Di ritorno da Palestina e Israele

«Action for peace»

Missioni civili per la protezione del popolo palestinese

 a cura di Alessandra Mecozzi, Ufficio internazionale Fiom

 

Diario di viaggio 

E’ rientrata il 3 gennaio sera  una delegazione della Cgil  composta da 24 dirigenti e delegati sindacali, tra cui 13 della Fiom, che ha partecipato all' iniziativa «Action for peace», indetta da un insieme di associazioni a livello europeo. La delegazione italiana era composta in totale da 200 persone, in rappresentanza di diverse associazioni, tra le quali Arci, Assopace, Ics, Donne in nero, Salam Ragazzi dell’Ulivo, quattro parlamentari (Prc, Ds, Comunisti italiani), giornalisti, fotografi. Molte persone partecipavano a titolo personale, pagando di tasca propria viaggio e soggiorno. Il nostro programma ha seguito in parte, insieme alle delegazioni di altri paesi – in maggioranza belghe e francesi – il programma preparato dal Pngo (organizzazioni non governative palestinesi, coordinate da Mustapha Barghouti), in parte si è svolto indipendentemente.

Obiettivi centrali di «Action for peace», che intende continuare con le sue missioni civili, sono la pressione sulle istituzioni internazionali per l’invio di osservatori internazionali in Palestina e una pratica, insieme a palestinesi e israeliani, di una resistenza basata sulla disobbedienza civile e l’azione non violenta.

In questo quadro il giorno 28 abbiamo partecipato alla manifestazione (circa  4.000 persone, con una presenza purtroppo piccola di palestinesi, data la loro impossibilità di movimento a causa dell’assedio israeliano) indetta dalla Women coalition for peace, promossa dalle donne israeliane, con la partecipazione  di parlamentari, che si è recata da Gerusalemme ovest alla Città vecchia, dove ci sono stati alcuni interventi delle delegazioni  e delle personalità presenti.

Successivamente, presso l’Imperial hotel, nella Città vecchia, abbiamo partecipato all’assemblea in cui è stato presentato l’appello per la pace, promosso da Sari Nusseibeh,  commissario nominato dall’Olp per Gerusalemme, sottoscritto da personalità israeliane e palestinesi, a cui si sono aggiunte anche molte delle nostre firme.

Ci sono stati molti interventi: per i palestinesi, oltre a  Sari Nusseibeh, è intervenuta Zahira Kamal, per la parte israeliana una serie di parlamentari del Meretz, lo scrittore David Grossman, Galia Golan della Coalizione delle donne per la pace. Da parte palestinese è stata sottolineata la necessità del rispetto delle risoluzioni internazionali, compresa la 194, sul diritto al ritorno dei profughi; da parte israeliana la necessità di non limitarsi ad appelli, ma di manifestare la propria volontà di fine dell’occupazione anche nelle strade (Shulamit Aloni).

In un incontro successivo con il gruppo pacifista israeliano New profile, abbiamo ascoltato un'analisi precisa del processo di militarizzazione della società israeliana e del lavoro che viene fatto da questo e da altri gruppi in territorio israeliano per modificare proprio questo aspetto, sia attraverso il sostegno alla obiezione di coscienza dei giovani che non vogliono prestare servizio militare nei territori occupati, sia attraverso la costruzione di alternative come il servizio civile, oggi accessibile solo alle donne, sia con la messa in discussione di una composizione e direzione della società fatta per lo più da militari, “gente che non conosce l’arte di negoziare e fare accordi”.

Alla fine di una lunga e intensa giornata ancora un incontro (presenti tutte le delegazioni europee, circa 400 persone) con il parlamentare arabo-israeliano Azmi Bishara,  a cui è stata recentemente tolta l’immunità parlamentare, con l’accusa  di sostenere il terrorismo palestinese. In un lungo e applauditissimo intervento, Azmi Bishara ha analizzato i vari significati della parola terrorismo in relazione ai contesti e ai soggetti di cui si parla ( “Se, come sostengono gli americani, il terrorismo è un'azione violenta contro i civili per ragioni politiche, allora  la resistenza dei palestinesi contro l’occupazione militare israeliana è una forma di resistenza al terrorismo”). Insieme all'espressione di una condanna politica e morale delle azioni terroriste,  come gli attentati nelle discoteche o negli autobus, Azmi Bishara ha espresso il rifiuto assoluto di accettare la definizione dell’intifada come forma di terrorismo, dato che essa è una lotta di massa che si svolge in un contesto di colonizzazione e occupazione militare.

L’atteggiamento della comunità internazionale contro i palestinesi si è aggravato dopo l’11 settembre. Dal punto di vista palestinese nei confronti della comunità internazionale sono venuti alla luce tre gravi questioni: in primo luogo l’intifada è stata fatta apparire in un primo momento come una rivolta popolare contro Camp David; in secondo luogo, dopo gli Accordi di Oslo, si è fatto credere che c’erano due parti simmetriche in guerra, parti che sono solo virtualmente uguali, ma non nella sostanza, data la enorme sproporzione di condizioni e di forza: i palestinesi sono la parte debole; in terzo luogo il fatto che, esistendo un'occupazione militare e coloniale, è necessario parlare di un processo di decolonizzazione, non di pace: è infatti paradossale sostenere, caso unico al mondo, che l'occupato debba garantire la sicurezza dell'occupante.

 

Il giorno 29 dicembre la delegazione si è divisa in tre gruppi: uno si è recato a Haifa, un altro a Ramallah, per sostenere l’accesso degli studenti palestinesi all’Università di Bir Zeit che riapriva dopo le vacanze. Qui l’esercito ha lanciato lacrimogeni dall’alto della collina e il gruppo degli internazionali, insieme ai palestinesi, ha simbolicamente smantellato la postazione militare che era stata abbandonata dai soldati israeliani. Il terzo gruppo si è recato a Nablus,  dove ha incontrato il segretario generale del sindacato palestinese Shaher Sa’ed, che ha partecipato insieme ai palestinesi e agli internazionali all'assemblea generale nella sede sindacale, a cui erano presenti anche molte delle madri i cui figli sono stati uccisi o dall’esercito israeliano o dai coloni in questa seconda intifada. L’assemblea, in cui hanno parlato gli organizzatori del Pngo, il governatore di Nablus (personalità molto amata, che ha avuto un figlio ucciso dagli israeliani) e una donna di un'associazione nel coordinamento delle ong palestinesi, è durata poco dato che l’arrivo era stato ritardato dai soldati israeliani che ci avevano bloccato al check point di entrata nella città. Volevano far scendere dagli autobus i volontari e volontarie del Pngo, ma abbiamo rifiutato, alla fine spuntandola e consentendo così ad alcune ragazze e ragazzi di Nablus di ritornare nelle loro case.

Dopo l’assemblea si è svolta la manifestazione, circa 600 persone tra palestinesi e internazionali, che ha fronteggiato pacificamente con slogan per la Palestina libera, a una distanza di 50 metri,  4 carri armati che si erano ritirati di circa 200 metri dalle porte della città e che hanno cominciato a sparare in aria, fatto estremamente grave e che abbiamo denunciato pubblicamente, data l’assoluta calma di tutti i partecipanti alla manifestazione: nessun sasso nell’aria, ma solo proiettili e pioggia.

Al ritorno i giovani barellieri si riparavano dalla pioggia usando le barelle; noi siamo rientrati nella sede sindacale dove abbiamo rapidamente pranzato. La delegazione sindacale si è incontrata con il segretario generale del Pgftu che ci  ha illustrato la disastrosa situazione sociale ed economica dei palestinesi da 14 mesi per la maggior parte senza lavoro, ci ha ringraziati per la nostra presenza lì e anche per il sostegno economico che la Fiom ha dato  negli ultimi mesi e ci ha chiesto di sostenere la loro richiesta alla Unione europea di far lavorare in Europa 35.000 lavoratori palestinesi. Il rappresentante della Cgil Gianfranco Benzi ha illustrato le ragioni della nostra presenza e ha assunto l’impegno di sostenere la necessità di una maggior attenzione e iniziativa del sindacato a livello internazionale, a cominciare dalla riunione dell’Esecutivo della Ces che si svolgerà a Bruxelles il 15 febbraio,  e a cui sono invitati sia il sindacato palestinese che quello israeliano.

 

Il 30 dicembre, mentre la maggior parte della delegazione si è recata a Hebron (abbiamo poi saputo che non è stata fatta entrare) il gruppo sindacale ha incontrato a Ramallah, nella sede del Centro sanitario, il dottor  Mustapha Barghouti, che lo presiede, ed è anche il coordinatore delle ong palestinesi. L’incontro è stato di grande interesse: il dottor Barghouti si è concentrato sul significato e sul valore dell'iniziativa «Action for peace», “particolarmente importante, proprio nel momento in cui le organizzazioni palestinesi hanno deciso di fermare la lotta armata e le azioni militari. La vostra iniziativa accanto alla nostra mostra che è possibile proseguire l’intifada come resistenza popolare non violenta. Inoltre ha fatto sentire ai palestinesi di non essere isolati e che c’è un'alternativa democratica alla forbice “autocrazia (verso cui gli Usa cercano di spingere Arafat) –fondamentalismo”, che cresce nell'autocrazia, e a cui noi ci opponiamo anche con il nostro lavoro sul piano sociale, che si avvale di ben 18.000 volontari, per la maggior parte giovani. La situazione è estremamente difficile perché, caso unico nel mondo, Israele combina l’occupazione militare con la guerra e con l’assedio. Sono state uccise 935 persone, ferite spesso con danni irreversibili 25.000 e un terzo dei morti sono ragazzi e bambini. In sostanza è stato colpito l'1% della popolazione. Sono stati distrutti 40.000 alberi e 4.000 case oltre che buona parte delle infrastrutture. I messaggi politici più forti che voglio lanciare sono che non si devono fare ulteriori compromessi sui punti fondamentali e che vanno applicate le Risoluzioni delle Nazioni unite. La democrazia deve essere il nostro strumento fondamentale contro i rischi di autocrazia e contro il fondamentalismo e questo discorso vale anche per i sindacati, dove non si svolgono elezioni da molti anni. Vogliamo che anche loro scendano con noi in piazza a manifestare”. Ringraziandoci ci ha sollecitato, al nostro rientro, ad attivarci in tutte le sedi perché la comunità internazionale svolga un ruolo attivo che oggi non c’è per una soluzione di pace giusta. Dopo questo incontro la delegazione sindacale ha incontrato alla Knesset, il Parlamento israeliano, una delegazione dell’Istadruth, guidata dal presidente Amir Peretz, che è anche deputato in rappresentanza di un piccolo partito recentemente fondato da lui stesso, come partito dei lavoratori e dei pensionati, dal nome “Un popolo”. Arrivando alla Knesset abbiamo incrociato una manifestazione di circa 1.000 persone, lavoratori dei servizi sociali, che protestavano contro il taglio annunciato della spesa pubblica nel prossimo bilancio. Come ci ha detto poi lo stesso Peretz, neanche il ministro del Lavoro è riuscito a parlare ai manifestanti, data la loro rabbia. Riguardo la crisi economica e sociale, ci ha detto che ogni giorno in Israele ci sono manifestazioni.

Estremamente critico con la politica sociale ed economica del governo Sharon e anche con il partito laburista “che difende gli interessi del capitale”, portando alla identificazione della pace con un affare di ricchi e facendo sì che l’area sociale più povera, sempre più distante dai pochi ricchi, si rivolga alla destra (“questo è il punto chiave da comprendere”), Peretz  ha sostenuto energicamente la  centralità  della battaglia in Parlamento anche per quanto riguarda le questioni sociali. “ Tutti gli accordi che possiamo fare sulle assicurazioni previdenziali non valgono una legge che potrebbe dare a tutti la pensione”. Sulla sicurezza e la questione Israele/Palestina: “La politica è oggi condizionata da piccoli gruppi di estremisti da una parte e dall’altra e bisogna fare in modo che invece sia l'attuale maggioranza silenziosa a condizionarla”.  Ha  negato che gli osservatori internazionali possano essere una soluzione: “È come se in Italia dovessero arrivare eserciti di altri paesi per proteggere gli italiani”, considerando in tal modo la questione del rapporto palestinese come un affare interno della politica israeliana. “Dobbiamo proteggerci da soli” e Arafat deve fermare il terrorismo.  Gli assassini sono tutti uguali – ha detto Peretz – ma ha purtroppo aggiunto anche che i morti non sono tutti uguali: ha detto infatti di non essere d’accordo quando, di fronte agli attentati palestinesi che fanno morti tra i civili israeliani, i palestinesi ricordano la morte dei propri figli: “Non è la stessa cosa, perché loro mandano i propri figli ai check point a tirare pietre” ha detto Peretz, suscitando la nostra comune reazione. Gli è stato ricordato che i loro figli vengono fatti vivere dentro insediamenti illegali, anche nel cuore di comunità palestinesi, come nel caso di Hebron. “Io credo nella pace, perché non c’è alternativa, sono personalmente contro gli insediamenti, ma bisogna prendere atto che ci sono  200.000 cittadini israeliani come dato di fatto. È il terrorismo palestinese che ha fatto vincere Netanyau. Insistendo sulla necessità di una pressione internazionale, ha poi detto che alla richiesta del sindacato palestinese di scendere in piazza contro le chiusure delle città che impediscono ai lavoratori di andare al lavoro,  ha risposto che devono essere loro a scendere in piazza contro il terrorismo.

Come si può intendere da queste brevi note, sulla questione Palestina/Israele abbiamo verificato una notevole distanza di opinioni, ma abbiamo chiesto di proseguire la discussione su questo e sugli altri temi, sollecitando anche la loro partecipazione nelle sedi internazionali. A questa richiesta non è stata data risposta  e l’incontro si è chiuso piuttosto freddamente.

In serata abbiamo avuto un incontro su “Globalizzazione e società israeliana” con Zvi Schuldiner, professore universitario, Sergio Yahni del Centro per l’informazione alternativa di Gerusalemme ovest, e alcuni giovani israeliani  di Indymedia Israele, Green action e Heut-Sadaka (Amicizia) che lavora con arabi israeliani. Un punto essenziale che è stato posto dall’introduzione di Schuldiner e poi ripreso anche in altri interventi è stato quello dei risultati della globalizzazione economica, che ha portato all'esportazione di molti posti di lavoro in altri paesi, arabi per lo più, in cui il costo del lavoro e i salari sono più bassi anche di sei o sette volte rispetto al minimo israeliano che è di circa 700 dollari al mese. In questo senso il lancio nel 1996 (dopo Oslo) da parte di Peres della “nuova economia” israeliana è consistito nell'alleanza con i gruppi industriali più forti, senza considerare gli effetti sulla condizione sociale di gran parte della popolazione, quella periferica, che si è spostata a destra, “ma senza pace non si va a una vera riforma sociale e uno dei problemi più urgenti è la fine degli insediamenti nei territori occupati”. Quindi, come ha sottolineato poi Sergio Yahni, sarebbe necessario un legame tra le lotte sociali, come quella vista al mattino contro il taglio della spesa pubblica, e lotte per la pace, a sostegno di una soluzione che prenda in conto i diritti dei palestinesi. Tra i due movimenti invece non c’è comunicazione, perché il Movimento per la pace non ha un progetto sociale su cui appoggiarsi e non manifesta insieme agli studenti o ai lavoratori che difendono i propri diritti.  “Con il processo di Oslo  si è dato vita a un progetto di pace neoliberale, creando da un lato una Autorità nazionale palestinese già privatizzata e dall’altro approfondendo le differenze nella società israeliana. “I 7 anni del processo di pace sono stati una festa a cui i poveri non sono stati invitati”.

Gli interventi di tre giovani, Amit, Yulie, Mira, hanno messo in luce l’esistenza di un movimento giovanile che si riferisce al movimento mondiale espresso a Seattle, a Praga, a Genova e che in alcuni casi si è impegnato nella lotta in sostegno dell’intifada e dei diritti del popolo palestinese, proprio a partire da questo movimento per la giustizia globale. Lavorano tutti sul territorio israeliano, sia su questioni ambientali e sociali (per esempio contro la costruzione di una strada che costa milioni di dollari e non serve né agli israeliani né ai palestinesi poveri) che su quelle dell’informazione, “per far sentire nel nostro paese la voce palestinese” (Indymedia). “Abbiamo manifestato all’Ambasciata italiana per l’uccisione di Carlo Giuliani, ma c’erano più poliziotti che manifestanti”. I loro metodi di lotta sono l’azione non violenta e la disobbedienza civile.

 

Il 31 dicembre si è aperto con un corteo di palestinesi e di internazionali, con in testa il patriarca di Gerusalemme, Michel Sabbah, e altre autorità religiose delle diverse confessioni, che doveva passare il check point da Betlemme verso Gerusalemme: l’esercito schierato ha impedito il passaggio, perciò per un’ora davanti al check point si sono svolte le varie preghiere, in un’atmosfera di tensione, ma anche di grande soddisfazione per la riuscita della manifestazione, in una bella e calda giornata, a cui hanno partecipato oltre 1.500 persone. Successivamente, abbiamo raggiunto la Città vecchia, dove nel cortile della scuola di Sant’Anna si sono svolti canti e balli religiosi e folcloristici, con palestinesi di Gerusalemme, israeliani e delegazioni internazionali. 

Nel tardo pomeriggio ci siamo recati a Ramallah dove si è svolto un incontro con i rappresentanti delle forze politiche palestinesi, che ci hanno detto che stanno lavorando alla definizione comune di una piattaforma politica, per una strategia comune fondata sugli obiettivi di: fine dell’occupazione; fine degli insediamenti coloniali nei territori occupati; Stato indipendente con Gerusalemme est capitale; diritto al ritorno.  La strategia che si vuol costruire e che vuole includere tutte le parti politiche, ma anche la società civile, deve escludere qualsiasi atto terroristico in territorio israeliano contro civili. Insistendo sul fatto che non ci può essere soluzione  militare all'intifada, è stata sottolineata l’importanza del cessate il fuoco proclamato da Arafat e da parte di tutti insistito per un ruolo autonomo dagli Stati Uniti dell’Europa, di cui generalmente è stata denunciata la subordinazione a Usa. È stato inoltre detto che, nonostante le differenze interne a volte consistenti, è esclusa la possibilità di  guerra civile (come qualcuno della delegazione aveva paventato) e sottolineato il valore della lotta democratica anche interna contro qualsiasi forma di degenerazione violenta. “Sull’insieme di questi temi – ha concluso il dottor Mustapha Bargouti,– discutiamo anche con l’Autorità nazionale palestinese, sotto dura pressione dagli Stati Uniti, per unificare la strategia e lanciare un messaggio comune sulla lotta contro l’occupazione militare e per la democrazia interna.”

In serata tutte le delegazioni internazionali, circa 400 persone, sono state ricevute nella sua residenza di Ramallah, dal presidente Arafat che in un suo breve discorso, dopo gli interventi delle delegazioni straniere (Morgantini per l’Italia, Galand per il Belgio, Claude per la Francia) ci ha ringraziati con molto affetto e riconfermato le ragioni della “pace dei coraggiosi”, quella firmata con Rabin, che è di interesse non solo per Palestina e Israele, ma per tutto il mondo. Su questi concetti ha molto insisitito, esprimendo insieme alla consapevolezza della gravissima situazione attuale anche la speranza e fiducia nella possibilità di riaprire un processo verso una pace giusta.

La giornata si è chiusa con una festa nella piazza principale di Ramallah, dove sono stati fatti fuochi di artificio fino alla mezzanotte e abbiamo visto intorno a noi, miracolosamente, anche tanti e tante palestinesi, famiglie con bambini, vivere qualche ora di allegria salutando l’arrivo del nuovo anno.

 

Il nuovo anno è cominciato per noi, nel pomeriggio del 1° gennaio 2002, con un incontro, richiestoci via consolato, alla comunità italiana in Israele. L’avvocato Beniamino Lazar, capo della comunità, ha presieduto la riunione e ha esordito – inaspettatamente – con un aggressivo interrogatorio, specialmente rivolto a Luisa Morgantini (Perché non ci ha cercati? Perché non vi mobilitate contro gli attentati nelle discoteche? Perché non protestate a Roma contro la delegazione palestinese? ecc.). Da Luisa è stata presentata la delegazione e le organizzazioni che la compongono e spiegate con calma le ragioni della nostra presenza lì. Il dibattito, in cui sono intervenuti alternandosi italiani della delegazione e italiani della comunità  è stato molto aspro, ma anche utile a capire uno stato d’animo di grande chiusura e difficoltà. Ci ha colpito l’assenza di un punto di vista critico rispetto sia alla politica del governo Sharon che a quella della sinistra in Israele (tranne in un intervento) e il rinchiudersi in atteggiamenti aggressivi e difensivi allo stesso tempo. Da parte nostra sono stati fatti presenti il carattere culturale e politico antirazzista e antietnicista delle varie associazioni che hanno promosso l’iniziativa, la necessità di non ragionare su una simmetria di situazioni tra Israele e Palestina, che non è reale, essendo quest’ultima una parte evidentemente molto debole; il nostro condividere il dolore per gli attentati contro civili ed è stato citata la presenza della Cgil alla Sinagoga nell’ultima occasione; è stato sottolineato il carattere di diplomazia dal basso, tra le persone, come strumento necessario oltre alla diplomazia politica, che ha mostrato i suoi forti limiti; è stato sottolineato il fatto che nelle nostre iniziative il rapporto con palestinesi e israeliani che sono impegnati nella lotta per i diritti e la pace è sempre stata una priorità assoluta, e che la soluzione di questo conflitto emblematico e unico nel mondo sarebbe un fatto che darebbe speranza proprio a tutto un mondo pervaso dalla guerra. È stata contestata l’accusa di disinformazione che ci era stata lanciata all’inizio, chiarendo che il problema non è evidentemente questo quanto piuttosto il fatto che ci sono valutazioni diverse e che questo deve essere accettato da tutti e se mai partire da queste diversità per approfondire la discussione e il dialogo, cosa che ci si è ripromessi di fare dato lo scarso tempo a disposizione in quella occasione.

Nel tardo pomeriggio incontriamo in albergo Zahira Kamal, figura di leader della prima intifada e attualmente responsabile per l’Autorità palestinese delle questioni di genere nel ministero per la Pianificazione e lo Sviluppo. Insieme a lei c’è Reema Hammami, docente all’Università di Bir Zeit. Entrambe ci ringraziano molto per la nostra presenza che rompe l’isolamento palestinese e dà forza alle persone e dai loro interventi e dalla discussione, presieduta da Raffaella Lamberti, presidente dell’Associazione Orlando, di Bologna, emerge una analisi molto approfondita e precisa della situazione, in particolare delle differenze tra la prima e la seconda intifada.

Un primo dato è che la violenza israeliana si è molto intensificata nella seconda intifada a causa del disegno di Sharon di distruggere l’Autorità palestinese. Con gli Accordi di Oslo non è mai stato d’accordo. Questa distruzione, non potendola fare direttamente, cerca di realizzarla minando l’Autorità palestinese dall’interno, attraverso la distruzione dell’economia, del lavoro e puntando a inserirsi nei punti di maggior vulnerabilità politica, sollecitando di fatto attraverso una inusitata violenza militare ed economica reazioni di tipo militare e terroristico. La situazione si è aggravata, diventando estremamente pericolosa, dopo l’11 settembre.

Altra differenza della seconda intifada è proprio la sua accentuata militarizzazione, iniziata da Sharon quasi subito (per due mesi i palestinesi hanno continuato a lanciare sassi) e che ha trovato un terreno di reazione militare essendo questa volta presenti armi, sia pure in misura ridotta, diversamente dalla prima intifada. È quindi prevalsa la società politica sulla società civile, il movimento di popolo in cui giovani e donne erano protagonisti 12 anni fa si è ritirato, avendo vissuto l’illusione di sette anni di processo di pace, in cui tutto era stato delegato ai politici. L’emergere dei fucili anche da parte palestinese ha dato occasione al governo israeliano, avvalorato dalla comunità internazionale, di parlare di due Stati in conflitto e ha unito gli israeliani contro la pace. Le donne, prima protagoniste della lotta nazionale, si sono poi concentrate sulle attività di genere, sulla costruzione di uno Stato democratico, basato sulla cittadinanza di donne e uomini. Questo è stato vero anche per il movimento di giovani e per il sindacato. Adesso è più difficile che tutti questi soggetti riprendano protagonismo nella lotta nazionale ma è indispensabile: è certo comunque che si è creata una distanza tra il movimento politico e quello della società civile. Si discute infine su quali progetti comuni è possibile portare avanti.

 

Il 2 gennaio  è il giorno di Gaza, la striscia di terra lunga 40 chilometri e larga 6/7, con una popolazione di circa 1.200.000 palestinesi, per il 70% profughi: il giorno più sconvolgente per ciò che vediamo e ciò che ascoltiamo, immagini di distruzione impressionanti anche per chi, come me, c’era già stato non molti mesi fa. Dal momento che la delegazione sindacale vuole incontrare il sindacato – Gaza infatti è la sede del vice segretario generale del Pgftu e anche presidente dei metalmeccanici, Rasem Al Bayari – e discutere di come proseguire nella iniziativa di sostegno ai lavoratori palestinesi, ci stacchiamo dal resto della delegazione e seguiamo il programma predisposto dal Pgftu. Prima una visita a un asilo, per i figli degli iscritti al sindacato, dove vengono accolti circa 547 bambini fino a 5 anni. L’asilo è ben tenuto con programmi, come ci spiega la giovane direttrice, molto avanzati sia per quanto riguarda le attività e i diversi “laboratori” sia per quanto riguarda l’integrazione in ogni classe dei casi di bambini o bambine con qualche difficoltà. Alcuni hanno portato molto materiale didattico e giocattoli che vengono lasciati lì. Non possiamo liberarci da una sensazione di tristezza al vedere questi bellissimi bambini senza nessuna allegria.

L’incontro con il sindacato è molto breve per poter riuscire a vedere nella giornata altre situazioni, e si sente già la tensione che caratterizza, come vedremo poi, tutta la zona. Vengono illustrate le condizioni poverissime di una società i cui 120.000 lavoratori in Israele non hanno da mesi lavoro e salario, anzi hanno crediti nei confronti delle aziende che non vengono saldati.  Viene anche spiegato come il sindacato in collaborazione con gli aiuti internazionali e con l’Autorità palestinese cerca di far fronte a una crisi profonda.  Da un lato c’è un fondo di solidarietà degli aiuti internazionali che consente ogni mese di dare a rotazione circa 500 sheckel a 22.000 lavoratori (poco più di 120 euro); con l’Autorità palestinese è stato concordato di avere per i disoccupati l’assistenza sanitaria gratuita (l’accordo scade a fine anno) e la costituzione di un fondo con il contributo obbligatorio del 12% del salario di ogni dipendente pubblico. Dichiariamo la disponibilità di diverse strutture a lavorare per progetti o gemellaggi e chiediamo che ci inviino una lista di loro priorità con il dettaglio dei costi. Mentre siamo in riunione riceviamo la notizia dell’arresto del dott. Bargouti all’uscita della conferenza stampa a Gerusalemme: il commento in risposta a una domanda della delegazione di Rasem è che data la personalità del dottore, i suoi rapporti con ambienti internazionali e nel campo per la pace israeliano, la sua situazione è relativamente al sicuro, se confrontata con i quotidiani bombardamenti, la violenza continua, l’uccisione di ragazzi (tre il giorno prima) i cui corpi non sono stati ancora restituiti ai genitori. Infine, il fatto che Sharon abbia permesso questo gesto, se non ordinato, proprio il giorno prima dell’arrivo del mediatore americano, generale Zinni rappresenta anche uno schiaffo agli americani, “una vergogna per loro”!

Una vergogna per il mondo definirei quello che abbiamo poi visto andando a Khan Younis (la seconda città dopo Gaza city) e Refah (confine con l’Egitto). Gaza è zona A, secondo gli Accordi di Oslo, cioè a pieno controllo dell’Autorità palestinese, ne è anzi il quartier generale, ma il suo presidente come sappiamo è a una sorta di arresti domiciliari a Ramallah. È suddivisa ormai in tre tronconi senza possibilità di comunicazione tra di loro. È in un evidente stato di guerra da parte israeliana, e ci si può immaginare la motivazione ufficiale: necessità di sicurezza per i coloni, che sono 4.000 in 13 piccoli insediamenti e controllano un terzo di tutto il territorio. Vediamo uno di questi insediamenti sul mare protetto da una alta barriera e fiancheggiato da una postazione militare, a Khan Younis, dove si svolgerà una manifestazione degli internazionali con i palestinesi. L’atmosfera è estremamente tesa, un bambino di forse sei anni spara ossessivamente con la sua mitragliatrice giocattolo, un altro di una decina mi chiede con rabbia se sono di Hamas o di Fatah (rimane perplesso sulla parola “Italia”…),  giovani soldati palestinesi sono infastiditi dalle fotografie. È una zona bombardata: quando andiamo a vedere una specie di accampamento di tende bianche in piazza, con un nome di famiglia sfollata scritto sopra ciascuna, un uomo esce urlando e palesemente inveendo contro di noi “Tutti vengono a vedere, ma nessuno ci ricostruisce le case!”.

Sulla strada per Refah, passiamo vicino a un altro insediamento: ce ne accorgiamo perché il nostro autobus si blocca improvvisamente avendo visto fermarsi 100 metri più avanti una camionetta militare. Ci spiegano che quando un veicolo militare si ferma così, davanti a un mezzo civile, bisogna bloccarsi immediatamente e muoversi solo quando si muove il veicolo, altrimenti sparano. Questa fermata è dovuta al passaggio, che vediamo pochi minuti dopo, sulla strada che porta all’insediamento di due macchine di coloni e di un autobus (vuoto). Ci rimettiamo in movimento e vediamo sulla nostra sinistra macerie e macerie, ed ecco la spiegazione: è la fascia di sicurezza per l’insediamento, creata radendo al suolo per una larghezza di 500 metri tutte le case che davano sulla strada. Altrettanto vedremo al confine egiziano: tutte le case lungo il confine rase al suolo, insieme a botteghe e negozi, per ragioni di sicurezza! Non li vediamo, ma dietro le macerie sul confine ci sono carri armati israeliani, e quando spunta dalle macerie un ragazzino, i palestinesi che sono con noi urlano, gesticolano e si avviano verso di lui perché torni immediatamente indietro: possono sparare a vista, e non sono rari i casi in cui la sofferenza e la rabbia di questi ragazzini diventano di fatto un suicidio, attraverso il lancio di un sasso, a cui risponde la mitragliatrice. Siamo tutti profondamente colpiti, sconvolti, indignati, più di ogni altro giorno. Riesco solo a pensare che ognuno e tutti noi dobbiamo lavorare molto perché il mondo smetta di stare con la testa girata da un’altra parte, testimone muto e cieco dell’annullamento di un popolo.