Di ritorno dalla Palestina

Missioni civili - Action for Peace - 27/2-4/3

Per una protezione internazionale della popolazione civile

 

Questa missione si è svolta nel quadro delle decisioni del congresso della Fiom relative all’invio continuativo di missioni civili. Era composto da 13 dirigenti Fiom.

E’ stata necessaria la morte del fotografo Raffaele Ciriello perché la pubblica opinione si interessasse a quanto succede in Palestina. E’ stato necessario dare un nome e cognome, in qualche modo a noi familiare, a una delle centinaia di vittime di questi ultimi giorni, per sentirsi umanamente coinvolti da quella spaventosa tragedia che, sotto i nostri occhi, si sta compiendo in Medio oriente.

Chi scrive è di ritorno da quelle terre, in quanto componenti di una delegazione della Fiom-Cgil, che aveva il compito di rinsaldare i contatti con i sindacati palestinesi e israeliani, con i quali la Fiom-Cgil è legata da un lungo percorso di collaborazione e solidarietà, in nome della pace e dello sviluppo.

In quei giorni, che vedevano l’inizio di questa nuova guerra, con i primi rastrellamenti nei campi profughi, con i bombardamenti di Ramallah e Betlemme e il primo attentato nel quartiere ebraico di Gerusalemme, abbiamo incontrato esponenti del governo palestinese come Yasser Abid Rabbo, del partito di Al Fatah, dei sindacati palestinesi della striscia di Gaza, come esponenti del movimento israeliano Peace now, di cui fanno parte anche i gruppi che promuovono l’obiezione di coscienza al servizio militare nei territori occupati.

In tutti questi soggetti prevalevano due sentimenti molto forti: da una parte la determinazione a resistere, dall’altra la ricerca della pace come unico sistema per uscire da una situazione non più tollerabile. Ed era sempre presente una domanda: “Perché la Comunità internazionale, l’Onu, gli Usa, la Comunità europea, non fanno niente? Perché si tollera la costante violazione degli Accordi di pace di Oslo?”

Pur ammettendo una certa nostra visione di parte, non possiamo non dare loro ragione quando abbiamo ancora negli occhi le disumane condizioni imposte dall’esercito israeliano a queste popolazioni: posti di blocco che chiudono ogni città; limitazioni e arbitrio nella libertà di movimento; miseria, macerie, degrado nei campi profughi e disoccupazione fra il 70 e l’80% nel resto del paese; crollo di qualunque attività economica (a partire da quella turistica); continui insediamenti ebraici ancora disabitati, ma presidiati dall’esercito; strade divise in due da muri per consentire la circolazione separata fra macchine dei coloni e quelle dei palestinesi.

E tutto ciò in territori dichiarati dagli Accordi di Oslo di competenza palestinese.

Ma pensiamo anche alla vita dei coloni (i più immigrati dai paesi dell’Est e ora anche dall’Africa) negli insediamenti ebraici: scortati quando si muovono, chiusi nei loro fortini e condannati, per lavorare, a sostituire lavoratori palestinesi che vengono licenziati per far posto a loro. Quale mai ideale può giustificare una vita che è fonte di miseria e di avversione in un’altra persona? Per noi, anche loro, nella gran parte, vittime inconsapevoli di un delirio di potenza.

Adesso, con il bagno di sangue di questi ultimissimi giorni, tutto ciò appare documentato e tutto il mondo civile si interroga come possa un governo di un paese moderno e democratico come Israele, giungere a tanto arbitrio e prepotenza in nome della propria sicurezza.

Ci colpì il commento di una suora francescana a Gerusalemme (della quale eravamo ospiti casuali) di fronte alle immagini televisive di quanto stava accadendo: “Sharon è un pazzo, sta distruggendo Israele”.

Quella suora ha ragione: Sharon va fermato.

La politica dell’uso della forza genera solo guerra, distruzione e odio. Bisogna dare più voce alle forze di pace, presenti nei due popoli, con una politica internazionale che ribadisca i principi sanciti dagli Accordi di Oslo e far sì che vengano rispettati. Bisogna ricostruire rispetto e fiducia reciproca, non con appelli come ci siamo limitati a fare finora, ma con interventi mirati alla soluzione reale dei problemi. Bisogna che la questione palestinese ritorni nell’agenda politica del nostro paese.

E anche nella nostre coscienze. Si sta commettendo, infatti, una evidente ingiustizia che non può essere tollerata.

La più grande delle ingiustizie, la più infame vergogna per ogni spirito democratico è quella della privazione sistematica e programmata, attraverso la forza, della libertà altrui. Non vorremmo mai più sentire dire, come abbiamo sentito da un esponente di Forza 17 (laureato in Italia e tornato nella sua città) a Betlemme, e di fatto prigioniero nella sua casa: “Non sopporto di veder crescere le mie bambine solo in queste quattro strade. Questa non è vita”.

 

Maurizio Beltramme – Luciano Gabrielli

Segreteria Fiom-Cgil provinciale, Livorno