Elezioni a Gerusalemme 

(a cura di Roberto Giudici)

Nei giorni immediatamente precedenti all’appuntamento elettorale, il governo israeliano dichiarava di voler favorire la partecipazione al voto alleggerendo i controlli nei territori palestinesi occupati aprendo i check points e lasciando libertà di movimento alle persone.

Nel contempo però diventava sempre più chiara la volontà di negare politicamente e di ostacolare in ogni modo l’evento elettorale nella città di Gerusalemme ritenuta, oggi più che mai con la dirigenza Sharon, la capitale unica e indivisibile di Israele dopo l’annessione anche formale allo stato ebraico avvenuta pochi mesi dopo l’occupazione del 1967.

Per questo abbiamo deciso di monitorare con particolare attenzione anche il voto di Gerusalemme dentro e fuori la città, a partire dalle vie di accesso ostacolate dai check points e dalla presenza del vergognoso muro giustamente definito dell’apatheid.

Dalle prime ore della giornata elettorale del 9 infatti abbiamo potuto verificare e documentare in diversi punti di accesso alla città, ai check points di Al Ram e di Qalandya, come presso il passaggio (un cancello di un istituto religioso) attraverso il muro ad Abu Dis le difficoltà di movimento imposto alla popolazione palestinese dai militari israeliani che oltre ai consueti controlli estenuanti, non permetteva l’accesso alla città pur in presenza di permessi per lavoro e identificava con trascrizione del numero di ID anche i residenti palestinesi di Gerusalemme.

Le procedure stesse del processo elettorale riguardante la città imposte dal governo israeliano all’Autorità palestinese, risultavano immediatamente una violazione palese degli standards minimi per elezioni libere, indipendenti e democratiche oltre che della Quarta Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni Onu riguardanti lo status di Gerusalemme in qualità di città sotto occupazione.

La sottrazione del processo elettorale in Gerusalemme all’Autorità palestinese avviene dall’inizio, imponendo il numero max di votanti - irrisorio di 5.767 relativamente agli aventi diritto di 124.000- e continuando con l’istallazione dei seggi – nel numero assolutamente insufficiente di 5- presso gli uffici postali israeliani, con impiegati dipendenti israeliani a gestire le procedure del voto.

Le urne stesse, diversamente da quelle trasparenti e rispondenti agli standard impiegate nel resto dei territori occupati, a Gerusalemme erano costituite da normali cassette da lettera dell’ufficio postale.

L’apice del grottesco si toccava con l’operazione di voto perfettamente corrispondente in realtà all’invio di una lettera o di una corrispondenza poichè  l’elettore palestinese, dopo aver votato esattamente di fronte all’impiegato postale israeliano (non erano ammesse cabine), racchiudeva la scheda in una busta che lo stesso impiegato infine deponeva nell’urna-cassetta postale.

Molte persone che non risultavano ufficialmente iscritti al seggio venivano indirizzati ad altre postazioni elettorali fuori dalla città senza alcuna indicazione precisa, creando ressa e confusione fuori dagli uffici postali e il tutto avveniva con consistente  e costante presenza di apparati di sicurezza israeliani, accompagnati in qualche caso da interventi di disturbo dei coloni.  

L’intrusione più totale di Israele in ogni fase del processo e in sostanza la sua gestione mirava a ribadire il pieno controllo politico della città e il messaggio lanciato dalle stesse assurde procedure (da ufficio postale) era quello della registrazione di un voto effettuato da cittadini residenti all’estero.

Al contrario nei villaggi fuori la città il clima era completamente diverso, quasi gioioso e di festa con i militanti dei vari partiti impegnati fin dal mattino molto presto in rumorosi caroselli con macchine e pulmini tappezzati di manifesti  e un intenso servizio a domicilio per favorire l’affluenza al voto anche di anziani.

I seggi dei villaggi e dentro i campi profughi organizzati nelle scuole e negli uffici comunali erano semplici, curati e ben organizzati e, come sempre molto ospitali con gli “osservatori internazionali”che i palestinesi non hanno mai percepito come fastidiosi “controllori” ma al contrario come testimoni di un momento importante nel loro cammino di liberazione e di indipendenza.