Introduzione seconda giornata Medlink – Politica, cultura, religioni…..

Alessandra Mecozzi, Fiom-Cgil

 

Devo fare una introduzione difficile, che serva per dare spunti alla discussione. I temi di cui vogliamo parlare stamani- culture, religioni, politica, ma anche razzismi e fondamentalismi, -insomma del mare in tempesta in cui siamo, sono complessi, ma essenziali nei tempi in cui viviamo.

Comincio da una cosa semplice e drammatica: oggi 25 novembre è la giornata che le donne nel mondo, hanno deciso di dedicare ad attività ed iniziative contro la violenza sulle donne: violenza sessuale, in famiglia, violenza della guerra, della povertà, della miseria. In Italia, dicono i dati statistici ufficiali pubblicati ieri, dal 1997 al 2002 10 milioni di donne sono state oggetto di violenza, sia in famiglia che per strada. E si dice anche che questo enorme numero risulta non solo da un aumento della violenza, ma anche dal fatto che le donne da un po’ di anni, almeno 10, hanno deciso di non nasconder più la violenza ma di denunciarla. Hanno deciso cioè una forma di resistenza civile alla violenza. Questo è molto importante: il legame tra il diffondersi di violenza e l’emergere progressivo di risposte di resistenza civile, è uno dei fili conduttori della discussione di oggi. In questa discussione cercheremo fili comuni e anche un linguaggio comune, come strumento di cultura, ricerca non facile perché veniamo da società e esperienze che, pur attorno allo stesso mare, sono molto diverse.

In primo luogo credo che non dovremmo considerare nostro linguaggio, il termine “ scontro di civiltà”, ma parlare piuttosto di “crisi di civiltà”: la realtà è la crisi delle civiltà e dentro questa crisi si manifesta una volontà di poteri grandi e piccoli, di costruzione ideologica, spesso armata, dello scontro. E dobbiamo vedere se e come dentro questa crisi siamo capaci di costruire alternative, risultato non scontato di questa ricerca.

Questa crisi di civiltà è il risultato di tanti fattori messi insieme; certamente di anni di distruzione sociale e economica operata da quello che ieri è stato chiamato fondamentalismo della modernità, o direi meglio, del libero mercato, che è una delle ideologie della globalizzazione, che ha voluto dire costruzione di nuove e più profonde disuguaglianze tra nord e sud,  dentro il nord e dentro il sud, su cui da tanti anni, anche prima del 1989, nelle università degli Stati Uniti si è sviluppata l’ideologia che questo è l’unico e migliore dei mondi possibili: questo è uno dei fondamenti della crisi di civiltà.  La disgregazione economica e sociale ha portato con sé altre tendenze: in una situazione di totale precarietà e impoverimento, ha preso piede la tendenza alla ricerca di qualche certezza, che è diventata anche tendenza alla chiusura. La globalizzazione, dominata da multinazionali e Stati potenti, ha cercato di imporre modelli unici, a cui  ha risposto una ricerca di identità, di simboli, di affermazione di sé, anche facendo ricorso alla proprie tradizioni e propria storia, contro il tentativo di omologazione generale a modelli che provengono dagli Stati Uniti: come qualcuno ha giustamente osservato, l’Europa sta diventando sempre più americana. E questo modello corrisponde alla mancanza di diritti, a un modello di competizione di ognuno contro l’altro,  che si fa sempre più forte. La ricerca di identità, di sicurezze, di porti dove stare al riparo, appartiene a tutti.

La stessa discussione, molto caricata, sulla questione del “velo” dovremmo affrontarla in maniera più laica e con mente libera. Abbiamo negli anni 90 sostenuto, anche se non eravamo in tante, la lotta e la resistenza civile delle donne algerine che si opponevano alle aggressioni, al terrorismo, agli omicidi e che si trovavano tra l’incudine e il martello: un governo autoritario e un fondamentalismo terrorista. Abbiamo sostenuto con forza la loro volontà di essere libere, di scegliere di non portare il velo, di non accettarlo come imposizione politica. Forse perché ho vissuto una stagione di grandi lotte delle donne,quella che è stata definita la rivoluzione pacifica delle donne e  mi sento quindi partecipe del cambiamento da essa prodotto, nei codici e nelle relazioni tra le persone, avvenuto in tutto il mondo, ho una grande fiducia nelle donne, nella nostra, di tutte, soggettività politica, non necessariamente unidirezionale. Anche Firouseh diceva ieri che in Iran le donne sono diventate un soggetto con cui obbligatoriamente tutti, a cominciare dal Governo islamico, devono confrontarsi: si fanno conferenze su conferenze ogni anno che riguardano le donne, si discutono le interpretazioni del Corano…. Delle donne come protagoniste sociali, culturali e politiche, si deve ovunque tenere conto. E’ proprio questa fiducia nella soggettività femminile che mi fa essere contro l’imposizione della “laicità” per legge (come è avvenuto in Francia),  la laicità è il contrario dell’imposizione, da parte di uno stato o di un gruppo. Una laicità che si impone non è tale. Non è semplice, ma proprio perché queste cose sono così complicate, e  il mediterraneo è in qualche modo un’area in cui si concentrano tutte queste contraddizioni e processi, come in un microcosmo, lo vediamo come il luogo in cui è forse possibile far ricorso a pezzi delle nostre culture per costruire insieme qualcosa di diverso e di nuovo.

Ma guardiamoci soprattutto dallo sventolare il Mediterraneo come una bandiera: questo mare non è una ideologia, ma uno spazio pieno di dinamiche, perciò propongo che lo consideriamo uno spazio di ricerca comune. E’ possibile trovare in questo spazio anche fili comuni? Penso di sì, ma a condizione che riusciamo ad attraversare i confini con le teste e i corpi, per quanto possibile, perché proprio alla libertà di movimento dei corpi vengono opposte barriere. Come diceva il nostro compagno iracheno ieri costruire muri è facile, quasi stupido, mentre ci vanno intelligenza, conoscenze, per costruire ponti: è molto vero. Attraversare i confini a cominciare dalle nostre teste. Sappiamo che ci sono poteri e forti ideologie che vi si oppongono, ma hanno cominciato ad essere messe in discussione: per esempio da Porto Alegre, è arrivato il forte messaggio della messa in discussione della globalizzazione quale unico e migliore dei mondi possibile. Ma sono anche cresciuti ì poteri armati e le ideologie per costruire lo scontro di civiltà, con la guerra, con le occupazioni, ma anche con i nazionalismi e i razzismi, poteri che mettono gli uni contro gli altri strumentalizzando il  bisogno di fede, di certezze, di religione. Dalla distruzione sociale e economica, che  è alla base della guerra permanente per ricolonizzare il mondo, nascono nuovi attori politici con fondamenti religiosi, sostenuti da un grande consenso sociale e popolare. Non so dire se Hezbollah, Hamas, siano il risveglio delle società civili, come ieri veniva prospettato, ma certamente sono attori politici nuovi, radicati nella società: in Palestina, luogo di storica cultura e tradizione laica, Hamas ha vinto le elezioni per la prima volta all’inizio di quest’anno. Allora dovremmo capire di più, vedere più chiaramente, confrontarci, fuori da slogans e mitologie, sui processi sociali e politici, sulla natura delle resistenze, sulle loro prospettive. Sicuramente la religione per chi vuole, per tante persone, donne e uomini, può essere strumento di dialogo e conoscenza reciproca, ma non accettiamo che si spacci la religione, tutte le religioni, come armi per schiacciare gli altri da sé,  che si alimenti un conflitto tra le diversità per affermare il proprio potere: in questo modo torniamo davvero ai tempi delle crociate. Ci siamo arrabbiati moltissimo quando il Papa, il cui pensiero ha ovviamente una grande influenza, e non solo in Italia, ha parlato dell’Islam come violenza. Non si può che essere in totale disaccordo con questa visione, da chiunque e in qualsiasi modo venga prospettata; una visione che è anche nel fondamentalismo di  Bush, nel legame dei “neocon” con le comunità evangeliche che lo hanno fatto vincere alle elezioni. Questo uso della religione non è accettabile.

Quando discutiamo di Islam dobbiamo essere capaci di distinguere; e ci possono aiutare culture comuni, elementi di culture mediterranee, più che negli  Stati Uniti, dove c’è sull’Islam una costruzione, anche precedente all’11 settembre 2001, che ne fa il nuovo Nemico, dopo la fine del Comunismo, in nome della lotta al quale si sono fatti tanti disastri, come le guerre nei Balcani. E non è un caso che la Chiesa cattolica per prima abbia riconosciuto la Croazia come primo Stato indipendente dei Balcani, avviandone la disgregazione e alimentando conflitti religiosi ed etnici che sono ancora in corso. Religioni, interessi, differenze etniche si sono mescolate: la lotta al comunismo è stata brandita come una clava, compresi i bombardamenti Nato su Serbia e Kosovo del 1999. Perciò dobbiamo aiutarci a mettere in discussione queste costruzioni ideologiche e armate. Ha detto ieri, con ragione, il compagno di Hebron: la tragedia della Palestina è una vergogna dell’umanità. Distruzione materiale e culturale, tentativo attraverso l’occupazione e il muro, di distruggere un intero popolo, con la sua cultura, le sue tradizioni, negando i suoi diritti fondamentali. E se questa volontà di distruzione ci fa vergogna, ci interroghiamo su quali  siano le  strade da seguire insieme per una opposizione efficace, per far valere i diritti palestinesi. Non abbiamo incertezze nell’identificare chi sono i nemici, le politiche di Israele e degli Stati Uniti in primo luogo; un’Europa incapace da anni di trovare l’autonomia e la forza per far applicare il diritto internazionale e i diritti fondamentali palestinesi, facendo sì che finisca l’occupazione, che ci sia pace perché c’è giustizia. Lo sappiamo dove stanno i nemici. Ma il problema è se e come riusciamo, anche attraversando i confini, ad opporci a questa opera di distruzione, che è parte della guerra globale e permanente? Quando l’ Amministrazione degli Stati Uniti parla del “nuovo, grande medio oriente”, parla in realtà di una ricolonizzazione, che passa attraverso la distruzione di culture, persone, delle costruzioni umane. Per questo abbiamo bisogno di costruire, e sappiamo che è in controtendenza, perché l’idea che bisogna distruggere, per dominare, sta diventando prevalente, anche se non vittoriosa: guardiamo a Palestina, ad Iraq, c’è occupazione e guerra, la distruzione profonda delle società e delle culture dei popoli e dei paesi, anche attraverso l’utilizzo della contrapposizione tra le differenze: dividere e distruggere, per far sparire l’Iraq, per annullare la Palestina. Far sparire popoli, persone, identità e le loro costruzioni politiche che sono gli Stati, o l’aspirazione e il bisogno di uno Stato. Ma se noi vogliamo costruire insieme, se pensiamo che sia necessario e utile mettere in comune le nostre culture per resistere alla distruzione, per opporci alle occupazioni e alla guerra, il processo di barbarie che si sta estendendo va riconosciuto. C’è una legittimità internazionale delle resistenze, ma è impossibile riconoscere che le decine di uccisioni quotidiane di civili iracheni siano espressione di resistenza. Mi sembra che l’occupazione e la guerra abbiano prodotto un’arma più distruttiva ancora: quella della guerra civile, che distrugge le società, le culture, allontana la solidarietà. “Se tutti si ammazzano tra di loro, noi che c’entriamo”? Succede in Iraq, sta cominciando a succedere in Palestina, c’è la paura che avvenga anche in Libano…

Perciò è così importante fare chiarezza su ciò che si intende quando si parla di sostegno alle resistenze, e le diverse modalità con cui si esprimono: mi sento senza dubbio di dire che il giovane israeliano che si rifiuta di andare a servire e combattere nei territori occupati palestinesi e per questo va in prigione, è parte di una resistenza civile, a cui ha diritto, ed è parte della nostra costruzione di alternative. Dobbiamo sapere quali sono i nemici e dove ci collochiamo, ma anche chi sono coloro che costruiscono il mosaico delle resistenze; Israele fa una politica omicida non c’è dubbio, ma anche suicida, come dicono i nomi dei suoi programmi nucleari, Sansone, Masada. Distruggere e distruggersi: allucinante, ma non irrealistico. Per questo penso che un terreno comune a tutte le socieà civili del Mediterraneo dovrebbe essere quello di una battaglia energica contro le armi nucleari e per un Medioriente denuclearizzato.

Politica, cultura e religioni possono essere parti di un grande e comune movimento di resistenza civile, ma la nostra politica non vuole fermarsi alla sola resistenza, vogliamo prospettare alternative. E’ possibile costruire una prospettiva comune? Che religioni e culture siano strumenti di umanizzazione della politica? Viviamo in un mondo disumanizzato, forse talvolta non ci accorgiamo che noi stessi tendiamo alla disumanizzazione, per la scarsa attenzione che prestiamo ai soggetti, alle donne e agli uomini che ci circondano, talvolta a degli individui, a noi stessi. Dobbiamo anche sapere verso quale prospettiva andare. C’è un tema su cui si molti interventi sono ritornati: la contraddizione tra mediterraneo possibile spazio comune e Israele. Dobbiamo reciprocamente aiutarci a trovare i “links” comuni, se ci sono i medlink”! C’è un interrogativo che vi propongo, e non mi permetto di dare risposte: ma dentro la vicenda così centrale che riguarda Palestina e Israele, c’è o non c’è secondo gli esponenti delle società civili qui presenti anche una responsabilità dei paesi arabi, parlo dei Governi, ma anche delle società civili, critiche verso quei Governi? Penso che anche questo debba essere un terreno di discussione e investigazione. Perché se ci fermiamo alla discussione Israele sì, Israele no, non andiamo da nessuna parte. Noi chiediamo le sanzioni europee contro la politica israeliana, non ci sono, ma le chiediamo: il blocco del commercio di armi, gli accordi di cooperazione militare, la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele. Chiediamo anche a voi, parti di società civili dei paesi arabi qui presenti se e come vi ponete il problema delle pressioni nei confronti della politica israeliana di occupazione e negazione dei diritti palestinesi, se agitte e come in questa direzione. Sono stata da poco in Libano, ho ascoltato, ho visto,  abbiamo ammirato la straordinaria resistenza che c’è stata contro l’aggressione israeliana. Resistenza armata ma anche resistenza civile, la partecipazione solidale di tanti giovani, la grande solidarietà di tutta la società senza la quale anche la resistenza armata non avrebbe avuto quella efficacia. Un massacro di 1000 persone, la distruzione di una grande parte del paese,  perché l’Onu ha agito solo quando gli è stato dato il via libera da Israele e SU, a cui ha saputo resistere tanta parte di popolazione, sono tragiche evidenze contro cui si è esemplarmente levata quella resistenza civile, un esempio fondamentale. Si sono messe in comunicazione religioni diverse, società civile e politica, con un partito, hezbollah, con cui non c’era tanto in comune, ma  c’era la volontà di salvaguardare questo paese del mediterraneo  conosciuto come esempio di convivenza. Ma era solo un’alleanza nell’emergenza, destinata a scomparire dentro le lotte per il potere? O è un esempio di come sia possibile partire da grandi differenze, da diverse resistenze, per arrivare anche a confrontarsi sulle diverse visioni e prospettive, per i diritti e la libertà delle donne e degli uomini, degli Stati stessi? Sentiamo il bisogno di questo confronto, e se questo incontro ci aiuta a farlo e, con questo, a declinare il senso e i significati di un “altro mondo possibile”, penso che sarà stato un successo. Confidiamo molto nelle vostre esperienze, riflessioni e interventi per verificare concretamente la possibilità di costruirlo.