di Alessandra Mecozzi - ufficio internazionale Fiom nazionale
Il
movimento antiglobalizzazione nasce in modi diversi a seconda dei luoghi e delle
soggettività, si sviluppa in modo carsico, con molte differenze interne,
strenuamente difese contro ogni omologazione, ma con un tratto comune:
l’insofferenza crescente, direttamente proporzionale alla consapevolezza che
ogni aspetto della vita quotidiana – l’alimentazione, l’aria che si
respira, l’acqua che si beve – è sempre più deformato. Questa deformazione
nasce da scelte produttive, motivate da puri criteri di profitto, nell’ambito
di una distribuzione della ricchezza sempre più disuguale. Si è arrivati al
paradosso che l’espressione ‘insicurezza alimentare’ significa, a seconda
del parallelo in cui ci si trova, o il rischio di morire per mucca pazza o
quello di morire di fame. E l’insicurezza riguarda anche il lavoro: si può
essere licenziati perché l’azienda trasloca in un altro paese dove il lavoro
costa di meno, oppure assunti per qualche mese e poi sostituiti, in un
assillante turn-over. Si possono
vedere andare alle stelle le azioni dell’azienda che licenzia, mentre una
ossessiva pubblicità spinge ad acquistare i prodotti col suo marchio, sotto il
quale, in un’altra parte del mondo, verranno supersfruttati bambini, donne,
uomini.
Così il
nesso tra Nord e Sud è evidente e il movimento di protesta, salito agli onori
della cronaca a Seattle, ha posto il problema di costruire nuove alleanze, nuove
forme di lotta, nuovi orizzonti sociali e culturali. Condizione per far questo
è mettere in discussione i soggetti della globalizzazione stessa: quel quinto
di mondo che, ‘dall’alto’, la promuove, la governa e ne usufruisce
vantaggiosamente. Perché dunque scandalizzarsi se si parla di movimento
‘antiglobalizzazione’ o distorcerne il senso identificandolo con
atteggiamenti oscurantisti e luddisti, argomentando sulle opportunità della
globalizzazione e sulla necessità di non opporvisi, ma di governarla? È come
se al tempo del colonialismo si fosse detto che, tutto sommato, esso
rappresentava per molte parti del mondo una opportunità di civilizzazione!
Quel
quinto di mondo esercita il proprio potere economico (multinazionali),
finanziario (gli investitori la cui ricchezza supera quella del prodotto interno
lordo dei Paesi del G7); istituzionale (attraverso la triade della Banca
mondiale, del Fondo monetario e dell’Organizzazione mondiale del commercio),
definendone le coordinate essenziali in sedi informali, come il Forum Economico
di Davos, in cui si incontrano dal 1971 finanzieri, managers di multinazionali,
burocrati di istituzioni internazionali. All’interno di questi luoghi si opera
un lavoro di riscrittura di regole globali, giustamente definito di
privatizzazione della sovranità, e perfino la formazione di una ideologia della
globalizzazione come processo positivo. Di questo lavoro e dei suoi effetti
culturali e materiali, molta parte della società civile mondiale ha preso
coscienza manifestandeo in varie forme la propria ribellione, a partire da
quando, quattro anni fa, si denunciò via Internet il tentativo di far passare
in sede Ocse l’accordo multilaterale sugli investimenti, che avrebbe dovuto
garantire alle multinazionali il potere di abbassare gli standard dei diritti
sociali e ambientali, conquistati, dopo lunghe lotte, nei vari paesi.
Del
resto, anche nel nostro paese e nel resto d’Europa, possiamo verificare quanto
forte sia stata la pressione del Fondo monetario internazionale per la
destrutturazione del sistema pensionistico e, ancora oggi, quanto sia forte la
volontà del padronato di deregolamentare la contrattazione collettiva e
annullare l’autonomia contrattuale del sindacato, in funzione di una più
libera competitività delle aziende.
«Sono
in gioco le vere e proprie basi della democrazia e quella facoltà di decidere
responsabilmente che è il supporto indispensabile di tutte le battaglie civili
per un’equa distribuzione della ricchezza e per un’adeguata difesa della
salute, della sicurezza e dell’ambiente» (Ralph Nader, Prefazione a: Wallach
Sforza, WTO, Feltrinelli 2000).
Se a
Seattle i sindacati americani dell’auto, i siderurgici ed i meccanici
parteciparono alla protesta contro l’Organizzazione mondiale del commercio (la
prima di una fase che trova nell’imminente riunione del G8 a Genova un
ulteriore momento di espressione e mobilitazione) ciò è dovuto anche al fatto
che la critica e la pratica antiglobalizzazione negli Stati Uniti sono in corso
da tempo, in corrispondenza di un cambio significativo della linea sindacale che
è cominciato alcuni anni fa, dopo il disastro degli anni ‘80, e che oggi vede
lavorare insieme sindacati tradizionali e attivisti delle lotte per i diritti
dei lavoratori e i diritti umani, studenti, associazioni ambientaliste. Basta
leggere quel libro istruttivo e vivace, considerato la bibbia del movimento
antiglobalizzazione, che è No logo di
Naomi Klein, per rendersi conto di questo lavorìo sviluppatosi negli anni
‘90.
Ci voleva una giovane
canadese, ben educata dalla mamma femminista anni ’70, e con una passione del
mondo così energica come quella di Naomi, per raccontare in modo semplice — e
tanto più efficace in quanto arriva dal cuore dell’Impero —
questa fase della globalizzazione, seguendola attraverso la vita quotidiana in
tante parti del mondo. Una fase nella quale il consumo è sempre più alimentato
da immateriali e simbolici marchi, diventati il cuore di aziende che si occupano
ormai solo del marketing, e si sbarazzano del lavoro materiale,
esternalizzandone parti sempre più consistenti, con un uso feroce delle persone
che lo svolgono, alla ricerca di luoghi e paesi dove produrre a costi
progressivamente più bassi.
Non è
dunque sensata l’accusa di protezionismo mossa a sindacati e associazioni del
Nord del mondo che si mobilitano contro la globalizzazione, anche da parte dei
sindacati internazionali: se i lavoratori dei paesi sviluppati si battono in
difesa del proprio lavoro e dei propri diritti, contro le strategie delle
multinazionali (che tra l’altro cercano nei paesi del Sud, e non solo, di
distruggere sul nascere qualsiasi forma di autodifesa sindacale), non potrà che
giovarsene, proprio in queste aree sfavorite del mondo, la crescita di analoghi
movimenti di lotta. Se alle aziende è lasciata mano libera a cominciare da dove
i diritti sono stati storicamente conquistati, come sarà possibile farli
avanzare nel resto del mondo? E come i governi nazionali, potranno giocare un
ruolo positivo nel contrastare gli altrimenti illimitati poteri delle aziende e
delle istituzioni di sostegno, alle quali peraltro essi partecipano?
Questi
mi sembrano i significati della protesta contro il G8 (e i suoi incontri), che
si propone di governare il mondo (global
governance) in quanto agente e promotore delle ‘leggi del mercato’: nel
caso Bush-protocollo di Kyoto, palesememte obbedendo agli interessi delle grandi
lobby industriali e finanziarie. Non è possibile accettare che si eserciti un
potere così influente sulla vita delle persone e del mondo, senza alcuna base
di legittimità rispetto alle popolazioni interessate, che non possono non
temere le decisioni di chi ha promosso guerre recenti vantandole come strumenti
di affermazione universale di diritti umani, e poi si mostra pronto nello stesso
tempo a infrangere ogni vincolo relativo ai diritti delle persone e a rispettare
le pretese del potere economico e finanziario volte a garantire i propri
interessi.
Che
questo insieme di questioni, qui brevemente accennate, chiami in causa le
responsabilità dei sindacati nazionali e internazionali per quanto ancora
rigidamente basati sulle ‘sovranità nazionali’, non c’è dubbio: molto più
complesso e faticoso sembra invece il percorso di presa di coscienza di tali
responsabilità e, soprattutto, quello che porta ad assumere decisioni coerenti,
con il coinvolgimento dei propri rappresentati. Finora solo i sindacati
statunitensi, e quelli brasiliani e latino americani, a Porto Alegre, hanno
coinvolto i lavoratori associati in iniziative di netta critica alla
globalizzazione.
Penso
dunque che sia non solo giusto, ma utile, stare all’interno di questa ricerca
transnazionale di pratiche critiche differenti, confrontandosi con i suoi
soggetti, e portando la discussione tra i propri rappresentati/e; e nello stesso
tempo (ce lo ha ricordato con grande efficacia un dirigente sindacale
sudafricano) costruendo radici più forti nelle proprie realtà, per
rilegittimare un potere di intervento destinato all’obsolescenza — perché
lontano dalla realtà delle persone che sole possono fondarlo — se non trova
una sua nuova definizione sulle questioni sociali nazionali e internazionali.
Anche
per queste ragioni la Fiom ha aderito al Forum sociale mondiale di Porto Alegre,
prima occasione di incontro dei movimenti con una dichiarata volontà di
elaborare proposte alternative, oltre che di protestare. Per analoghe ragioni
aderisce al Genoa Social Forum,
l’insieme di associazioni e movimenti che promuovono le iniziative di
confronto e di manifestazione in occasione del G8 a Genova, assumendosene la
parte di responsabilità, e di difficoltà, che le compete, a partire dalla
propria rappresentanza. Non è infatti semplice per una organizzazione sindacale
industriale centenaria, fortemente segnata dalla cultura del lavoro e della
organizzazione proprie del Novecento, misurarsi con culture radicate in realtà
diverse dai propri insediamenti tradizionali, con altri soggetti e altre
pratiche. C’è da dire però che, soprattutto tra i giovani che costituiscono
gran parte dei movimenti, si manifestano interesse e aspettative, purtroppo
ancora poco corrisposte, nei confronti della migliore tradizione sindacale:
quella fondata sulla solidarietà, il coraggio e la lotta per far valere i
diritti sul lavoro e al lavoro, e dunque più aperta all’ascolto.
Si
tratta anche di una occasione per ricominciare a stabilire legami con culture
con le quali in altri tempi ci sono state relazioni e scambi importanti. Penso
alle culture centrate sull’ambiente e sulla critica alla neutralità della
scienza, soprattutto in un tempo in cui, come oggi, le nuove tecnologie vengono
sempre più usate a fini bellici, e nascono proprio all’interno
dell’industria militare; penso ai rapporti, che in altri anni hanno
contaminato produttivamente la “cultura operaia”, con i movimenti femministi
e con quelli per la pace.
Come ha
detto un dirigente sindacale dell’auto degli Stati Uniti, intervenuto in un
recente dibattito con delegati e delegate metalmeccaniche in Italia, «nel
contesto politico in cui viviamo oggi, il movimento dei lavoratori non può
isolarsi dalla comunità progressista: se lo facciamo, perdiamo».
Inoltre,
all’interno di questi movimenti c’è anche un insieme di associazioni e
gruppi con cui è utile per il sindacato stabilire un rapporto di conoscenza e
alleanza: mi riferisco a coloro che lavorano sulla riforma delle istituzioni
internazionali, in particolare quelle economico-finanziarie. Le quali, ad
analizzarne i meccanismi e i processi decisionali, mostrano quanto distanti
siano i criteri che le governano dal mondo del lavoro e quanto siano invece
guidati da opzioni finanziarie, decise da burocrati designati senza alcuna
legittimazione né trasparenza.
Per
citare una figura di attualità, Renato Ruggiero, oggi ministro degli Esteri del
governo Berlusconi e precedentemente direttore generale dell’Organizzazione
mondiale del commercio, lasciando questo incarico disse: «Non stiamo più
scrivendo le regole dell’interazione tra economie nazionali separate. Stiamo
scrivendo la costituzione di una sola economia globale». Ora un tema, tra gli
altri, sui cui da Seattle in poi il movimento antiglobalizzazione si è
mobilitato, si può così formulare: «Dove stanno in questa costituzione le
regole che tutelano le persone?». Queste regole non ci sono; al contrario, i
punti su cui si basa l’Omc (Organizzazione mondiale per il commercio) — e che
sono anche a fondamento delle scelte della Banca mondiale e del Fondo monetario
internazionale — sono la deregolamentazione, la liberalizzazione
del mercato di prodotti e capitali, le privatizzazioni, la ristrutturazione
industriale e tutto ciò che ha concorso a formare il cosiddetto ‘consenso di
Washington’.
L’insieme
di questi movimenti, proprio grazie alle differenze esistenti al suo interno, e
anche a causa della presenza di una piccola parte che vede nello scontro di
piazza il mezzo e il fine della protesta, è divenuto oggetto di attacchi
prevenuti e poco intelligenti, come dimostra lo spiegamento che si annuncia di
forze di polizia e blocchi militari attorno alla riunione del G8 del 20-22 luglio a Genova, e il clima che si
vuole montare per blindare la città, con una campagna di stampa terroristica
contro il ‘popolo di Seattle’, mentre non è stata ancora accordata nessuna
struttura di accoglienza né autorizzazione a manifestare, a molti mesi dalle
prime richieste del Genoa Social Forum.
Voglio
perciò fare mio, in conclusione, l’appello del sindacalista americano: «Vi
dico che abbiamo bisogno di raddoppiare i nostri sforzi per non consentire loro
di dividere la coalizione di Seattle, anche se so che talvolta noi del movimento
dei lavoratori ci interroghiamo sulle reali intenzioni delle ‘tartarughe’*,
ma esattamente come i nostri amici ambientalisti possono talvolta avere dubbi
sulla sincerità del sindacato».
·
il travestimento degli ambientalisti nelle manifestazioni
di Seattle