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              marzo 2006. Giornata
              internazionale contro la guerra e le occupazioni     Intervento  di Giuliana
              Sgrena, giornalista
              de "il manifesto"    Ringrazio
              gli organizzatori per avermi dato la possibilità di rivolgermi a
              tutti voi e ne approfitto per ringraziarvi per quello che avete
              fatto per me. La più grande sorpresa al mio ritorno dall’Iraq
              è stata senza dubbio la grande manifestazione del 19 febbraio
              dello scorso anno. Io sono qui grazie al vostro impegno e
              all’azione di Nicola Calipari, che ora purtroppo non c’è più.
 Ma
              l’obiettivo della manifestazione dello scorso anno è stato
              raggiunto solo in parte, con la mia liberazione, resta invece il
              compito più gravoso che è quello di liberare l’Iraq. E questo
              richiede un impegno sempre più urgente e forte. 
              
               Per
              diversi motivi. La situazione dell’Iraq sotto occupazione
              continua a degenerare: non solo il paese non è mai stato
              ricostruito, cosa che avrebbe almeno migliorato le condizioni di
              vita della popolazione, ma la sua distruzione continua. Dopo aver
              raso al suolo gran parte di  Falluja
              con l’uso di armi vietate come il fosforo bianco ora le truppe
              di occupazione insieme a quelle irachene stanno attaccando
              pesantemente Samarra. Una nuova punizione collettiva dopo aver
              permesso lo scempio della distruzione della cupola d’oro.
              
               La
              guerra in Iraq ha portato una destabilizzazione in tutta la
              regione  favorendo
              l’espandersi del terrorismo e del fondamentalismo. Gli Stati
              uniti hanno provocato la divisione etnico-confessionale
              dell’Iraq pensando di meglio controllare il paese e invece hanno
              consegnato il sud ai partiti religiosi filo-iraniani e ora,
              paradossalmente, chiedono aiuto a Tehran per far fronte alla
              situazione irachena. Gli iracheni sono espropriati del loro futuro
              e il regime iraniano usa gli iracheni per sviare l’attenzione
              sul nucleare. 
              
               L’occupazione
              non riguarda solo l’Iraq ma anche 
              la Palestina
              isolata da un muro che la trasforma sempre più in un carcere a
              cielo aperto, in balia dell’esercito israeliano come si è visto
              nei giorni scorsi a Gerico. Inoltre, la politica di Sharon e il
              disinteresse occidentale rispetto alla questione palestinese, ha
              favorito la vittoria di Hamas. E il popolo palestinese, quella
              parte laica e democratica, non solo dovrà subire i diktat
              integralisti ma rischia di rimanere isolata. L’occidente, ancora
              una volta, non sembra comprendere gli effetti devastanti
              dell’isolamento per un popolo i cui diritti sono negati. 
              
               Dobbiamo
              contrastare la cultura della morte rompendo la spirare della
              violenza per affermare la cultura e la pratica della pace. In Iraq
              come altrove. Cominciando da qui, da noi, da adesso. Innanzitutto
              chiedendo il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq, perché
              questa rottura è indispensabile per invertire la tendenza.
              Bisogna ridare la sovranità agli iracheni e risarcirli dei danni
              provocati dalla guerra e dall’occupazione con aiuti alla
              ricostruzione che non servano però solo a far fare profitti alle
              imprese occidentali. Abbiamo bisogno di una politica estera che
              tenga in considerazione gli interessi dei popoli e non dei regimi.
              
               Riportare
              la questione della guerra e della pace, dell’Iraq, al centro del
              dibattito elettorale. Nel momento in cui la questione è ignorata,
              o quasi. E il fatto che oramai è impossibile andare in Iraq per
              fare informazione fa dimenticare la guerra: le immagini delle
              colonne dei carri armati e degli elicotteri che puntano su Samarra
              oramai ci arrivano dagli Stati uniti. Che sono così riusciti a 
              raggiungere il loro obiettivo di militarizzare
              l’informazione.
              
               Tutto
              questo rende più difficile ma indispensabile l’azione del
              movimento pacifista, che deve tornare ad essere protagonista nella
              sua autonomia. Non siamo soli, oggi ci sono manifestazioni in
              tante città di tutto il mondo. Il movimento dei refusnik cresce
              non solo in Israele, ma anche negli Stati uniti. Abbiamo
              interlocutori tra chi si oppone all’occupazione in Iraq, in
              Palestina, in Afghanistan. Abbiamo rapporti che vanno coltivati e
              rafforzati con la società civile di questi paesi, senza
              dimenticare le donne che sono le principali vittime. 
              
              
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