Globalizzazione, diritti
e libertà
Seminario
nazionale
delle
metalmeccaniche
- Università
di Modena - 12
Maggio 2000
APPUNTI
MARINA FORTI, inviata da IL MANIFESTO a Seattle e a Washington
Nelle dimostrazioni che hanno accompagnato il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a Seattle, due elementi colpivano:
il
primo sono gli accostamenti inusuali
in quella moltitudine di persone arrivate da luoghi geografici e da percorsi
politici tanto diversi. Forse ancor di più, l’altro elemento, è stata la sorpresa.
Degli accostamenti inusuali, forse il più evidente era quello riassunto nello slogan «tartarughe e metalmeccanici, finalmente uniti». Altrettanti se non ancora più inusuale l’accostamento reso visibile dall’ultimo corteo di quella settimana a Seattle: ad aprirlo era un camion dei Teamster (il sindacato dei trasportatori, simbolo di una classe operaia dura e piuttosto machista) preceduto da un gruppo di donne lesbiche a seno nudo.
In effetti le forze trainanti a Seattle, anche dal punto di vista organizzativo, sono stati da un lato i sindacati degli Stati uniti (la Afl-Cio, con le sue componenti più storiche - i Teamster, gli Steelworkers, metallurgici - e quelle dei servizi, insegnanti, e una marea di Unions più piccole ma attraversate da un’ondata di attivismo che interessa immigrati latinos, neri, cioè i segmenti più discriminati del mercato del lavoro americano);
dall’altro una serie di organizzazioni
ambientaliste e l’organizzazione Public Citizen, fondata trent’anni fa da
Ralf Nader (organizzazione che è partita dalla difesa dei consumatori per
arrivare a una critica dei meccanismi dell’economia globale).
Com’è noto, già parecchi mesi prima del
vertice del Wto è circolata una “Dichiarazione della società civile
internazionale che si oppone ai negoziati del Millennium Round”, che ha
raccolto l’adesione di 1.300 organizzazioni di 87 paesi (l’importanza di
Internet non è mai stata tanto visibile!). Tutte queste organizzazioni erano
fisicamente presenti a Seattle, anche se ovviamente gli americani in numero
preponderante: il Nord e il Sud del pianeta erano rappresentati, sia fisicamente
sia come contenuti e tematiche. I contadini dell’India, quelli del
Centroamerica, i coltivatori francesi di José Bove, gli ambientalisti
giapponesi, gruppi anche piccoli venuti da ogni dove erano là presenti
Un’altra presenza è stata evidente a
Seattle, inaspettata e forse anche un po’ indefinibile: quella del Direct
Action Network, sigla nata proprio durante la preparazione di quell’evento
(non è neppure detto che sopravviva a lungo): allude a una rete di attivisti
per lo più molto giovani, per lo più ambientalisti e con un forti accenti
anticapitalisti, molti attivi in gruppi per il commercio equo o ambientaliste).
Nelle settimane prima di Seattle si erano coordinati e “addestrati” alla
resistenza passiva, ad arrampicarsi su tralicci o edifici per appendervi
striscioni, a come organizzare cortei improvvisi per bloccare i lavori del
vertice etc. Non ha una struttura organizzativa definita. Un’inchiesta pubblicata in aprile da The New Yorker descrive il Dan come
un’espressione di una nuova ondata di attivismo che sta coinvolgendo i campus
universitari degli Stati uniti e in generale una nuova generazione di giovani.
E’ un fenomeno “interno” americano, anche se da un lato propone tematiche
globali, dall’altro riecheggia modi espressivi di un movimento nato a Londra
negli anni ’90, Reclaim the Streets,
misto di pacifismo, ambientalismo, rave, teatro di strada, improvvisazione
(spesso liquidato in modo sprezzante come “anarchia”).
Negli Stati uniti, dopo Seattle, i commenti e
tentativi di analisi da parte di sindacati, della sinistra (raccolta soprattutto
attorno ad alcune storiche riviste), dell’ambientalismo, etc, concordavano
almeno su un punto: “qualcosa di nuovo sta succedendo. Cosa, non lo sappiamo”.
[A Washington, il 16 e 17 aprile, migliaia di
persone si sono ritrovate a manifestare contro il Fondo monetario internazionale
e la Banca mondiale, che tenevano il loro consueto vertice di primavera (Spring
meeting). In questo caso, la forza trainante era una coalizione di
organizzazioni non governative che da anni lavorano sul monitoraggio delle
organizzazioni finanziarie internazionali: 50
Years is Enough (50 anni sono abbastanza), ong per il commercio equo etc. Le
adesioni comprendevano dalla Afl-cio a Public Citizen, che però non sono
intervenuti come forza organizzativa (hanno preso la parola dal palco di fronte
alla Casa Bianca, dove la manifestazione si teneva). Ha avuto più spazio,
soprattutto nelle cronache delle tv americane, la componente “anarchica”,
con corredo di centro sociale dove si tenevano i corsi di resistenza passiva, si
preparavano i travestimenti da esibire nel corteo etc. Minore la presenza fisica
del Sud del mondo, limitata ad alcuni personaggi intervenuti alle conferenze e
seminari (in particolare del International Forum on Globalization, che ha sede a
San Francisco e riunisce economisti, accademici, attivisti di Asia, Africa,
Americhe). Presenti invece reti di organizzazioni americane che si occupano del
lavoro, tengono contatti con organizzazioni dei lavoratori delle maquiladoras in
centro America, etc. Anche questo è parte dell’ondata di attivismo americano
prima descritta, che non riguarda poi solo le università. Presente infine il
Indipendent Media Centre, gruppo di giornalisti indipendenti (anche questo molto
informale quanto a struttura) che si era formato a Seattle. Ha un sito Internet,
produce trasmissioni radio, video, e critica i media ufficiali.]
I denominatori comuni di questi
“accostamenti inusuali” sono quelli contenuti della “Dichiarazione della
società civile” contro il Wto: di fondo è
Per il resto, in una coalizione così
eterogenea convivono ovviamente accenti e obiettivi diversi:
La Afl-cio era a Seattle per spingere sulla
richiesta di inserire nelle norme del Wto sanzioni commerciali verso i paesi che
non rispettano “condizioni minime” di protezione dei lavoratori e di
rispetto dei diritti umani. La Afl-cio in questo voleva fare pressione
sull’amministrazione Clinton, e questa a sua volta ha usato il sindacato e le
proteste come “sponda” politica per imporre clausole sulle sanzioni al Wto
(questo è stato uno degli elementi che ha fatto fallire il vertice: i paesi in
via di sviluppo, contrari alle sanzioni, non hanno sopportato di farsi imporre
il gioco americano/europeo). I sindacati americani fanno campagna contro
l’importazione di acciaio e in generale di manufatti dall’Asia (lo
considerano un dumping a danno dei posti di lavoro negli Usa). In particolare
hanno cominciato a Seattle e stanno continuando una campagna e contro la legge
(in discussione al Congresso Usa) che garantirebbe alla Cina lo status
permanente di partner commerciale dell’America, che prelude all’ingresso di
Pechino nel Wto.
I sindacati europei tengono accenti ben
diversi su questo punto: vedono piuttosto nell’Oil la responsabilità di
monitorare le condizioni di lavoro e sono tendenzialmente contrari a sanzioni
commerciali (un precedente vertice del Wto aveva già chiuso il discorso delle
sanzioni lasciando tutto il capitolo delle condizioni di lavoro all’Oil).
Organizzazioni ambientaliste americane, e
Public Citizen, chiedono analogamente che i singoli paesi possano imporre
sanzioni per il non rispetto di standard o trattati internazionali ambientali.
Numerose Ong di paesi in via di sviluppo considerano che le sanzioni non siano
uno strumento che le aiuta nella loro battaglia per riforme ambientali, sociali,
sul lavoro etc. (anzi: alcune voci autorevoli, come il Third World Network,
vedono un rischio di “eco-imperialismo” in certe posizioni intransigenti
soprattutto americane…).
Qualche considerazione (non certo
“definitiva”):
a)
E’ ormai consolidata una leadership “globale” fatta da personaggi
che in veste di ricercatori o attivisti guidano una critica all’economia
globalizzata (da Vandana Shiva e il discorso contro i brevetti, agli attivisti nigeriani che
lottano contro le aziende petrolifere, agli economisti e ambientalisti che hanno
formato il Third World Network in Malaysia, al Focus on Trade diretto
dall’economista Walden Bello in Thailandia: tutti con forti connessioni e
lavoro in rete in America e in Europa). E’ una leadership emersa poco a poco
negli ultimi dieci o quindici anni, con i Forum delle Ong che hanno accompagnato
le grandi conferenze dell’Onu sullo sviluppo (da Rio nel ’92 fino a Pechino
nel ’95), che hanno stimolato un gran lavoro di contatti e reti. E’ forse la
fonte più feconda di analisi a livello globale. Direi che è consolidata anche
una rete globale tra movimenti (quella, per intenderci, che collega gli indigeni
dell’Amazzonia o la popolazione locale del Delta del Niger agli attivisti
ambientali di Washington e Londra e Amsterdam).
b)
La presenza femminile: era
visibile dal punto di vista sia dei numeri (tante donne, di ogni età, comprese
le lesbiche davanti al camion degli Steelworkers) sia dell’attivismo (ho visto
intere ong americane rette dal lavoro di ragazze anche molto giovani, impegnate,
articolate). Ma non tanto come presenza organizzata di un discorso femminile
sulla globalizzazione (a Seattle circolava un opuscolo di Wedo, ma era l’unico
segno). Eppure molte delle figure alla testa di quelle organizzazioni, reti, ong,
sono donne: sarà per caso?
c)
Il nesso tra la critica alla globalizzazione condotta dal Wto, Fmi e
Banca mondiale e le condizioni di vita materiale, un po’ ovunque, è stato
reso esplicito. Così pure il nesso tra questa e il degrado ambientale. In
generale, tra quel governo dell’economia mondiale e la democrazia. Forse ne è
un sintomo il moltiplicarsi di conflitti sociali, dagli immigrati messicani
sottopagati che raccolgono le mele nello stato di Washington agli operai tessili
di Phnom Penh, Cambogia (dunque uno dei paesi più poveri e con meno potere
contrattuale sulla scena economica mondiale).
E’ vero, qualcosa sta succedendo. Cosa, non saprei dire…
Maggio 2000