FORUM SOCIALE EUROPEO

Atene, 4/7 maggio 2006

 

Strategie di delocalizzazione delle imprese multinazionali

solidarietà e iniziative contro il dumping sociale

intervento di Sabina Petrucci, Ufficio Europa Fiom nazionale  

   

L’attuale fase di delocalizzazione delle produzioni da parte delle Multinazionali era già annunciata negli anni 90 con la strategia dell’ esternalizzazione o outsourcing come veniva chiamata che metteva fuori dalla fabbrica interi pezzi di produzione e di servizi con la scusa di dedicarsi, dicevano le aziende, al “core business”. Quella strategia ha avuto come conseguenza una parcellizzazione delle fasi di produzione, una perdita di controllo sull’organizzazione del lavoro ovvero sulle stesse condizioni di lavoro, l’indebolimento dell’azione sindacale (non a caso a livello europeo inizia dagli anni 90 una perdita di iscritti consistente che viene mascherata con le fusioni tra vari settori) con un frazionamento della rappresentanza a cui non è stata contrapposta una strategia sindacale.

Oggi attraverso la svalorizzazione totale del valore del lavoro e la sua riduzione a puro elemento competitivo (si compete su tutto e con tutto e quindi anche sulle persone) permette alle aziende multinazionali di operare scelte impensabili solo alcuni anni fa da un punto di vista industriale e sociale. Così Electrolux vuole passare nell’Europa dell’Ovest dai suoi 17 stabilimenti a 6. Ad oggi sono già circa 4000 i posti di lavoro persi mentre i profitti aumentano.

Con l’utilizzo della magica parola “flessibilità” oggi le aziende avendo come obiettivo esplicito solo quello di ridurre i costi applicano la strategia di mettere in competizione lavoratori contro lavoratori attaccandone direttamente i diritti. Il risultato è il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’aumento della precarizzazione, la riduzione del peso contrattuale del sindacato. A questo va aggiunto che lo spostamento massiccio delle produzioni non genera nei paesi dell’allargamento una crescita considerevole né dei sindacati di quei paesi nè una contrattazione diffusa né un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita di quei lavoratori e lavoratrici.

Solo alcuni esempi: nel 2004 il reddito salariale annuo in Bulgaria era di 3.315 Euro contro i 46.750 del Lussemburgo; un reddito tedesco è stato in quell’anno 4.3 volte superiore a quello polacco.

Voci come produttività e orari di lavoro contengono analoghi delta.

Va detto che tra il 2000 ed il 2004 gli aumenti salariali dei nuovi paesi è stato elevato, per esempio in Lituania +22%; in Ungheria +16.7%; in Polonia +11.6%. Nello stesso periodo l’aumento salariale in Inghilterra è stato del 6.9%, in Francia del 3.1% ed in Germania dello 0.1%.

La maggior parte delle delocalizzazioni avviene entro i 25 paesi dell’Europa (a dispetto della  sindrome cinese). Si delocalizzano non solo  produzioni a basso costo ma anche  ricerca, sviluppo, engeneiring etc. Uno dei settori più colpiti è quello degli elettrodomestici . Le vendite di elettrodomestici  diminuiscono in Francia e Germania mentre il mercato comune è in espansione. Nonostante questo in Francia si vendono ancora 12.8 milioni di prodotti elettrodomestici in un anno (Le Monde 27.2.2005).

Tassazione: La tassazione è un ulteriore elemento di competitività nelle delocalizzazioni. In quasi tutti i nuovi stati membri c’è un’unica aliquota al 16% (peraltro sembra che sui profitti aziendali la stessa aliquota scenda) anche se va considerato che la tassazione reale nei vecchi 15 paesi è inferiore all’ufficiale poiché usufruiscono di notevoli sgravi ed incentivi.

 

CONCLUSIONI E PROPOSTE

Le delocalizzazioni non sono un fatto ineluttabile. Sono scelte economiche strategiche delle aziende e in quanto tali si possono influenzare, impedire, modificare. E’ necessario individuare strategie e strumenti. Bisogna innanzitutto rifiutare la chiusura degli stabilimenti e attivare una lotta solidale europea di tutti i lavoratori e lavoratrici.

1) La contrattazione collettiva, il diritto di sciopero e la legislazione  sono gli strumenti a sostegno delle ragioni dei lavoratori per influenzare le scelte delle imprese.

2) Dobbiamo richiedere un forte ruolo dell’intervento pubblico  a livello europeo e dei singoli paesi per riequilibrare un mercato senza regole. Valorizzare la vocazione industriale dell’Europa con interventi mirati sui settori produttivi (basta con la famosa teoria che ad un posto di lavoro perso nel settore industriale basta contrapporne uno nei servizi o nel commercio).

3) Bisogna ridurre e controllare gli incentivi per le delocalizzazioni. Pretendere investimenti a livello europeo, nazionale, locale ed aziendale su innovazione prodotto, ricerca e sviluppo etc.

4) Pretendere interventi mirati sulla tassazione e su incentivi e/o disincentivi a livello europeo.

5) Costruire una carta sociale che a fronte di delocalizzazioni pretenda minimi standard europei sulle condizioni di lavoro e sul welfare sociale dei paesi dell’allargamento.

6) Costruire ed ottenere uno statuto dei lavoratori europei che affermi i diritti sindacali ovunque.

7) Organizzare una grande lotta contro la precarizzazione attraverso incentivi e con una  contrattazione che coinvolga anche i paesi dell’allargamento.

8) Diritto alla formazione permanente dei lavoratori e lavoratrici.

9) Prevedere costi elevati per le aziende che delocalizzano anche attraverso la ricollocazione dei lavoratori e lavoratrici e costi sociali condivisi (ad ora le imprese non pagano alcun costo sociale poiché viene scaricato interamente sui singoli stati).

10) Riaprire una grande stagione di richieste salariali per ripristinare i tassi di consumo nei vecchi 15 e sviluppare nuova domanda nei paesi dell’allargamento (dove i lavoratori producono merci che non possono acquistare).

11) Coordinare la contrattazione a livello europeo, coordinare le lotte di solidarietà, dotarsi di una strategia che aiuti la nascita di un vero sindacato europeo: democratico, solidale, rappresentativo e combattivo.

 

Atene, 5 maggio 2005