Da
Nablus di
Vincenzo Argentato, Fiom Campania Come
fanno i palestinesi a vivere in quelle condizioni? Come fanno a
sopportare il peso dei giorni e le angosce delle notti? Ci vuole una
grande speranza nel futuro e una grande fiducia nella vita. A osservare
il paesaggio, a volte brullo e spigoloso altre dolce e profumato, con i
colori tipici del Mediterraneo, così come gli odori e i sapori, non si
può non pensare che sia giustizia “divina” dare a quei luoghi pace
e prospettive. A
osservare sul campo ciò che avviene spesso si resta ammutoliti e
disperati. Per fortuna siamo solo osservatori e le nostre frustrazioni
ce le teniamo, le elaboriamo e traiamo da quel popolo la forza e la
speranza per continuare a stargli vicino, e a dare il nostro contributo
a quello che è il loro percorso di riconquista di pace, dignità e
libertà. La
delegazione italiana che si è ritrovata tutta insieme a Gerusalemme il
3 gennaio, si è poi divisa per raggiungere i posti di osservazione
elettorale assegnati, che è lo scopo prevalente della missione, l’8
gennaio. Al
mio gruppo è toccata Nablus. Appena
giunti la mattina, subito ci viene confermata quella straordinaria
voglia di libertà e di partecipazione del popolo palestinese. Manifesti
elettorali ovunque, auto che scorazzano avanti e indietro con i megafoni
a tutto spiano, comitati elettorali a ogni angolo, il livello di
partecipazione del popolo è altissimo. Per strada ci fermano in tanti e
ci fermiamo a parlare con donne, ragazzi, anziani. Ci riconoscono perché
portiamo i bracciali gialli degli osservatori internazionali che ci
avevano consegnato a Ramallah. Non vogliono protezione, non ci chiedono
di difenderli da eventuali brogli. Sono sicuri della loro ferma volontà
di democrazia. Con noi vogliono discutere di un candidato piuttosto che
di un altro, dei loro programmi, della fiducia che hanno in questo o in
quello. La pace è il filo rosso che lega tutti. La sensazione è che si
tratti di un popolo che, come dovrebbe essere per tutti i popoli della
terra, molto semplicemente e civilmente si appresta a scegliere il
proprio rappresentante. L’occupazione, un triste ricordo. Nablus ci ha
donato una bella giornata. Il
giorno delle elezioni comincia presto. Alle 6,30 del mattino di
domenica, nei 112 seggi elettorali di Nablus e dei villaggi circostanti
che costituiscono l’intero distretto tutto è pronto. È una scena
bella e costante in tutti i seggi quella che si presenta agli occhi
degli osservatori internazionali: rappresentanti di lista, scrutatori,
presidenti, tutti pronti, sorridenti, disponibili, consapevoli
dell’importanza che quell’evento ha per se stessi, per i propri
figli, per il loro popolo. Ai
check points la promessa fatta dagli israeliani di non ostacolare
le operazioni di voto rendendo più agevole il passaggio ai posti di
controllo viene sostanzialmente rispettata ovunque. Per
tutto il giorno un andirivieni di auto molto sonore ha conferito alla
giornata un alone di festa nonostante, come si sa, la domenica sia un
normale giorno lavorativo. L’appello
al voto è stato reiterato in continuazione dai megafoni delle auto in
circolo perpetuo. Nei
seggi, man mano che l’affluenza aumentava anche il clima di
soddisfazione montava. Le operazioni di voto si sono svolte con
regolarità ovunque, in città come nei villaggi, nei campi profughi
come nei centri sottoposti a coprifuoco fino alla sera prima. Insomma
proprio una bella giornata, presagio di un altrettanto bel futuro. Con
il tramonto, il mercato brulicante si è spento e l’affluenza è
schizzata in alto. Alla fine si arriverà intorno al 75%. La
commissione elettorale centrale annuncia una proroga dell’orario di
chiusura delle urne di 2 ore, si chiude alle 21. Si passa direttamente
allo spoglio e anche qui finisce come la media nazionale, l’ordine di
arrivo è rispettato. Problemi riscontrati assolutamente irrilevanti. Il
gruppo si ritrova nel luogo dove siamo ospitati, il presidio di pace che
l’Assopace di Napoli ha realizzato un anno e mezzo fa proprio a Nablus.
Una tazza di te bollente è quello che ci vuole, molti di noi sono
stremati dal freddo e qualcuno (il sottoscritto) è oramai in preda a un
tremendo raffreddamento. Qualche
ora di riposo e si riparte per Gerusalemme, qualcuno ha il volo di
rientro per l’Italia la sera, gli altri l’indomani. Usciamo dal
posto di controllo così come siamo entrati, con semplicità e
addirittura il sorriso dei soldati. Il morale è alto. Il
taxi ci conduce senza problemi fino a pochi metri da Qalandya dove, non
si capisce perché, l’esercito ha sbarrato la strada e tutto quello
che riusciamo a sapere è che non si passa fino a che non decideranno
che si può. Scegliamo di muoverci a piedi, ormai è il tramonto. Un
altro tassista in un inglese improbabile ci fa capire che se disponiamo
di passaporti c’è un altro modo per raggiungere Gerusalemme, si
tratta di arrivare a un non meglio specificato villaggio e poi con un
autobus di linea, passando per un posto di controllo – per questo i
passaporti – si può raggiungere la meta. Si va. Giungiamo
all’ingresso di questo villaggio e veniamo accolti da una jeep
militare con quattro ragazzi-soldato israeliani in tenuta da
combattimento, che evidentemente da pochi istanti avevano istituito quel
posto di blocco poiché eravamo i primi della coda che, in ogni caso, si
allungava a vista d’occhio data l’ora di rientro per tutti quelli
(non molti per la verità) che hanno un lavoro. Qualche
anziano signore chiedeva di passare, qualche altro chiedeva conto del
blocco, tant’è, da lì a poco è stato tutto un brillare di bombe
assordanti e lacrimogeni. Non abbiamo capito il perché, o forse sì:
nessuna illusione, elezioni o non elezioni, qui si deve sapere chi
comanda e chi decide. E in Palestina non sono i palestinesi. Dopo
un’ora liberano la strada e riusciamo a raggiungere Gerusalemme come
previsto. La disperazione fa di nuovo capolino. Sarà ancora lunga e
dura. |