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              marzo 2006. Giornata
              internazionale contro la guerra e le occupazioni     
              
              
              
               Soldati
              contro la guerra
              
               da
              Usa, Gran Bretagna, Israele-Palestina, Turchia, Russia, Italia Sintesi
              dell'incontro a cura di Stefania Frezza 
                Nella
              sala Di Liegro gremita di Palazzo Valentini, sede della Provincia
              di Roma, si è svolto l’incontro organizzato dal Comitato
              promotore 18 marzo 2006 (in particolare Un Ponte per, Arci, Fiom)
              con i familiari di soldati inviati sui fronti di guerra e con i
              soldati che si oppongono alle guerre in corso, provenienti da
              Stati Uniti, Israele, Palestina e Italia.
               Dopo
              l’introduzione di 
              Fabio Alberti
              , presidente di Un ponte per, che ha spiegato le ragioni
              dell’iniziativa e l’importanza del rapporto con la società
              civile organizzata in varie forme nei paesi in guerra, il
              coordinatore della tavola Philip Rushton (statunitense che ha
              pubblicato un libro sui soldati che hanno rifiutato la guerra) ha
              introdotto i relatori, spiegando che lo scopo dell’incontro era
              quello di condividere esperienze di dissenso contro ogni
              ingiustizia, contro il silenzio dei governi, per il mantenimento e
              rafforzamento dell’impegno contro ogni guerra, per dare voce
              alle denunce dei militari.  Per
              primo è intervenuto Joseph Wood, veterano statunitense,
              dell’occupazione dell’Iraq. Fa parte dell’associazione
              Iraqui veterans against the war. Arruolatosi nell’esercito a 18
              anni, “e devo confessare che ho votato per Bush…” è stato 7
              mesi in Afghanistan e 7 mesi in Iraq. “È stata un’esperienza
              terribile, ho odiato ogni minuto passato nell’esercito”, ha
              spiegato. “Ero al fronte 7 mesi dopo l’11 settembre e ho visto
              le terribili conseguenze della guerra.” “Piano piano ho
              cominciato ad avere un atteggiamento più critico nei confronti
              della politica estera statunitense, e nei mesi trascorsi là ho
              capito che gli iracheni contro i quali combattevamo non erano
              terroristi, come ci avevano insegnato nell’esercito, ma solo
              persone sfinite dall’occupazione.”
 È
              stata poi la volta di Raed al-Haddar e Ory Yossur, ex combattenti,
              uno palestinese e l’altro israeliano, dell’associazione
              Combattenti per la pace. Raed
              al-Haddar, palestinese, a 17 anni è stato in un carcere
              israeliano per 3 anni per aver resistito all’occupazione, perché
              convinto che resistere, anche con le armi, fosse l’unico modo
              per porre fine all’occupazione israeliana. Ma all’inizio della
              seconda Intifada ha perso un cugino, ucciso da un soldato
              israeliano, e ha cominciato a chiedersi se bisognasse continuare
              questo scontro così cieco e ingiusto, o se fosse possibile invece
              convivere con gli israeliani; conoscendoli si è reso conto che
              anche tra loro c’era chi voleva vivere in pace e in sicurezza. “È
              possibile il dialogo, il confronto e lo scambio fra israeliani e
              palestinesi, i nostri popoli soffrono molto per questa
              occupazione, che uccide - oltre alle persone - anche i sogni.” “Siamo
              contrari alla violenza – ha proseguito - e la nostra presenza
              qui è la dimostrazione che è possibile praticare la pace tra due
              popoli, due Stati vicini, senza violenza.” Ory
              Yossur, israeliano, dopo la sua esperienza di combattente, durante
              la quale si esercitava anche su come occupare i villaggi
              palestinesi, consapevole che nella realtà si trattava di
              combattere anche donne e bambini, ha capito che i due popoli erano
              coinvolti in un circolo vizioso di violenza, la violenza
              dell’uno che alimenta la violenza dell’altro, e per questo ha
              deciso di impegnarsi in  questa
              associazione.
               C’è
              stata poi la drammatica testimonianza di Salvatore Pilloni, padre
              di un soldato, Giovanni, che è tornato da Nassiriya con un tumore
              causato dall’uranio impoverito. Salvatore da anni non perde
              occasione per parlare di suo figlio e della malattia che ha
              colpito tanti altri soldati, vittime dei devastanti effetti
              collaterali dell’uranio impoverito e delle politiche militari
              del nostro governo: “Vogliono esportare la democrazia con le
              bombe, ma non deve essere così”, ha affermato concludendo il
              suo intervento.  Ha
              portato la sua testimonianza anche Lou Plammer, statunitense,
              rappresentante di Military family speak out, padre di un soldato
              della Marina statunitense, incriminato per slealtà nei confronti
              del governo, dopo aver dichiarato a un giornalista che – pur
              continuando a fare il volontario – non era d’accordo sulla
              guerra e le scelte del suo paese. “Riportiamoli a casa”, è il
              suo appello.
 Yonathan
              Shapira, israeliano, refusnik, ex pilota di elicotteri. “La
              politica di assassinii mirati del governo Sharon – ha spiegato -
              mi ha fatto riflettere, dicevano che erano politiche di
              prevenzione, invece sono crimini di guerra. Ho pensato che fosse
              necessario fare qualcosa, perché nessuno lo faceva per me, e ho
              cercato di coinvolgere altri piloti a rifiutarsi di eseguire
              questi assassinii.” Adesso però non basta dire di no, non basta
              rifiutarsi: il prossimo passo sarà quello di andare al
              di là delle linee, cercare altri con i quali dialogare, per
              cambiare la realtà, e se collaboreremo, israeliani e palestinesi,
              credo che potremo davvero cambiare le cose.” “Dobbiamo
              lottare per la libertà del popolo palestinese, e saremo così noi
              israeliani liberi dal ruolo di oppressori.”  Falco
              Accame, presidente dell’Associazione nazionale dei familiari
              delle vittime delle Forze armate, ha poi sottolineato – nel
              nostro paese -  il
              tentativo del governo di estendere i tribunali militari, che
              porterebbe a istituire lo stato di guerra permanente, e ha
              denunciato la lentezza nelle procedure di risarcimento ai
              familiari delle vittime.
 Infine,
              Tonio Dell’Olio, di “Libera”, poiché le vittime non sono
              solo numeri, ma a noi raccontano affetti, sogni, ha esortato a 
              indignarsi, a ribellarsi, augurandosi che ci siano forze
              politiche che vogliano dire un “no” deciso a tutte le guerre. 
               
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