Forum sociale mondiale sulla Palestina

Ramallah, Palestina  – 27-30 dicembre 2002

 

Da Gerusalemme a Ramallah e Gaza, da Nablus a Jenin, da Nazareth a Tel Aviv e al kibbutz Metzer - di Alessandra Mecozzi

Le immagini delle macerie desolate e tragiche della Muqata, quartier generale del presidente Arafat a Ramallah, di quelle del campo profughi di Jenin (ma la maggior parte è stata rimossa, lasciando un grande e lugubre vuoto), i colpi secchi degli spari al check point, la figura di un ragazzo palestinese, ammanettato, con un fucile puntato alla schiena, probabilmente avviato a un campo di detenzione israeliano, rimangono a lungo impresse, come le parole intelligenti e ferme di Dov Avital, segretario del kibbutz Metzer, 500 persone, non lontano da Tel Aviv, basato su agricoltura e produzione di impianti di irrigazione, confinante con un villaggio palestinese dell’area di Jenin, colpito tre settimane fa dall’orribile attentato di “un killer professionista” che ha ucciso due donne e due bambini, nei loro letti, e il segretario del kibbutz stesso. “Dopo l’attentato, il nostro messaggio, anche se non amiamo giornali e tv, lo abbiamo voluto lanciare: questo crimine non deve ricadere sui nostri vicini palestinesi, con i quali abbiamo sempre avuto ottimi rapporti. Venivano qui a lavorare, quando volevano, le donne venivano con i bambini, senza uomini, il che vuol dire che quella comunità ci riteneva in grado di rispettare, insieme alle donne, il loro onore. Insieme abbiamo sostenuto la necessità che il muro di divisione (in costruzione su decisione del governo israeliano, ndr) non attraversasse le case, ma venisse fatto sul confine internazionale: le autorità israeliane ci hanno ascoltato solo dopo che è avvenuto quel massacro…Quando è venuto il rappresentante della municipalità palestinese a chiedere perdono, gli ho detto che esprimere perdono avrebbe significato riconoscere qualcuno di quella comunità colpevole, e io non lo credo assolutamente”.

Passa solo un giorno dal rientro a Roma, e arriva la terribile notizia dei due kamikaze palestinesi che si sono fatti esplodere alla stazione degli autobus di Tel Aviv, 25 morti. Davvero questo orrore non avrà fine? È la domanda attonita che tutti si fanno, in Palestina e in Israele, sempre più preda della sfiducia e di reazioni irrazionali, come quella di continuare a votare massicciamente per Sharon, considerato il vincitore delle elezioni del 28 gennaio. La paranoia della “sicurezza” (mai ce n’è stata così poca come da quando il governo è nelle mani di Sharon) fa premio su tutto.

Ma c’è una parte della società civile e politica che resiste all’orrore: a questa, ai suoi permanenti e testardi sforzi di reazione intelligente e coraggiosa vogliamo dare valore e il massimo impegno possibile.

È stato davvero importante che si svolgesse a Ramallah, e poi a Gaza, a Nazareth e, con un ristretto incontro a Tel Aviv, il World social forum, dopo la delibera formale nel Consiglio internazionale tenutosi a Firenze nei due giorni successivi al Forum sociale europeo. Circa 350 partecipanti, tra palestinesi di molte organizzazioni non governative, coordinate dal Pngo di Mustafa Barghouti, e delegazioni internazionali: dall’Italia, Francia, Grecia, Svizzera, Belgio, Gran Bretagna, dal Brasile, un rappresentante del movimento dei Sem terra; una discussione organizzata in plenarie e gruppi di lavoro, sui temi del rapporto tra movimento globale e lotta palestinese, sul diritto internazionale e la protezione internazionale della popolazione civile, sullo Stato indipendente palestinese e la trasformazione democratica, e poi sui temi della vita materiale, della povertà e della disoccupazione, degli insediamenti e dell’acqua, dei diritti dei profughi e dei prigionieri; di Gerusalemme e dei confini; sulle iniziative internazionali ed europee. Una occasione di discussione in primo luogo per le stesse associazioni palestinesi, per la prima volta a confronto non solo con i temi centrali della resistenza e della loro attività sociale e politica, ma con quelli dell'agenda internazionale dei movimenti “no global”. Aleggiava lo spettro della guerra contro l’Iraq, rischio di  ulteriore tragedia per la Palestina, sostegno a Sharon nella sua distruzione selvaggia, causa di altre vendette e controvendette.

Dei quattro obiettivi principali che le associazioni promotrici assegnavano al Forum mondiale sulla Palestina – integrare la lotta nazionale palestinese nell’agenda del movimento mondiale; concentrare l’opinione pubblica mondiale sulla violazione dei diritti umani da parte di Israele nei territori palestinesi; favorire l’arrivo di centinaia di persone a sostegno della resistenza palestinese dai diversi continenti; rafforzare e sostenere il legame con il Forum sociale mondiale, riferimento per i movimenti sociali e organizzazioni della società civile a livello mondiale; - almeno tre sono stati raggiunti. Meno sicuro, data anche la scarsa copertura mediatica internazionale dell’evento, che ci sia più di attenzione della opinione pubblica mondiale sulle violazioni di Israele del diritto internazionale e dei diritti umani, anche se sia a Ramallah che a Gaza si fanno manifestazioni di alcune centinaia di persone nelle strade.

A Gaza ci incontriamo anche con il sindacato, che non abbiamo visto coinvolto in questa iniziativa. Dopo averci mostrato il centro computer realizzato con il risultato della sottoscrizione nelle fabbriche metalmeccaniche italiane, ci parla a lungo della disastrosa situazione economica e della assoluta necessità di pace per i due popoli. Scettico sulla iniziativa del Forum sociale, come si è realizzata a Gaza, amareggiato e orgoglioso quando ci parla del ruolo attuale del sindacato: “non siamo un centro di assistenza né il ministero degli Affari sociali, il sindacato organizza i lavoratori nella lotta  per i diritti, per la formazione, per migliori condizioni di vita: oggi purtroppo siamo costretti a svolgere un ruolo di assistenza, attraverso anche donazioni internazionali, perché disoccupazione e povertà stanno raggiungendo livelli insopportabili: circa il 50% della popolazione vive con due dollari al giorno”

La realizzazione del Social forum è stata comunque una novità positiva: il governo israeliano ha reagito, questa volta respingendo all’aeroporto di Tel Aviv una delegazione belga, compreso un parlamentare europeo, e sottoponendo tutte le delegazioni, in uscita, a minuziose e defatiganti perquisizioni e interrogatori.

La democrazia sta arretrando fortemente: tutti hanno denunciato il processo involutivo - altro episodio, il divieto da parte della Commissione centrale elettorale di Israele a presentarsi alle elezioni per il partito palestinese-israeliano Balad e il suo candidato Azmi Bishara nonché per Ahmed Tibi, partito Hadash (ritirato dalla Corte suprema l'8 gennaio 2003, ndr) - e parlato anche dell’arretramento delle coscienze e della frammentazione delle società civili. Ne sono stati buoni testimoni anche coloro che abbiamo incontrato a Nazareth, associazioni di palestinesi con cittadinanza israeliana (1.200.000 in Israele), in una parte supplementare del Social forum, che con molti dati ci hanno illustrato la condizione discriminata sul versante lavorativo e sociale, oltre che politico, di questa consistente parte di popolazione, ci hanno parlato della loro partecipazione fin dall’inizio dell’intifada e dei sette dimostranti uccisi dalla polizia durante una manifestazione, per la prima volta l’esercito israeliano ha sparato su cittadini israeliani. E poi ci hanno mostrato la nuova Nazareth Illit (alta) quartiere residenziale solo per ebrei israeliani che domina dall’alto la città vecchia, prevalentemente abitata da palestinesi israeliani. Periodicamente le loro terre vengono espropriate per “uso pubblico”, ma ai palestinesi non è consentito costruire né fabbriche né scuole né giardini e “se vogliamo parlare di pari opportunità, vorremmo anche le piscine per i nostri figli, come per quelli degli ebrei israeliani”

Della crisi economica e sociale, è consapevole anche il sindacato Histadrut, incontrato su nostra iniziativa, esso stesso in difficilissima situazione economica, dopo la sua “privatizzazione” (prima era automatica l’entrata di quote in rapporto alla iscrizione al Servizio sanitario nazionale, adesso questo legame non c’è più), ma  impegnato in lotte contro i tagli alla spesa sociale e la disoccupazione. Come in Europa, le politiche liberiste, già sostenute dal governo laburista, stanno provocando disastri economici e sociali. Ma sul rapporto tra queste lotte e le questioni “politiche” (vedi l’occupazione dei territori palestinesi), sulle migliaia di miliardi che vengono investiti nella difesa militare di insediamenti, talvolta di poche migliaia di coloni, non si pronunciano.

Proprio questo punto – ci ha detto invece Naomi Kazan, deputata alla Knesset – è centrale nella campagna elettorale del Meretz, ma ha anche aggiunto che la risposta elettorale è irrazionale: “il 70% della popolazione è consapevole che non c’è alternativa alla soluzione di due popoli e due Stati, ma in preda alla schizofrenia, il 60% finisce per votare a destra.” Come altre voci israeliane e palestinesi, anche Naomi sostiene la necessità di una soluzione che si realizzi attraverso un soggetto internazionale e parla di una sorta di amministrazione fiduciaria internazionale che possa garantire in loco l’applicazione di un accordo e la protezione per la popolazione civile, insieme al ritiro dell’esercito israeliano. “Oggi – dice – mi sembra l’unica strada percorribile. Non è auspicabile la separazione unilaterale, attraverso il muro in costruzione, perché dovrebbe essere fatto sui confini del '67, e non lo è; non è possibile il negoziato perché le due leadership si odiano”.

Tutti senza distinzioni fanno affidamento sulla comunità civile internazionale, non solo come veicolo di solidarietà, contro l’isolamento, ma di necessario coinvolgimento più ampio delle loro stesse società e di pressione sulle Istituzioni europee e mondiali.

L’uscita democratica dalla crisi economica e sociale e dalla situazione di occupazione e guerra è all’ordine del giorno nelle due società: ma, dice Dov Avital, dobbiamo trovare un altro modello, non quello americano, del libero mercato assoluto, e la esperienza e cultura del kibbutz ci può aiutare; è vero che i giovani non sono attratti dal vecchio modello del Kibbutz, che ha però una struttura comunitaria più in grado di resistere anche economicamente alla crisi (i kibbutz rappresentano il 2% della popolazione israeliana, ma il 40% del pil), anche senza sussidi governativi, che vanno tutti ai coloni in territorio palestinese: si tratta di tradurre gli stessi valori in una lingua diversa. Come dice mio figlio di 4 anni, se non capisco niente di computer non capisco niente del mondo!” Lasciamo al kibbutz, come avevamo fatto a Ramallah, una bandiera multicolore della pace, insieme a tanta stima e affetto e l’impegno a ulteriori momenti di incontro, magari telematici!

Di democrazia si parla anche a Nablus, nella sede del Sindacato palestinese, il  segretario generale è convinto che tutta la popolazione palestinese voglia nuove elezioni in Palestina. “Ma, obietta Abla, dirigente sindacale, quando vado tutti i giorni a parlare con lavoratrici e lavoratori, trovo frustrazione e richiesta al sindacato di lavoro, di cibo, di difesa: non mi parlano molto di elezioni.  Questa pressione della comunità internazionale per le elezioni la trovo paradossale: perché questa pressione non è fatta per rimuovere le colonie illegali, per applicare le risoluzioni Onu, per mettere fine a una occupazione anch’essa illegale? Qui l’arretramento della democrazia è evidente, ma le sue radici nel disastro economico e sociale lo sono altrettanto. Questa popolazione aveva tra i livelli di istruzione più alti e adesso tutto il sistema educativo è sconvolto: con 120 check point fissi e altri mobili, insegnanti e studenti per arrivare a scuola ci mettono ore, devono fare strade secondarie, perché non sono autorizzati a passare, non ci sono programmi in grado di essere rispettati; i genitori hanno paura e alla fine decidono che è meglio che le figlie, soprattutto, smettano di studiare e stiano a casa, e anche questa sicurezza è estremamente precaria dato che hanno già distrutto 2465 case; sono oltre 10 anni che lottiamo perché le donne affermino il proprio diritto allo studio, al lavoro, alla partecipazione sociale e politica: ma se restano a casa,isolate, questa prospettiva si blocca e l’intera società ne viene colpita, c’è una perdita di identità e di visione del futuro.”