Le conseguenze del disegno di legge delega sulle pensioni. Crepe nel secondo pilastro.

 Articolo di Gianni Ferrante pubblicato su “Rassegna sindacale” n. 24, 17 giugno 2004

Dopo l’approvazione del 13 maggio al Senato, tramite la fiducia, del disegno di legge delega sulla previdenza quelle che erano diffuse preoccupazioni si sono trasformate in allarme. E ciò non soltanto perché il testo votato contiene significativi peggioramenti e conferma la volontà di questo governo di sottrarsi sia al confronto con le parti sociali che al dibattito parlamentare, ma perché all’allarme è necessario che segua una reazione democratica, una capacità di mobilitazione, una forte richiesta di modifica del provvedimento prima che questo passi anche alla Camera, ma anche dopo, nei 18 mesi previsti per la definizione dei decreti attuativi (che riguardano molte questioni rimaste in sospeso).

Come noto il disegno di legge investe sia la sfera della previdenza pubblica che quella complementare, realizzando un forte intervento peggiorativo rispetto a quelli che erano i già coraggiosi principi su cui si fondava la riforma Dini del ’95 (sistema misto pubblico-privato,  introduzione metodo contributivo). In questi ultimi tre anni si è tenuto in sospeso un provvedimento di legge che oltre a saltare il confronto con le rappresentanze sociali del lavoro, ha di fatto realizzato un progressivo spostamento da un sistema in equilibrio tra pubblico e privato, capace di salvaguardare principi generali, di solidarietà e di controllo democratico, a uno sbilanciamento a favore di interessi privati, di mercato e individualistici.

Qui non ci soffermeremo sui pesanti effetti che il disegno di legge ha sulla previdenza pubblica (allungamento dell’età lavorativa, cancellazione degli elementi di flessibilità nell’andata in pensione, ecc.) quanto su quelli relativi alla previdenza complementare.

E se due scioperi generali hanno finora consentito di respingere provvedimenti sbagliati come la diminuzione delle aliquote previdenziali a carico del datore di lavoro (decontribuzione) e il trasferimento obbligatorio del Tfr ai fondi pensione, ciò non ha impedito che nel disegno di legge si assumesse il principio secondo cui il trasferimento del Tfr alle forme pensionistiche complementari non deve comportare oneri aggiuntivi per le imprese, prevedendo oltre a (giuste) compensazioni in termini di accesso al credito (soprattutto per il sistema delle pmi), anche “un’equivalente riduzione del costo del lavoro” e l’eliminazione del contributo al fondo di garanzia (mentre quest’ultimo ha particolare importanza, nel senso che contribuisce a mettere al riparo il lavoratore dai datori di lavoro inadempienti).

Essendosi adottato il principio del silenzio-assenso, il lavoratore ha sei mesi di tempo, dall’entrata in vigore del provvedimento, per manifestare in forma scritta la volontà a non trasferire il tfr alle forme pensionistiche complementari. Se il lavoratore non agisce nel tempo previsto il suo silenzio viene considerato assenso e deve a questo punto scegliere il fondo in cui deve essere trasferito il tfr. Se il silenzio dell’interessato permane il provvedimento (attraverso i successivi decreti legislativi!!) indicherà “modalità tacite di conferimento” alle forme pensionistiche: fondi istituiti o promossi dalle regioni, fondi negoziali, fondi aperti!!

E qui si aprono alcuni altri rilevanti problemi. Intanto il provvedimento indica la necessità che sia garantita al lavoratore un’adeguata informazione sulla facoltà di scegliere le forme pensionistiche a cui conferire il tfr. Tutti quelli che si sono occupati di previdenza complementare sanno come sia in passato mancata una campagna di informazione pubblica e come tale compito sia ricaduto esclusivamente sulle spalle dei sindacati e dei pochi fondi allora esistenti: sarebbe quindi opportuno che a riguardo ci fossero impegni precisi da parte del governo. In secondo luogo, più importante, il provvedimento introduce una grave equiparazione tra fondi negoziali collettivi, fondi aperti e polizze previdenziali individuali (scelta criticata dall’Assofondi), forzando e di fatto scardinando quello che era l’equilibrio su cui si fonda la previdenza complementare. I fondi negoziali di categoria offrono requisiti di trasparenza, controllo e costi contenuti che gli altri strumenti non contengono perché rispondono esclusivamente a logiche di mercato. E’ la Covip, ad esempio, a ricordare che gli oneri complessivi di gestione dei fondi negoziali sono inferiori allo 0,5%, mentre quelli dei fondi aperti si aggirano intorno all’1,8-1,2% e quelli dei piani individuali di previdenza tra l’8,4 e l’1,9% del patrimonio!! Dopo di che il disegno di legge delega indica genericamente l’esigenza di “definire regole comuni inerenti alla comparabilità dei costi, alla trasparenza e portabilità ed equiparazione tra tutte le forme previdenziali”: un’impresa quantomeno complessa.

Ma uno dei punti più insidiosi del provvedimento risiede nel ruolo che si viene ad assegnare ai fondi regionali (come conseguenza della riforma del Titolo V della Costituzione). C’è qui non solo il rischio di una frantumazione dei diritti e dello opportunità: infatti a fronte di una previdenza obbligatoria regolata dallo Stato secondo principi universali, si aggiungerebbe (aldilà dei fondi nazionali) una previdenza complementare integrativa che non solo potrebbe prevedere diversi diritti e prestazioni da regione a regione, ma creare disuguaglianze profonde tra regioni ricche e altre con minori risorse, regioni in grado di promuovere le iscrizioni ai fondi e altre impossibilitate a farlo. Inoltre la deriva dei fondi regionali potrebbe pericolosamente collegarsi a un indirizzo contrattuale, ricercato dal governo, a favore del livello decentrato.

A fronte di tale quadro, di cui abbiamo richiamato solo i punti principali (ma ce ne sono altri, ad esempio, relativi agli incentivi fiscali e alla con titolarità dei fondi e degli iscritti per il diritto alla contribuzione e alla legittimità dei fondi a rappresentare i propri iscritti nelle controversie per omissione di contributi), occorre promuovere momenti di approfondimento sia a livello nazionale che a livello territoriale, anche al fine di promuovere la necessaria ripresa delle iscrizione ai fondi oltre che difenderne i capisaldi riformatori.

 

Gianni Ferrante (Coordinatore nazionale Fiom Fondi pensione)