel giugno 1998, avevamo organizzato, a Venezia, un incontro nazionale di dirigenti Fiom con i sindacati metalmeccanici di tutti i Paesi della ex-Jugoslavia, dal titolo “La pace al lavoro” – i cui atti uscirono proprio quando le bombe della Nato avevano cominciato a cadere, e avevamo saputo dell’uccisione del rappresentante sindacale del Kosovo, Agim Hairizi, che aveva partecipato al nostro seminario, nel secondo giorno dei bombardamenti: una delle prime vittime tra coloro che le bombe dovevano proteggere! Con l’invasione dell’Iraq si è passati dalla guerra umanitaria a quella preventiva (fondata sulla grande menzogna delle armi di distruzione di massa presenti in Iraq) e per l’esportazione della democrazia. Non slogans, ma una vera e propria strategia delineata dall’Amministrazione americana nel settembre 2002 con il documento “La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America”, che prendendo le mosse dagli attentati terroristi dell’11 settembre dell’anno precedente, dichiara la “guerra al terrore”, coniugando questa guerra senza limiti né di tempo né di spazio, con il concetto di espansione dei liberi mercati e del libero commercio. Non a caso, subito dopo l’occupazione dell’Iraq, proprio alcuni sindacati degli Stati Uniti, unitisi nella “US Labor Against the War” (USLAW), denunciavano, nel documento “The Corporate Invasion of Iraq”, la concessione da parte del Governo degli Stati Uniti, a 18 importanti multinazionali americane, di consistenti e proficui contratti per operare in Iraq. A sottolineare quanto il nesso economico politico militare (per non parlare del tentativo di appropriarsi della prima risorsa irachena, il petrolio) sia in ogni guerra forte e quanto spetti a lavoratori e lavoratrici, anche su scala globale, opporsi con radicalità alla guerra. Una radicalità necessaria Questa radicalità implica coniugare l’impegno contro la guerra e la richiesta del ritiro immediato delle truppe dall’Iraq (art. 11 della Costituzione), con quello, faticoso e quotidiano, di costruzione di una cultura di pace, di “ponti” radicati nelle società: ponti rappresentati dalle relazioni tra i lavoratori, i sindacati, le società civili dei luoghi in conflitto, per poi poter attivare una pratica politica, per il disarmo e la riconversione civile delle produzioni militari, tanto più difficile per un sindacato che rappresenta anche migliaia di lavoratori dell’industria armiera. Le relazioni con le società civili dei Paesi in conflitto si basano sulla solidarietà costruttiva: al già citato caso dei Balcani, aggiungo Palestina – Israele, fin dal 1988, inizio della prima Intifada, e quello del Kurdistan turco. Il lavoro per la pace è basato su tre direttrici: incontri e delegazioni nei territori palestinesi occupati e in Israele, in Kurdistan e in Turchia, con sindacati e associazioni di società civile. Lo abbiamo chiamato equi-vicinanza, in opposizione a quella equidistanza politica che non distingue tra chi occupa o opprime e chi subisce; inviti in Italia per iniziative di dialogo, che permettano l’ascolto e il confronto diretto con le esperienze di chi vive in situazioni di guerra; progetti concreti per sostenere economicamente e politicamente la resistenza nonviolenta delle popolazioni, ultimo quello per l’affidamento di famiglie di un villaggio palestinese, Masha, espropriate delle proprie terre dalla costruzione del muro costruito da Israele. Ci rivolgiamo direttamente alle strutture sindacali e ai lavoratori, ci interessa che il loro contributo materiale passi attraverso la conoscenza della situazione, le ragioni dei progetti, il rapporto diretto, laddove possibile, con lavoratori e sindacati o associazioni dei Paesi interessati. È una strada che dispone di mezzi limitati, ma che cerca di far agire la politica di pace in prima persona da coloro che vogliamo rappresentare. Rifiutiamo di fare assistenza e di favorire quel rapporto disuguale tra le parti con la dipendenza della parte più debole, che spesso inevitabilmente i cospicui finanziamenti provenienti da enti o istituzioni provoca, creando delega, non assunzione di responsabilità da parte del sindacato nel suo insieme. E infine: disarmo e riconversione civile dell’industria militare. Per aver parlato e ascoltato più volte delegati di fabbriche produttrici di armi, so che anche all’interno di quelle fabbriche ci sono opinioni diverse, insieme a un dato comune: non c’è libertà di scelta del proprio lavoro (non si può dire altrettanto di chi investe in quel settore). C’è chi è orgoglioso della propria alta professionalità e “rimuove” la finalità di ciò che produce; chi ne è consapevole, ma sa di non avere alternative; c’è anche, soprattutto tra i giovani, chi rifiuta di accettare quel tipo di lavoro per ragioni etiche e politiche. È comunque presente la paura della perdita del posto di lavoro di fronte a una prospettiva di riconversione e di disarmo, in una industria che ha subito forti ristrutturazioni negli anni Ottanta, e che oggi appare invece in fase espansiva. Questo è un tema non adeguatamente considerato nel movimento per la pace. Si tratta di un lavoro difficile, abbiamo per questo aderito alla “Rete disarmo”, che fornisce utilissime informazioni e analisi; sosteniamo un progetto di legge, che, si spera, verrà discusso nella prossima legislatura, per la riconversione civile, con attenzione alla salvaguardia dei posti di lavoro e alla situazione produttiva dei territori, nonché alle modalità per definire alternative produttive. Aderiamo alla campagna Controlarms, per un trattato internazionale sul controllo delle armi, perché siamo convinti che il tema debba essere oggetto di cultura e iniziativa internazionale, per evitare la semplice testimonianza. Negli anni Ottanta, quando si parlava seriamente di disarmo e di pace mondiale, e qualche passo concreto in questo senso veniva fatto anche dagli Stati, fu certo più facile lavorare sul terreno della riconversione. Fiom e Fim lo fecero in diverse regioni. Oggi, in un’epoca di riarmo globale, quando lo stesso Trattato Costituzionale Europeo propone un esercito europeo di difesa insieme a un aumento complessivo della capacità militare dei diversi Paesi, è ancora più necessaria una battaglia politica e culturale di livello nazionale e internazionale di cui – credo – tutte le forze sinceramente per la pace dovrebbero farsi protagoniste. A mio avviso si tratta di una lotta per la sopravvivenza della comune umanità, l’unica alternativa alla guerra permanente e alla legge del più forte. Quando una guerra comincia con bombardamenti, con repressione militare, in sostanza quando il conflitto si trasforma in conflitto armato “...a quel punto non si contano le perdite dei gruppi dirigenti politici, militari ed economici, si contano solo le perdite della popolazione, dei lavoratori che saranno quelli che combatteranno gli uni contro gli altri, in nome di etnie, di politiche, di valori che sono imposti dalla cultura dominante, in questo caso dalla cultura americana”. Claudio Sabattini, già segretario generale della Fiom |