HOME

Iniziative

 

18 marzo 2006. Giornata internazionale contro la guerra e le occupazioni

 

 

Intervento  di Giuliana Sgrena, giornalista de "il manifesto"

 

giulianasgrena.gif (286157 byte)Ringrazio gli organizzatori per avermi dato la possibilità di rivolgermi a tutti voi e ne approfitto per ringraziarvi per quello che avete fatto per me. La più grande sorpresa al mio ritorno dall’Iraq è stata senza dubbio la grande manifestazione del 19 febbraio dello scorso anno. Io sono qui grazie al vostro impegno e all’azione di Nicola Calipari, che ora purtroppo non c’è più.

Ma l’obiettivo della manifestazione dello scorso anno è stato raggiunto solo in parte, con la mia liberazione, resta invece il compito più gravoso che è quello di liberare l’Iraq. E questo richiede un impegno sempre più urgente e forte.

Per diversi motivi. La situazione dell’Iraq sotto occupazione continua a degenerare: non solo il paese non è mai stato ricostruito, cosa che avrebbe almeno migliorato le condizioni di vita della popolazione, ma la sua distruzione continua. Dopo aver raso al suolo gran parte di  Falluja con l’uso di armi vietate come il fosforo bianco ora le truppe di occupazione insieme a quelle irachene stanno attaccando pesantemente Samarra. Una nuova punizione collettiva dopo aver permesso lo scempio della distruzione della cupola d’oro.

La guerra in Iraq ha portato una destabilizzazione in tutta la regione  favorendo l’espandersi del terrorismo e del fondamentalismo. Gli Stati uniti hanno provocato la divisione etnico-confessionale dell’Iraq pensando di meglio controllare il paese e invece hanno consegnato il sud ai partiti religiosi filo-iraniani e ora, paradossalmente, chiedono aiuto a Tehran per far fronte alla situazione irachena. Gli iracheni sono espropriati del loro futuro e il regime iraniano usa gli iracheni per sviare l’attenzione sul nucleare.

L’occupazione non riguarda solo l’Iraq ma anche la Palestina isolata da un muro che la trasforma sempre più in un carcere a cielo aperto, in balia dell’esercito israeliano come si è visto nei giorni scorsi a Gerico. Inoltre, la politica di Sharon e il disinteresse occidentale rispetto alla questione palestinese, ha favorito la vittoria di Hamas. E il popolo palestinese, quella parte laica e democratica, non solo dovrà subire i diktat integralisti ma rischia di rimanere isolata. L’occidente, ancora una volta, non sembra comprendere gli effetti devastanti dell’isolamento per un popolo i cui diritti sono negati.

Dobbiamo contrastare la cultura della morte rompendo la spirare della violenza per affermare la cultura e la pratica della pace. In Iraq come altrove. Cominciando da qui, da noi, da adesso. Innanzitutto chiedendo il ritiro immediato delle truppe dall’Iraq, perché questa rottura è indispensabile per invertire la tendenza. Bisogna ridare la sovranità agli iracheni e risarcirli dei danni provocati dalla guerra e dall’occupazione con aiuti alla ricostruzione che non servano però solo a far fare profitti alle imprese occidentali. Abbiamo bisogno di una politica estera che tenga in considerazione gli interessi dei popoli e non dei regimi.

Riportare la questione della guerra e della pace, dell’Iraq, al centro del dibattito elettorale. Nel momento in cui la questione è ignorata, o quasi. E il fatto che oramai è impossibile andare in Iraq per fare informazione fa dimenticare la guerra: le immagini delle colonne dei carri armati e degli elicotteri che puntano su Samarra oramai ci arrivano dagli Stati uniti. Che sono così riusciti a  raggiungere il loro obiettivo di militarizzare l’informazione.

Tutto questo rende più difficile ma indispensabile l’azione del movimento pacifista, che deve tornare ad essere protagonista nella sua autonomia. Non siamo soli, oggi ci sono manifestazioni in tante città di tutto il mondo. Il movimento dei refusnik cresce non solo in Israele, ma anche negli Stati uniti. Abbiamo interlocutori tra chi si oppone all’occupazione in Iraq, in Palestina, in Afghanistan. Abbiamo rapporti che vanno coltivati e rafforzati con la società civile di questi paesi, senza dimenticare le donne che sono le principali vittime.