Sei giorni a Bagdaddi
Alessandra Mecozzi
1a
puntata 10-11
luglio – Incontri: Federazione irachena dei sindacati – Partito comunista
dei lavoratori – Fawzia Parto
l’8 luglio, tre giorni dopo la
maggior parte della delegazione composta da 10 persone di diverse
associazioni (Un ponte per…, che coordina il gruppo, ICS, CGIL, Associazione
per la pace, Rifondazione comunista, Uisp, Zajedno, Enti locali per la
pace-Salerno: l’idea della delegazione è nata all’interno del Tavolo di
solidarietà con le popolazioni irachene e del gruppo di continuità FSE). Il
viaggio è più complicato del previsto perché solo un’ora prima della
partenza sembra che non ci sia posto sul volo delle Nazioni Unite, disponibile
per le ONG, che va da Amman a Bagdad. Non ci sono voli ordinari, c’è solo la
possibilità di andare in macchina, 12 ore di strada, non molto sicura nel
tratto di territorio iracheno e cara per una sola persona (200,250 dollari). Così
dopo una notte (l’aereo è arrivato ad Amman alle 2,30) all’aeroporto
militare di Marka, da dove partono gli aerei UN e Croce Rossa, oltre che quelli
per Aqaba di una piccola compagnia privata, verifico che il posto proprio non
c’è. Passo una giornata ad Amman, in riposo forzato. Il giorno dopo, il 10,
finalmente mettono un aereo grande, non il solito da 15 posti, e riesco a
partire. Ci sono anche sette funzionari del Fondo Monetario e della Banca
Mondiale, incaricati questi ultimi di impiantare e rimettere in funzione tutto
il sistema bancario, in modo da poter almeno ricominciare a pagare gli stipendi
a quei pochi che ancora lavorano. Mentre
ad Amman il tempo era bellissimo, luminoso e fresco di sera, all’arrivo
all’aeroporto di Bagdad, ci investe una vera e propria fiammata sulla pista.
Ci sono sicuramente più di 50 gradi. L’interno dell’aeroporto è diventato
una base e un magazzino
militare: restano alcuni tappeti e divani con le cornici dorate,
paradossali in questa situazione, a ricordare il tempo pre-guerra. Si passa il
controllo passaporti, mentre una giovanissima donna soldato scatta a tutti una
fotografia con macchinetta digitale, per inserirle nel computer, vengono
registrati i nomi, ognuno firma. Trovo ad aspettarmi alcuni compagni della
delegazione (altri sono a Bassora). E’ già stato fissato un appuntamento con
il sindacato (Federazione irachena dei sindacati) dove arriviamo rapidamente
attraversando un paesaggio di polvere, palme, mezzi militari e traffico caotico.
SINDACATO La
sede è molto povera e
scassata, non c’è assolutamente nessun materiale di ufficio, ma solo
qualche vecchia sedia e scrivania: ci aspetta un gruppo di uomini, dai 50 anni
in su. Non ci sono giovani né donne. Sono gli undici componenti della
segreteria, l’addetto alle relazioni internazionali, all’organizzazione,
all’informazione, il tesoriere (senza lavoro per mancanza di fondi) ecc. Il
presidente si chiama Rasem Al Awadi. Con un certo imbarazzo dicono che manca LA
DONNA, responsabile delle donne, perché è al lavoro in ospedale, è
un’infermiera. Questo è un comitato incaricato di rimettere in piedi il
sindacato, eletto da una assemblea di 350 delegati che si è tenuta il 17
giugno. Sono in tre o quattro a parlare, in arabo, ma abbiamo un traduttore.
Dopo un po’ scopriamo che c’è anche uno di loro che parla abbastanza bene
l’italiano perché ha lavorato 18 anni con la Saipem- Eni. Sono contentissimi
di incontrarci: siamo la prima delegazione sindacale dopo la guerra e sperano di
incontrarne altre. Insistono sulla composizione plurale, e la presenza di
diversi partiti, oltre a comunista e socialista, e senza nessun partito e sulla
volontà di essere autonomi dai partiti e di lavorare insieme per il bene del
paese “con onestà”, ripetono più volte. “E abbiamo informato Bremer (il
rappresentante della coalizione occupante angloamericana) della nostra volontà
di giocare un ruolo nella ricostruzione del paese”. Ci
parlano della emarginazione vissuta dal sindacato nei 35 anni di regime e dei
tentativi che stanno facendo per ricostruire il sindacato: alcuni di loro
avevano già lavorato nel precedente sindacato, altri erano stati in
clandestinità durante il regime. L’enormità dei problemi sembra sopraffarli:
la disoccupazione è più del 50%, non c’è lavoro, non ci sono soldi, non
c’è acqua, non c’è elettricità, non c’è sicurezza: praticamente è
quasi tutto fermo, mentre sono molto attivi saccheggiatori e criminali comuni:
le prigioni sono state aperte da Saddam, prima della sua caduta. Il paese è
abbandonato e nelle altre città è anche peggio che a Bagdad: unanimi nel
dichiararsi contro l’occupazione e delusi dall’allineamento dopo la guerra
dell’Europa ai disegni degli Stati Uniti,
si sentono paralizzati dall’assenza di un governo, dalla manolibera di
molte imprese che si portano lavoratori stranieri, soprattutto nel settore del
petrolio e nei porti. L’Europa
ci dicono dovrebbe essere diversa: è la nostra unica speranza. Concludiamo
prendendo l’unico indirizzo email disponibile, quello del responsabile delle
relazioni internazionali e corriamo in albergo dove ci aspetta un altro
incontro: con tre giovani del Partito comunista dei lavoratori. PARTITO
COMUNISTA DEI LAVORATORI Sono
due uomini e una donna, tutti e tre di Bagdad, ma che hanno passato diversi anni
all’estero, si sente una cultura diversa, sono molto critici verso il
sindacato che abbiamo appena incontrato, che accusano di essere legato al regime
e al partito Baath. Dicono che devono essere tutti espulsi, perché hanno il
solo scopo di facilitare l’occupazione americana. Issam, quello che sembra
essere il capo e l’ideologo, parla del loro programma: costituire un sindacato
del tutto nuovo, dal basso, democratico e centrato solo sugli interessi dei
lavoratori: comitati di lavoratori si sono costituiti soprattutto nel sud del
paese. Verrà convocata una conferenza nazionale per eleggere un nuovo sindacato
democratico, con la supervisione di tutte le forze sociali e della comunità
internazionale: acidissimi
verso il partito comunista iracheno che “ ha abbandonato il concetto
stesso di classe operaia e
fa alleanze fin troppo spregiudicate con gli islamici.” A
conferma di questo interviene la giovane donna, Inar,
responsabile per la costruzione di una organizzazione nazionale delle
donne che si batta realmente per i loro diritti: è stato proprio il flirt del
partito comunista con gli islamici, negli anni 90, quelli del durissimo embargo,
a far sì che venisse introdotto nel codice il delitto d’onore, in conseguenza
molti sono gli assassinii di donne, anche da parte di propri familiari, per
ragioni di “onore”. In quegli anni molti diritti sono stati tolti ed una
intera generazione di giovani donne è stata sottratta all’istruzione. Solo
nel Nord, in 10 anni, si calcola che siano state uccise 5000 donne. La guerra ha
aggravato la situazione: la pressione islamista è molto forte, l’obbligo del
velo e di stare a casa è già una pratica abbastanza diffusa (parecchie altre
donne mi diranno che questa è la loro maggior paura): “ ci stanno riportando
100 anni indietro e gli americani non si oppongono a questo, anzi…” “Noi
abbiamo realizzato nel nord del paese una casa contro la violenza con cui si
sono già salvate 400 donne e facciamo un giornale che parla di piena
uguaglianza di diritti tra donne e uomini, per la prima volta. Nel giro di un
anno vogliamo aprire un altro centro antiviolenza ed abbiamo molto bisogno che
ci sia il sostegno delle donne che lavorano e sono nel sindacato.” Inar
non nega che la lega delle donne, quella legata al Partito comunista, abbia
avuto grandi risultati in materia di diritti delle donne negli anni 50 e 60,
“ma adesso non parla quasi più di diritti, anzi, parlare di delitto di onore
è quasi un tabù: e questo è puro opportunismo del PC nei confronti degli
islamici: a noi dicono che siamo immorali perché ne vogliamo parlare e vogliamo
denunciarlo e abolirlo.” Comunque, conclude, adesso il nostro obiettivo
immediato è che l’occupazione americana finisca
e che si sancisca una separazione tra religione e stato, la laicità
dello Stato è fondamentale. Per
ultimo prende la parola il rappresentante del comitato disoccupati, che opera
con i disoccupati su tre questioni: il lavoro, che è ovviamente la cosa
principale, la sicurezza sociale per chi non lavora, un salario minimo di 100
dollari al mese (adesso è di circa 300-400 dollari al mese nell’impiego
privato). “Abbiamo
presente che da una parte siamo obbligati ad u negoziato politico con gli
americani, e li abbiamo incontrati dopo molti rinvii, e dall’altra che
dobbiamo mobilitarci nel paese, forse faremo una grande manifestazione di
disobbedienza civile di massa il 29 luglio. Il
rischio che si estende la resistenza armata c’è, anche perché tra i giovani
che non vedono futuro e non hanno niente c’è una grande disperazione. Per
questo molti, in particolare i vecchi del Baath li assoldano per sparare e fare
attentati. Noi pensiamo invece che se ne debbano andare subito gli americani e
per un periodo debba esserci la presenza di truppe delle Nazioni Unite perché
ci sia il tempo per impiantare un sistema democratico con diversi partiti,
elezioni, ecc. La
resistenza armata nasce anche dal vuoto di autorità e di potere: la borghesia
è divisa, nessuno controlla niente: pensiamo che l’unica speranza possa stare
effettivamente nella realizzazione di un sistema socialista.” FAWZIA
E SUO MARITO Incontriamo,
nella loro casa, Fawzia e suo marito: entrambi hanno circa 70 anni, sono stati
militanti e dirigenti del partito comunista: per prima cosa ci parlano concitati
della visita dei soldati americani dentro la loro casa e di altri vicini.
“Entrati in modo molto maleducato, sono come ragazzini che non sanno come
comportarsi; hanno frugato dappertutto per cercare armi, hanno preso a calci la
porta, anziché bussare e se non si è svelti ad aprire la sfondano. Non abbiamo
mai passato un periodo così nero e di drammi e lotte e guerre in questo paese
ne abbiamo avuti tanti! Mentre parlano, entrano ed escono molti bambini e
bambine, ragazze: sono i nipoti, dal momento che ha 5 figlie e un figlio, di cui
tre sono all'estero. Fawzia è andata in prigione la prima volta nel 1948, non
era comunista: lo è diventata lì dentro, poi ha conosciuto il marito e si è
sposata, sono andati poi in galera anche insieme, nel 1951. Nel 1963 tutta la
famiglia è finita in prigione e Fawzia, incinta, ha perduto il bambino.
Cambiato il governo, sono stati messi agli arresti domiciliari. Il marito è
stato mandato nel nord a Kirkuk, licenziato per 4 anni e poi in esilio in un
villaggio a insegnare per 8 anni. Sono cominciate poi le esecuzioni dei
comunisti e solo adesso si è saputo che il fratello è stato ucciso nel 1980. “La
situazione dell’occupazione è insopportabile: vogliamo un governo nazionale.
Il sentimento di prendere le armi per cacciare gli americani è diffuso, man
mano che va avanti l’occupazione e la popolazione viene sempre più
maltrattata: la gente ha l’impressione che creino sempre più problemi per
poter giustificare la loro presenza. Sono venuti qui strillando
“liberazione” e la gente rispondeva “ petrolio”. La prova è che hanno
protetto con l’aiuto dei kuwaitiani solo il ministero del petrolio e i pozzi:
hanno lasciato distruggere tesori artistici, ospedali, uffici, scuole: un
immenso saccheggio. Il nostro tempo è finito, ci sono altri incontri, ma, con
la grande ospitalità che abbiamo trovato dappertutto, cercano di trattenerci,
ci offrono dolci te e caffe, ma il tempo stringe. Ci salutiamo con l’impegno
di rivederci in Italia, dove Fawzia e suo marito verranno tra qualche giorno, su
invito di un gruppo di donne di Napoli, per una serie di iniziative. Corro
all’ appuntamento con Iman e Nermin, due donne, entrambe giornaliste, in una
zona di artisti e intellettuali, dove oggi, venerdì, per la prima volta ha
ripreso il mercato dei libri usati. Vicinissima c’è una antichissima
università, la Casa della Sapienza, un edificio molto bello, anch’esso
completamente saccheggiato e distrutto in molte parti. Le trovo in uno dei caffè
degli artisti, strapieni di uomini, artisti, intellettuali, gente che ha voglia
di sedersi e chiacchierare. Iman e Nermin sono insieme a Medea e Gwayle, due
americane di Global Exchange, che stanno facendo interviste e riprese per il
neonato Osservatorio sull’occupazione, di cui è promotore anche Un ponte per.
Il caldo, alle due del pomeriggio è davvero insostenibile: finiamo per
ripararci a bere e mangiare qualcosa nell’albergo El Fanar, dove si trova la
delegazione italiana. Lì parliamo a lungo dell’Osservatorio
sull’occupazione, discutendo dei campi di cui dovrà occuparsi, del metodo di
lavoro e anche dei possibili costi per ristrutturare una casa molto bella sul
fiume che un’amica è disponibile a dare gratuitamente, ma è da
ristrutturare. Nelle
prossime due puntate:
L’Osservatorio sull’occupazione, una buona idea - Incontri: Partito
comunista iracheno – Associazione per i diritti umani – Haifa Center, il
sogno di un medico palestinese: un poliambulatorio e il campo dei rifugiati
palestinesi – Visita a Fellouja, la città delle moschee e della resistenza
– Organizzazione per i diritti umani, il caso di Alaa Adil – Incontro con
Asmaa Jamil, giornalista sociologa. - Altra Associazione per i diritti umani e
la vertenza di 150 trasportatori disoccupati – Il depuratore d’acqua al
reparto maternità: progetto realizzato di un ponte per.
(12
– 15 luglio) Una buona idea: l’Osservatorio sull’occupazione. L’Osservatorio sull’occupazione (Occupation Watch) è stato pensato da una attivissima organizzazione non governativa internazionale basata negli Stati Uniti, Global Exchange, in particolare da una coalizione di Associazioni, impegnata contro la Guerra in Iraq, dal nome United for Peace and Justice. A Bagdad incontro infatti una delle sue più attive animatrici, Medea Benjamin, sempre in movimento, anche in quell’incredibile calura, insieme a Gwayle, addetta alle riprese con videocamera. Le associazioni americane, bravissime a raccogliere fondi, hanno infatti già destinato una quota per la nascita di quest’Osservatorio, di cui fanno parte anche Focus on the global south (fondata da Walden Bello, con sede a Bangkok,) e l’italiana Un Ponte per. Scopo dell’Osservatorio, presentato alla stampa a Bagdad, una settimana fa, è monitorare e denunciare gli effetti dell’occupazione militare angloamericana sulla popolazione irachena, monitorare e denunciare il ruolo e gli abusi delle multinazionali nella ricostruzione (è tra l’altro da osservare che gli americani hanno già dichiarato che intendono privatizzare le imprese pubbliche irachene, ma questo sarebbe una ulteriore violazione della legalità: infatti tale compito è esclusivamente proprio di un legittimo governo iracheno, attualmente non esistente), denunciare le condizioni dei prigionieri politici, sostenere la società civile nel suo faticoso lavoro di costruzione di proprie forme indipendenti di esistenza, far pressione sui mezzi di informazione e sostenerne la libertà di espressione. Al momento vi lavorano le due giornaliste irachene già citate e i campi di intervento individuati vanno dalla situazione igienico sanitaria a quella economico sociale, dalle questioni relative alla diffusione delle droghe e della prostituzione (ne abbiamo già potuto constatare i primi sintomi), alla regressione dei diritti delle donne, dalla disoccupazione alla crisi alimentare (tra breve terminerà il programma oil for food e non si sa che ne sarà delle tessere alimentari che rappresentano oggi lo strumento fondamentale di sopravvivenza della popolazione: c’è grande scetticismo tra coloro con cui parliamo sul fatto che potranno avere di meglio, e preoccupazione per le dichiarazioni americane che vogliono la fine di questa forma di assistenza, per lasciare tutto “al mercato”!) Promozione dei diritti e della democrazia sono il quadro di riferimento entro cui indagini, filmati, interviste, denunce, dovrebbero collocarsi. L’Osservatorio, che ha un carattere internazionale, si svilupperà a seconda dell’investimento su di esso che movimenti ed associazioni di altri paesi vorranno farci. C’è bisogno di una sede, di una strumentazione informatica, telefoni: dovrebbe effettivamente partire a settembre. Attualmente è sorretto dal lavoro delle due giornaliste e da un sito web gestito dagli stati Uniti. Vengono raccolte interviste, storie, dati: ma serve una permanenza, per poter coordinare il lavoro. Se l’osservatorio riuscirà a decollare e vivere, sarà un primo risultato tangibile del movimento globale contro la guerra che è la grande novità del 2003. Servirà a ricordare che la guerra non è davvero finita, non solo per le minacce che gravano su altri paesi, ma perché qui prosegue attraverso la forma dell’occupazione militare, con tutto il suo carico di grandi e piccoli soprusi e umiliazioni, di vittime civili, di violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, la richiesta dell’Osservatorio è che il mondo non volti la testa dall’altra parte. Partito
Comunista Iracheno Incontro il rappresentante del Partito Comunista, responsabile per i rapporti con le associazioni e ong, in una bella sede, grande, con aria condizionata e divani. Il Partito Comunista Iracheno, di cui buona parte dei dirigenti ha vissuto in esilio, o in prigione, e molti sono stati assassinati, è oggi diviso in tre (qualcuno dice 5) componenti. Difficile comprendere i particolari di queste divisioni ma tutti sono uniti nella condanna della guerra e dell’occupazione. Il carattere distruttivo di queste è evidente, come anche la pessima amministrazione “Volevamo l’esilio di Saddam, non la guerra…” Ci parla del Consiglio governativo (con l’incarico almeno teorico di preparare il processo elettorale) che dovrebbe essere comunicato tra due giorni, formato da un minimo di 15 rappresentanti di partiti e il resto da singole personalità: dice che il partito comunista sta ancora discutendo se entrare in questo organismo perché hanno registrato un forte disaccordo con il rappresentante degli occupanti Bremer, in particolare sulla situazione economica: l’economia è stata pressoché completamente distrutta dalla guerra. Gli americani hanno già fatto contratti con banche e multinazionali per investimenti diretti , ma devono essere ratificati dagli iracheni. Ci parla della resistenza, dice che nessuno vuole la presenza degli angloamericani e che il partito è per una resistenza pacifica. Riconosce l’esistenza di una resistenza armata che sembra essere cominciata dai sostenitori del vecchio regime, ma che va prendendo piede anche tra altre zone di popolazione, dati i maltrattamenti e danneggiamenti subiti dagli eserciti occupanti. Annuncia che il 14 luglio giorno dell’indipendenza nazionale, della fine del colonialismo inglese e della monarchia, ci sarà una grande manifestazione in centro città (la vedremo, e sarà di 10.000 persone circa). Associazioni
per i diritti umani – il caso di Alaa Adil - I trasportatori disoccupati Ne incontriamo ben tre, accomunate dalla evidente precarietà dei mezzi (nessuna ha a disposizione computers o altri materiali d’ufficio, né utilizzano posta elettronica: l’autista traduttore, Emad, ogni volta cerca di convincerli ad aprire una casella elettronica andando in un Internet Café…). La loro attività, che si svolge in due casi da anni, e solo in uno è recente di mesi, è centrata su vari campi: documentazione e denuncia dei misfatti di Saddam Hussein, ricerca delle fosse comuni, degli scomparsi (circa 2.000.000), risarcimenti per chi è stato molti anni in prigione. In secondo luogo, e in un caso particolarmente, documentazione e denuncia degli effetti dell’embargo e della guerra del Golfo. Ci fanno vedere foto terribili di malformazioni genetiche per i nati successivamente. Raccontano dell’assurdità di aver lasciato il luogo dove si trova il reattore nucleare aperto e incustodito da parte degli angloamericani: molti abitanti del villaggio vicino sono andati a curiosare e, non sapendo niente, hanno disperso, credendolo un fertilizzante, uranio nel terreno. La misurazione della radioattività sugli abitanti del villaggio ha dato risultati impressionanti: sia sugli abiti delle persone che sul terreno ci sono state forti reazioni radioattive. Da tutti
troviamo diffidenza nei confronti dei partiti. La critica è sempre la stessa ai
dirigenti: sono stati all’estero quando la gente soffriva, adesso rientrano al
seguito degli americani, o dopo di loro. Arriva la notizia, fin dall’incontro
con la prima Associazione, che Bremer ha dichiarato che non accetterà più
denunce o proteste relative al comportamento degli americani (…”mica
possiamo accusare noi stessi…”): l’occupazione è l’altro campo di
indagine e di denuncia. Proprio in una di queste associazioni, operante dal
1960, ridotta al silenzio da Saddam Hussein, tranne che per la denuncia sugli
effetti dell’embargo, oggi rinominata come organizzazione per i diritti
umani in quanto tende ad aggregare le persone all’interno di comitati (media,
salute e ambiente, handicap, lavoro, istruzione, emergenze), parliamo con un
avvocato, come tutti gli altri che prestano la loro opera, volontario, che ci
elenca i campi di attività: documentazione crimini Saddam; ricerca scomparsi;
recupero di beni sottratti o
confiscati; prigionieri politici (risarcimento); vittime della guerra e
dell’occupazione. Il punto di riferimento fondamentale è la Convenzione di
Ginevra. Quanto al rapporto con l’Autorità provvisoria occupante, dicono che
devono andarsene al più presto possibile e intanto realizzare i loro obblighi
verso la popolazione: le violazioni della Convenzione vengono denunciate sui
mezzi di informazione oltre che direttamente alla Coalizione, che in genere
cerca di negare o di trovare coperture. Il giudizio dell’avvocato è molto
netto: gli occupanti non si stanno assumendo le responsabilità verso la
popolazione (per esempio fornitura di elettricità e acqua) per mantenere il
paese nel caos, attraverso il quale giustificano la loro permanenza e impegnano
le persone a occuparsi delle mille
difficoltà della vita quotidiana, per distoglierli dai problemi fondamentali,
come il processo politico e democratico di costituzione di un governo legittimo
iracheno e la stesura della nuova costituzione, alla quale questa organizzazione
intende partecipare.Lo spirito che la anima è cercare di unire su principi e
valori fondamentali, dal momento che la politica dei partiti divide. Mentre parliamo arriva trafelato un uomo che ci racconta un caso che l’organizzazione sta seguendo: sua nipote, una bambina di 12 anni, Alaa Adil Naama, qualche giorno fa, uscita da scuola dopo aver fatto gli esami, stava tornando a casa insieme ad altri bambini ed è stata colpita ad un occhio da un proiettile sparato da una mitragliatrice americana. Il soldato era stato spaventato probabilmente da un tentativo di attacco ed aveva reagito sparando all’impazzata, senza neanche guardare. Alaa perderà l’occhio destro e quasi certamente anche il sinistro se non verrà sottoposta a cure che sono però impossibili nell’ospedale in cui si trova. Ci chiede di andare a trovarla e di fare qualcosa. Andremo a trovarla il giorno dopo e la madre disperata ci confermerà piangendo la situazione, continuando a chiederci perché è potuto succedere questo, mostrandoci la divisa che la bambina indossava, piena di sangue. Riusciamo solo, visto che dobbiamo partire due giorni dopo, a lasciare il caso all’attenzione di un volontario dell’ICS e del nostro autista traduttore Emad, che abbiamo visto piangere di fronte al dolore di quella madre e alla sofferenza della bambina. Anche lui ha tre figli piccoli. Nell’ultima associazione che incontriamo, quella in cui ci parlano maggiormente di diritti umani legati all’occupazione, ci raccontano anche di un giovane medico ucciso allo stesso modo durante una sparatoria. Prima di
entrare, Emad, io e un giovane giornalista italiano free lance, Massimiliano,
veniamo circondati da un gruppo di uomini che parlano concitatamente.
Dopo un po’ riusciamo a capire che sono un gruppo di camionisti, in
rappresentanza di 150, dipendenti da una società pubblica del Ministero dei
trasporti, tutti licenziati al momento in cui è scoppiata la guerra e senza
nessuna prospettiva: sono stati cambiati cinque direttori diversi, ma senza
risultato. Hanno parlato con un rappresentante della coalizione che ha detto
semplicemente che possono trovare altri lavori, fare pulizie, muratori. Oltre
alle difficoltà evidenti di trovare altri lavori, rivendicano però con
orgoglio la loro professionalità “Siamo trasportatori e vogliamo fare questo
lavoro!..” Ricordo che abbiamo incontrato il sindacato e proviamo a
suggerirgli di andare da loro: ma non ne vogliono sapere, l’unico sindacato
che hanno conosciuto è quello di regime e pensano ovviamente che non ci sia più.
Finalmente compare il loro primo direttore, di cui sembrano fidarsi, e ci
riuniamo tutti insieme in una minuscola stanza. Il direttore dice che anche lui
ci tiene molto a questi lavoratori, molto professionali, che ha lavoro da fare,
ma che deve avere l’autorizzazione per l’assunzione, adesso che non c’è
governo, dalla coalizione occupante. Ha già fissato un incontro con loro per
due giorni dopo e farà di tutto per risolvere il problema. Tutti sembrano molto
soddisfatti e ci fanno grandi ringraziamenti e strette di mano: non abbiamo
fatto molto, ma siamo stati ad ascoltarli e abbiamo mostrato di capire il loro
problema…. Nella sede dell’associazione, poverissima, denunciano l’esistenza dei 12.000 prigionieri politici già fatti dagli angloamericani, attualmente in due prigioni, una all’aeroporto e una vicino Bagdad. Viene proibito di visitarli anche ai parenti e di avere avvocati. Non si sa nulla di loro, non si sa quando usciranno. Documentano anche la quantità di civili, specie bambini, uccisi con le cluster bombs tirate nelle case oppure dai cannoni che colpiscono in particolare le automobili. Ci mostrano foto di soldati che entrano nelle case con la forza sfondando a calci le porte: una volta entrati non solo perquisiscono, ma rubano oro, soldi, oggetti preziosi. Un altro elemento dell’occupazione, che ricorda sinistramente quella israeliana dei territori palestinesi, è l’istallazione di check points mobili, a tempo determinato, che appaiono e scompaiono in modo inatteso: ci sono testimonianze di aggressioni da parte di soldati ad autisti che non si sono fermati immediatamente, non essendosi resi conto di trovarsi di fronte a posti di blocco, uno è stato ucciso. Le violazioni vengono documentate, comunicate alla stampa e poi consegnate ad Amnesty international (che ha stilato in questi giorni un suo rapporto) e alle Nazioni Unite. Diritti
delle donne Ne parlo in particolare con una giovane sociologa, che fa la giornalista per la free Iraqi Broadcasting, che ha sede nell’hotel Al Hamra, Asma Jamil. Il quadro è disastroso: le donne, prevalentemente occupate nell’impiego pubblico, hanno perso in molte lavoro e salario, manca tutto ed è difficilissima la vita quotidiana. Viene data la caccia a quelle considerate appartenenti al partito Baath, sono continue le violenze e gli stupri per vendetta: la maggior parte delle donne vive in uno stato di precarietà e paura permanente, perché sono diventate bersaglio di molti: criminali comuni, fondamentalisti islamici, aggressori di vario genere. “Io stessa, - dice Asma, - non metto più i pantaloni, sono costretta a portare queste gonne lunghe, per paura di ritorsioni. Anche se durante il regime c’erano forti limitazioni dei diritti e una legge, come il codice d’onore, pessima per le donne, esisteva un quadro di regole: adesso è il caos totale.” Nel frattempo
veniamo a sapere che è stato nominato il consiglio governativo iracheno, con
posti distribuiti per partiti, etnie, religioni: si direbbe un manuale Cancelli
all’irachena. Ci sono tre donne su 25 e Asma pensa che sia comunque un fatto
positivo, ma come sentiremo da molti altri, critica il primo atto formale del
consiglio: decidere come festività nazionale il 9 aprile 2003. “Ma come –
commenta Iman, altra giornalista che è con noi – dovremo festeggiare il
giorno dell’occupazione?” La città
delle moschee: Fallouja A 70/80 chilometri da Bagdad, questa cittadina è sempre stata conosciuta come una città estremamente religiosa e con costumi molto conservatori. Di minareti se ne vedono moltissimi. Oggi è conosciuta come la città della resistenza, ma contrariamente a quanto riportano gli organi di stampa, non è un centro di seguaci di Saddam, non ci sono organizzazioni per la resistenza, ma ciò che sentiamo dire è che gli attacchi e i danni, anche in termine di vittime civili, subite dalla popolazione ad opera dell’esercito statunitense sono stati qui tra i più rilevanti e sono la causa di questa ribellione. I carri armati sono entrati nella città, contrariamente a quanto era stato richiesto e, sembra, concordato con le autorità locali. Le case sono state invase da militari, perquisite donne e uomini, con una totale mancanza di rispetto per la cultura e i costumi di quella società. Da qui è nata la ribellione della popolazione che ha preso anche la forma di attacchi armati quotidiani ai soldati, che si sono ritirati alle porte della città, ma sono costantemente tenuti sotto tiro. In paese gira la battuta che quando vogliono punire qualcuno nell’esercito americano lo mandano qui! Girano anche voci su militari americani che scappano dal confine con la Siria non sopportando più né il clima né lo stato di paura permanente, voci su perdite più alte di quanto viene reso noto, voci…appunto. Ma ciò che è certo è l’insofferenza crescente della popolazione, per un’occupazione che di giorno in giorno dimostra di non risolvere i problemi materiali essenziali, ma usa sempre più violenza, dopo essersi presentati come liberatori e portatori di democrazia. Anche chi è assolutamente convinto che non c’era democrazia sotto Saddam Hussein, oggi vuole costruirsi la propria democrazia e la propria libertà, per cui la fine dell’occupazione è l’obiettivo priori tario. “Litigheremo tra di noi, ma alla fine faremo da noi, c’è molta gente intelligente che può governare, possiamo riorganizzare la nostra società” Più o meno è questa la frase che si sente ripetere sempre più spesso: se non cambierà rapidamente in meglio qualcosa, anche chi sta aspettando qualche risultato, anche chi continua a sperare in un avanzamento positivo delle condizioni di vita, perderà pazienza e speranza: e questo porterà ad un ulteriore disastro sociale e civile, sicuramente ad una situazione di sempre maggior violenza. Il sogno di un medico palestinese Anwar Salem Al Awadieh è originario di Hebron, dove ha vissuto alcuni anni nel campo profughi di al Fawar. E’ medico della Mezza Luna Rossa Palestinese (equivalente della nostra Croce Rossa), ed il suo sogno realizzato è un poliambulatorio a Bagdad, vicino agli edifici dove alloggiano circa 10.000 palestinesi iracheni. Ce ne parla mentre ci guida a visitarlo e ci spiega come funziona. Lavora 24 ore su 24, dalle 8 alle 20 per le visite, circa 2000 pazienti al giorno, di cui il 90% iracheni. Chi può, paga 250 dinari iracheni (la sesta parte di un euro!) e chi non può non paga, ma c’è una cassa di solidarietà costituita con fondi di donatori per coprire le spese di chi non può pagare. Le medicine, se sono disponibili, vengono date gratuitamente. Il fondo di solidarietà viene distribuito tra medici (50%), staff (25%), manutenzione (25%). Adesso è un momento particolarmente difficile e faticoso, la stanchezza segna il viso di Anwar, che è anche coordinatore del Centro Haifa, dal nome di un club che era prima dedicato ad attività sociali (molti dei palestinesi che sono qui provengono da tre paesi vicino Haifa): adesso c’è una sorta di accampamento fatto di tende dove cercano di vivere più di 1000 palestinesi cacciati dalle loro case, che nel caos post guerra, sono state occupate o dai proprietari o da altre persone che hanno approfittato della situazione (una parte delle case erano di proprietà del governo). Con una temperatura di 50 gradi all’ombra la vita nelle tende è terribile, la mancanza di acqua provoca molti problemi igienici, si sviluppano malattie, alcuni bambini sono stati avvelenati, tre donne hanno abortito ed è morta una persona anziana. Sono arrivati aiuti dalle chiese, dai musulmani in Pakistan e un sostegno dall’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite (in Iraq non c’è l’Alto commissariato per i rifugiati). Questa situazione dura da due mesi: c’è anche un gruppo di pacifisti internazionali, molto attivi nella campagna di denuncia e di informazione che hanno cominciato, proprio il giorno della nostra visita) uno sciopero della fame di protesta per ottenere alloggi decenti per questi 1000 sfollati. La condizione dei palestinesi che prima della guerra era sostanzialmente pari a quella dei cittadini iracheni (tranne il diritto di comprare un’auto o un’appartamento, per il quale serviva un garante iracheno) è adesso molto peggiorata: non c’è lavoro, dopo la caduta del governo ci sono stati saccheggi, espulsioni dalle case, vendette, nella totale assenza di regole e controllo. Adesso nel campo si è formato un comitato popolare diretto da un responsabile dell’Haifa Center e da un responsabile del comitato rifugiati palestinesi in Iraq ed è stato risolto il problema dell’approvvigionamento idrico, ma manca un generatore (quello che c’era è stato ripreso dal proprietario) e gli estintori comprati si sono rivelati inutilizzabili, perché non funzionanti. “Se terminerà la validità della tessera alimentare – ci dice Anwar – moriranno in tanti” Poche ore prima di partire veniamo a sapere che sono state finalmente trovati gli alloggi per la gente del campo: ci vorrà un po’ di tempo per rimetterli a posto, ma sembra che per queste 1000 persone il futuro sia meno nero! Dopo aver
visitato le stanze con incubatrici abitate da neonati con qualche problema, nel
reparto maternità di un Ospedale, dove sono stati installati i depuratori
d’acqua, parte di un progetto sugli ospedali di Bagdad, del Tavolo di
solidarietà con le popolazione dell’Iraq, affrontiamo con il cuore pesante,
ma quest’immagine di speranza, le 12 ore di viaggio che ci porteranno da
Bagdad ad Amman, per rientrare in Italia. |